Nel marzo scorso usciva su Planetmountain.com una molto interessante intervista ad Angelo Seneci che qui riprendiamo integralmente.
Ci permettiamo di obiettare che, a nostro avviso, i motivi per cui, secondo lo stesso Seneci, “non c’è spazio per una normazione da parte delle istituzioni o di organismi di normazione (tipo CEN)” sono gli stessi per cui siamo contrari all’adozione di label (tipo checked crag) che rendano riconoscibili le falesie sulle quali sono stati operati interventi di particolare e accurata rilevanza.
L’effetto dei label “di aiutare i praticanti nella scelta delle falesie, ma anche di facilitare l’investimento pubblico, che potrebbe vedere definiti i limiti della propria responsabilità e potrebbe proteggerla con una polizza” è altamente nocivo perché, sempre a nostro avviso, si abbasserebbe in maniera assai pericolosa il livello di guardia e di responsabilità dei singoli.
La frase di Seneci “Peraltro alcuni recenti incidenti suggeriscono che questa assuefazione alla sicurezza garantita stia contaminando anche i più esperti” farebbe supporre che anche a lui la suesposta nostra considerazione non sia estranea.
Arrampicata in falesia, è il momento della scelta. Intervista ad Angelo Seneci
(postata su Planetmountain il 19 marzo 2015)
Prima di affrontare l’argomento su chi, come, in quale misura e perché dovrebbe interessarsi della “sicurezza” delle falesie attrezzate per l’arrampicata sportiva, mi piacerebbe fare un salto indietro a quando tutto è nato, cioè agli inizi o quasi dell’arrampicata sportiva. A metà degli anni ’80 eri una giovane Guida alpina ma anche un arrampicatore che aveva scelto Arco, anzi il campeggio di Arco, come la sua casa. Qual era l’approccio all’arrampicata in falesia in quel periodo?
Mi fai fare un salto temporale, stiamo parlando di anni luce fa, e non solo perché sono passati trent’anni ma perché l’arrampicata è cambiata completamente da allora. Ma forse è giusto che ricordiamo un percorso, anche personale, attraverso cui l’arrampicata si è evoluta in quello che è adesso, non faccio valutazioni se si tratti di una evoluzione o involuzione, registro un dato e non mi addentro in valutazioni sull’etica, queste le riservo ad aspetti un po’ più fondamentali della vita.
Fino alla metà degli anni ’80 mi ero dedicato, anche come guida alpina, soprattutto all’alpinismo, con le sue regole e dinamiche, che tuttora apprezzo anche se non pratico più, e tuttavia è chiaro sono cosa completamente diversa dallo sport arrampicata, non solo per il terreno d’azione. Poi sono arrivato ad Arco ed ho scoperto un territorio che da subito ho immaginato potesse trasformarsi non solo in una grande palestra a cielo aperto ma in un grande parco giochi dell’arrampicata. Uso appositamente il termine parco giochi perché troppe volte viene usato in termini negativi, quasi che uno spazio attrezzato per giocare possa essere qualcosa di disdicevole.
L’arrampicata in falesia allora muoveva i suoi primi passi in modo autonomo dall’alpinismo, questa battaglia per l’autonomia ci portava spesso a sentirci diversi, a farne una ragione di vita, spesso una filosofia totalizzante, e questo portava ad isolarci dal mondo “normale “, incapaci di interagire con le istituzioni politiche, sportive, economiche… insomma ci si isolava in una torre di avorio che ha contribuito a fare per lungo tempo del climbing una attività di nicchia, decisamente élitaria. Il problema è che ancora in molti, e soprattutto tra gli opinion leader, la vivono in questo modo. Pur a parole rifuggendo la guerra con l’alpe, la sfida al pericolo e parlando di valorizzazione del gesto, in realtà avevamo trasferito a bassa quota, le stesse dinamiche: si arrivava così a ridicole guerre per bande tra chi chiodava più o meno lungo, i terribili run-out facevano a volte la difficoltà della via, come anche il primo chiodo altissimo. Insomma, eravamo in un altro mondo dall’arrampicata sportiva come è concepita adesso dalla maggioranza dei climber.
Quale era il concetto di “rischio” e “sicurezza” e quindi di attrezzatura della falesia in quegli inizi? E quando si è cominciato ad usare il termine arrampicata sportiva per diversificarlo dalle attività alpinistiche?
Come dicevo l’arrampicata allora cercava una sua strada autonoma, ma non era ancora veramente “sportiva”, spesso la distanza tra le protezioni faceva lo stile della via, faceva parte della difficoltà. Richiodare modificando il posizionamento delle protezioni sembrava un attentato ad un’opera d’arte. Rivendico di non aver mai fatto parte di questo partito, mi è sembrato sempre un po’ stupido rischiare la pelle su una parete di poche decine di metri, solo per non compromettere l’autostima di qualcuno, avere attrezzato una parete non può arrogarti il diritto di proprietà, ammesso tu non l’abbia acquistata. Ripeto qui stiamo parlando di uno sport, non entro nel merito dell’arrampicata sulle grandi pareti o l’alpinismo dove sfida all’ignoto ed alla natura possono avere un senso.
Sportiva l’arrampicata lo diventa solo con la nascita delle competizioni, dove la quota rischio viene eliminata del tutto. Su quelle prime falesie attrezzate per le competizioni ci si confronta la prima volta con le problematiche della sicurezza e responsabilità. Dietro la competizione c’erano organizzatori privati ed enti pubblici, per la prima volta si potevano individuare soggetti responsabili in caso di incidente, soggetti che ovviamente potevano venire perseguiti ed a cui si sarebbero potuti richiedere i danni.
In arrampicata su Cato/Zulu (6b+) a Nago
Le prime gare di arrampicata (Bardonecchia e subito dopo il Rock Master di Arco) hanno modificato qualcosa?
Evidentemente le gare hanno iniziato a modificare il metro di giudizio, la sola performance atletica diventava la misura della capacità… ma questa è storia assodata. Fu solo una conseguenza di uno sport che nasceva e cercava un nuovo metro di confronto. Tuttavia questa è solo la prima trasformazione del climbing e forse nemmeno la più determinante.
Come direttore sportivo del Rock Master hai ideato e realizzato se non la prima, una delle primissime pareti artificiali per l’arrampicata, quella che ha fatto nascere il Climbing Stadium di Arco ed ha fatto la storia delle competizioni di arrampicata. Era il primo seme di quelle che sarebbero diventate le palestre di arrampicata indoor?
La parete artificiale che realizzammo nel 1988 per il 2° RockMaster fu una delle prime strutture artificiali per arrampicata e sicuramente la più complessa ed imponente struttura dell’epoca. Le strutture artificiali erano allora e lo rimarranno ancora per il decennio successivo mosche bianche nel panorama dell’impiantistica sportiva. Ma sarà proprio la loro diffusione il secondo elemento a completare la rivoluzione dello sport climbing.
Appunto, cosa ha comportato il boom dell’arrampicata nelle palestre indoor negli anni 2000? Indoor e falesia sono due mondi separati?
A partire dalla seconda metà degli anni ’90 e soprattutto con il nuovo millennio le strutture artificiali sono diventate in molte aree d’Europa elementi comuni nelle palestre scolastiche, palazzetti dello sport, e poi nelle grandi sale dedicate. L’urbanizzazione dell’arrampicata ne ha determinato la mutazione genetica, dando il via ad una nuova cultura di questo sport. Il primo e macroscopico effetto è stato portare a contatto con questa disciplina milioni di persone che non lo avrebbero mai provato, per i quali sarebbe rimasto solo uno sport estremo per quei “pazzi” a mani nude, quello che i vari spot televisivi mostravano dell’arrampicata e in tanti nel mondo del climbing si premunivano di continuare a tramandare, ed in parte cercano tuttora. I nuovi arrivati sono persone che vivono l’arrampicata solo come una sana e appassionante attività sportivo ricreativa da praticare a scuola, dopo lavoro, nel week end. Ovvio che questo mondo non esprime più una filosofia di vita comune, anche se alcuni tratti rimangono come trama di fondo. Le sale di arrampicata sono ormai diventate il nuovo polo di aggregazione, ma anche gli incubatori di una nuova cultura dello sport climbing.
Prima di continuare puoi darci dei “numeri” di questo fenomeno indoor, ma anche di quello dell’arrampicata sportiva in falesia? Quanti sono i climber nel mondo, quanti in Europa, in Italia? Se batti questa frase su internet ne leggi di tutti i colori, ovviamente tutto sta dove metti il limite. Chi è il climber?
Per prima cosa mi pongo una domanda: chi è lo sciatore? consideriamo sciatori quelli che vanno una settimana all’anno in settimana bianca? cinque week end all’anno? Ovviamente sì, comperano attrezzatura, abbonamenti agli impianti, scendono per le piste. Lo stesso parametro va applicato all’arrampicata, eppure alcuni potrebbero inorridire se chiami climber qualcuno che scala venti 5b all’anno. E’ per questo che stimo a 3/4 milioni, e penso di essere conservativo, il numero dei climber in Europa, se poi andiamo a cercare di valutare quanti hanno provato l’arrampicata almeno una volta i numeri sono di ordine ben superiore. L’arrampicata non è più uno sport estremo di élite ma una attività sportivo-ricreativa aperta a tutti.
Come sei arrivato a questi dati?
Da alcuni anni sono consulente per enti pubblici e privati per piani di sviluppo turistico centrati sull’arrampicata e l’outdoor, valutare il mercato in termini di domanda e offerta è quindi un elemento fondamentale. Tuttavia i dati non erano disponibili e in effetti non è facile reperirli, proprio perché per arrampicare non si paga un biglietto, ovvero non si pagava… e qui ci vengono ancora in aiuto le strutture artificiali, soprattutto le sale dedicate. Incrociando i dati della frequentazione, del tasso di utilizzo da parte del singolo, il numero di impianti, i dati sul mercato delle attrezzature dedicate, in numeri degli associati dei vari club, ed ovviamente confrontatomi con altri esperti – siamo arrivati a questi numeri, con la Germania a fare da leader dove il climber sono stimati attorno ai 700.000 (c’è chi si spinge ad oltre il milione), in Italia possiamo pensare a 250/300.000. Ti faccio solo un esempio nell’area di Monaco di Baviera le cinque maggiori sale indoor mettono assieme circa 70/80.000 singoli utilizzatori (non entrate).
Veniamo al punto. Alcuni recenti incidenti in falesia, anche gravi, hanno stimolato un acceso dibattito sul tema della “sicurezza” in falesia. Per farla breve: il mondo dell’arrampicata sportiva sembra dividersi tra la “libertà” (ricerca delle falesie, delle linee e conseguente chiodatura) che ha sempre caratterizzato l’arrampicata outdoor e la necessità di adottare sistemi controllati di gestione delle falesie, soprattutto per quanto riguarda la loro “sicurezza” e manutenzione nel tempo. Voi ad Arco – con il Comune di Arco – già alla fine degli anni ’80 avete attuato un grande piano per la gestione di alcune falesie, cosa vi ha ispirato e perché l’avete fatto?
Il merito di questo progetto, di cui sono stato promotore con mia moglie – Michela Giovanazzi – nei primi anni ’90 è stato quello di vedere avanti di oltre 15 anni: capire che l’arrampicata sportiva avrebbe potuto trasformarsi compiutamente in una attività sportivo-ricreativa ed una risorsa economica per il territorio solo se fossimo riusciti a proporre terreni di gioco accettabilmente sicuri, organizzati. Mi piace ricordare un modo di dire che avevo in quel periodo per convincere gli amministratori pubblici: inventare il Beach Climbing. Beach Climbing non tanto per la location, ma come modus vivendi. Per il Garda Trentino erano quelli gli anni del boom del wind surf volevo fare ripercorrere all’arrampicata quella strada, dai primi surfer che scendevano dal Nord Europa con il loro scassati Westfalia, ai giovani e famiglie che dieci anni dopo affollavano le spiagge con le tavole e le notti di Torbole e Riva del Garda. Solo così potevamo fare dell’arrampicata una risorsa turistica, e devo dire che è stata una scommessa vinta, basta fare un giro a Nago Bassa, Muro dell’Asino, Massone, Baone o ai Massi di Prabi e del Gaggiolo. Vinta soprattutto perché le amministrazioni pubbliche ci hanno creduto ed investito. Fin dall’inizio è stata chiara la scelta ci sarebbero state le falesie “pubbliche” – veri e propri impianti sportivi naturali – e le falesie “wild” attrezzate dagli appassionati e non soggette a nessun controllo pubblico.
In arrampicata sulle falesie di Arco. Foto: Leo Himsl
Puoi esporci le linee guida essenziali e l’evoluzione nel tempo del modello “Arco e Garda Trentino” applicato alle falesie di arrampicata? Qual è il suo futuro?
Ovvio che arrivare a tutto questo non è stato immediato, ci sono voluti anni e soprattutto amministrazioni pubbliche capaci di una visione a lungo termine, oltre al Comune di Arco devo ricordare il Servizio Ripristino e Valorizzazione Ambientale della Provincia di Trento, trent’anni fa non era facile immaginare la strada che avrebbe preso questo sport. Dai primi climbing park degli anni ’90, che ricordo con piacere hanno fatto parlare di Arco tutte le riviste internazionali, al piano generale delle falesie del 2000, fino al 2009 con la nascita del progetto OutdoorPark Garda Trentino. Questo progetto vede Ingarda – Azienda di Promozione Turistica dell’ambito – farsi promotrice e regista di un tavolo di lavoro permanente per lo sviluppo del turismo outdoor a cui siedono le sei amministrazioni della sponda trentina del Garda, la Provincia di Trento oltre alle associazioni di riferimento. In questo ambito oltre a stabilire piani e modalità di attrezzatura e ri-attrezzatura della nuove falesie è stato definito anche un protocollo comune di controllo delle stesse. Le 13 falesie già attrezzate dalle amministrazioni pubbliche e quelle che in futuro si aggiungeranno ed entreranno a fare parte dell’OutdoorPark sono identificate dal logo del progetto, a garanzia per gli utenti di incontrare un definito standard di attrezzatura. A questo si affianca un accordo con la Provincia di Trento – Servizio per il Sostegno Occupazionale e Valorizzazione Ambientale – e la Comunità di Valle che mettono a disposizione tutto l’anno una squadra di operatori, per gli interventi di pulizia e sistemazione di accessi ed aree al piede delle pareti. Solo queste falesie sono oggetto di promozione da parte dell’ente pubblico. Incarico a professionisti per l’attrezzatura, controllo e manutenzione regolare, corretta informazione e promozione, sono questi elementi che garantiscono non solo gli utenti ma anche gli enti che hanno finanziato gli interventi.
Quali sono le caratteristiche che devono avere le falesie per rientrare nel piano? Inoltre, pensate che sia un modello da estendere a tutte le falesie del vostro territorio?
Come dicevo prima le falesie inserite nel piano sono tredici, contro le oltre 40 esistenti nell’ambito del Garda Trentino (non conto qui l’area della Gola, Valle di Gresta e Cavedine che fanno parte di altri ambiti turistici). Proprio perché debbono avere precisi standard non tutte le falesie possono rientrare nel progetto. Requisito essenziale è che insistano su terreno pubblico o il proprietario sottoscriva un accordo di libero accesso su un lungo periodo: diversamente non sarebbe possibile un investimento pubblico. Viene poi verificata la presenza di pericoli esterni non eliminabili o non controllabili nel tempo – esempio classico una falesia sottostante barre rocciose con importanti rischi di caduta sassi, ecco la risposta a chi si chiede perché mai si sia investito sulla richiodatura di aree come San Paolo o Swing Area. Dal 2011 le nuove falesie attrezzate sono soggette anche ad una verifica geologica per evidenziare macro instabilità – da sanare o che possano limitare l’uso della parete. Infine ci sono valutazioni di carattere economico, che mi rendo conto ad alcuni possano risultare incomprensibili o sgradite, ma il mondo risponde a requisiti di redditività che peraltro trovo giusti: stiamo investendo soldi pubblici e questo investimento deve portare un ritorno all’intera comunità non ad una ristrettissima cerchia. Ecco perché la scelta negli ultimi 5/6 anni è stata di orientare gli investimenti sulle falesie “facili”. Ed ancora valutazioni di tipo logistico (pressione eccessiva su una area, possibilità di parcheggio e mobilità), ecco perché a volte si trascurano aree evidenti ma dove un aumento di traffico comporterebbe problematiche e magari si sceglie una nuova parete per spostare i flussi.
I risultati di questa gestione, quali i successi e quali le criticità?
Il successo è reso evidente dall’elevata frequentazione, per la stragrande maggioranza concentrata sulle falesie dell’Outdoor Park Garda Trentino: ritengo che si possano stimare in almeno 150. 000 gli arrampicatori che ogni anno frequentano le nostre pareti. Tuttavia non tutti gli obbiettivi che ci eravamo dati sono stati raggiunti, ovviamente ci sono a volte problemi in termini di risorse economiche, altri di carattere burocratico: pur importantissima risorsa l’arrampicata non è sola al mondo e deve confrontarsi con esigenze e sensibilità diverse. Le principali difficoltà permangono nella gestione dei flussi e dei parcheggi – su cui stiamo lavorando con l’ipotesi di parcheggi di testata localizzati vicino ai principali assi viari e accesso alle falesie con shuttle o a piedi, o ancora la difficile gestione dei servizi igienici, per cui stiamo provando nuovi sistemi dry o bio, ma che al momento non è ancora risolta. Nei confronti dell’attrezzatura il piano prevede di continuare nell’opera di ribilanciamento dell’offerta – con l’obiettivo nei prossimi anni a raddoppiare il numero degli itinerari fino al 6a che entrano nell’Outdoor Park Garda Trentino.
Veduta sulla Valle del Sarca dal Castello di Arco
E’ esportabile questo modello Garda Trentino e quali sono le realtà territoriali che secondo te possono o dovrebbero prenderlo in considerazione?
Ovviamente nessun modello è esportabile tout court, deve essere adattato alla realtà locale. Il modello Garda Trentino può essere un riferimento per destinazioni turistiche che vogliano fare dello sport outdoor e dell’arrampicata una risorsa economica. Voglio sottolineare ma qui il discorso diventa lungo che un simile progetto per essere sostenibile deve essere inserito in un piano di sviluppo integrato del turismo outdoor sostenuto da una azione coordinata di pubblico e privato, ben difficilmente avremo ritorni interessanti limitandoci a finanziare l’attrezzatura delle falesie. In Italia vedo grandi possibilità di sviluppo, sono moltissime le aree di arrampicata di grande pregio, espresso o potenziale, soprattutto sulle basse e media difficoltà. Spesso ritengo non siano riuscite a decollare proprio per l’assenza di questa visione, con i climber locali che puntano ad ottenere finanziamenti per il proprio giardinetto e/o non sono capaci o non vogliono giocare sul tavolo della politica ed amministrazione, che ovviamente hanno i loro tempi e modalità. Ma sono possibili anche altre approcci: penso ad una associazione, una società sportiva che addotti una falesia, ottenga un contributo pubblico o privato per la attrezzatura e ne garantisca nel tempo controllo e manutenzione, come peraltro è già avvenuto in alcune situazioni. E’ innegabile come lo sport arrampicata abbia un forte appeal sulle giovani generazioni, non richieda enormi investimenti per la attrezzatura delle pareti naturali, e possa diventare quindi una opzione interessante di investimento sul lato sociale dello sport per gli enti pubblici. Anche qui però dobbiamo parlare di progetti sostenibili e interessanti per una larga base e quindi strutture medio- facili. Certamente una amministrazione sarà scarsamente interessata ad investire per venti atleti che scalano oltre il 7b, mentre lo potrebbe essere per una falesia dove esistono spazi dove avvicinare i giovani. Chiaro che anche in questo caso è necessario uscire dall’approccio naif che spesso caratterizza le richieste di contributo e presentare progetti circostanziati. D’altronde sarebbe pericoloso per una amministrazione elargire contributi alla cieca – ad un’associazione o gruppo di appassionati per chiodare una falesia – fuori da qualsiasi pianificazione sia in termini progettuali che di garanzia di manutenzione nel tempo. Su chi ricadrebbe la responsabilità in caso di incidente dovuto a materiale non idoneo o deteriorato?
Ma allora chi si occupa degli itinerari di alto livello?
Forse prima sono stato un po’ drastico, perché c’è necessità di ribilanciare l’offerta. Tieni in conto che dai dati che abbiamo dalle grandi sale europee l’80% degli utenti arrampica sotto il grado 6, mentre nella maggior parte delle aree di arrampicata la disponibilità di itinerari di questo livello non supera il 40%. Voglio ricordare che anche ad Arco abbiamo riattrezzato alcune aree di alto livello – Massone / Abissi. Si tratta ovviamente di bilanciare gli investimenti, per creare uno spazio che sia in sintonia con la domanda. Ma poi si possono ricercare sponsorizzazioni da parte di aziende, che peraltro alcuni già percorrono, ovvio che anche qui occorre presentare un progetto interessante e giustificabile.
Così non rischiamo, come dicono gli oppositori alla “omologazione delle falesie”, di compromettere lo sviluppo di nuove falesie, dove mancano i finanziamenti o dove non è possibile intervenire per problemi legati alla proprietà, alla limitata sicurezza della parete, all’assenza di una associazione di riferimento o ente che voglia assumersi la responsabilità. Cioè non rischiamo di compromettere lo sviluppo dell’arrampicata?
Certamente se siamo troppo radicali in questa direzione lo scenario che hai ipotizzato potrebbe essere concreto. Dobbiamo trovare una strada che ci permetta di fare convivere le due realtà: falesie “certificate” e falesie ” non certificate”. Se ci pensi anche vent’anni fa era chiaro a tutti che arrampicare sul alcuni tiri voleva dire rischiare l’osso del collo, mentre su altri potevi permetterti di volare senza paura. Tutta la community lo sapeva, il tam tam spargeva la voce rapidamente, eravamo quattro gatti, ma soprattutto eravamo più o meno in grado tutti di valutare l’attendibilità di un ancoraggio o lo stato di usura di un punto di calata. L’enorme allargamento del numero di utenti e soprattutto l’arrivo degli urban climber, che sono stati introdotti all’arrampicata e la praticano per la maggior parte del tempo nelle sale indoor ha cambiato la situazione. Sulle strutture artificiali si delega la sicurezza, non sto a valutare se è un bene o un male, è un dato di fatto, peraltro esteso anche ad altri contesti della vita: alle norme CE, al costruttore dell’impianto, al proprietario, ovvio che ci si rapporti allo stesso modo in contesti naturali simili – le falesie attrezzate. Peraltro alcuni recenti incidenti suggeriscono che questa assuefazione alla sicurezza garantita stia contaminando anche i più esperti. Alla base di tutto ritengo sia fondamentale una corretta informazione. E’ evidente che ci sono falesie che possono garantire un alto livello di sicurezza e falesie il cui livello deve essere apprezzato dai climber, che debbono averne la capacità. Falesie quindi dove la sicurezza è affidata a terzi e falesie dove dovrò farmi carico di verificarla personalmente o comunque arrampicare sapendo che mi espongo a un più alto livello di rischio.
La Spiaggia delle Lucertole (Tòrbole)
Quindi come facciamo a distinguere questi due tipi di falesie?
Un’opzione potrebbe essere quella di un “label” “checked crag” che renda riconoscibili le prime, da riportare nelle bacheche, nelle guide, sulle relazioni. Questo avrebbe l’effetto non solo di aiutare i praticanti nella scelta delle falesie, ma anche di facilitare l’investimento pubblico, che potrebbe vedere definiti i limiti della propria responsabilità e potrebbe proteggerla con una polizza, ed anche stimolare, a fronte di una nuova possibilità – il label – promozionale. Non trascurerei nemmeno l’effetto positivo per chi realizza e pubblica guide e relazioni che avrebbe una potente e riconosciuta modalità disclaimer. D’altronde è quello che abbiamo fatto ad Arco e nel Garda Trentino.
Stai guardando un po’ troppo avanti?
Chiaro che non ci arriveremo domattina, ma se non affrontiamo il problema rischiamo che il ripetersi di incidenti risvegli l’interesse di qualche magistrato che normi, nei fatti, con qualche sentenza, magari con sensibilità diverse e conoscenze limitate, con conseguenze deleterie. Il primo problema che si pone è la definizione degli standard di sicurezza minimi per una “checked crags”, ma ancora prima chi li definisce. E’ ora che le istituzioni del climbing facciano la loro parte e creino un’autoregolamentazione prima che qualcun altro si dia da fare causando danni irreparabili allo sport arrampicata. Non ritengo ci sia spazio per una normazione da parte delle istituzioni o di organismi di normazione – tipo CEN. Le strutture naturali presentano così tante variabili da risultare quasi impossibili da normare nei termini classici, inoltre una normazione di questo tipo richiederebbe tempi talmente lunghi da non essere in grado di rispondere al problema in tempi accettabili ed in ogni caso questo non esclude un processo nazionale autonomo.
Quindi chi dovrebbe prendersi il carico “normativo”?
Ritengo che nessuna delle istituzioni coinvolte nell’arrampicata – FASI, CAI, UISP, GUIDE ALPINE, sia in grado attualmente di affrontare da sola questo problema, alcune hanno competenze, altre importanza istituzionale e diffusione capillare, ma tutte scontano una visione limitata al proprio ambito. Bene sarebbe si costituisse a breve un tavolo di lavoro, con la partecipazione paritetica di tutti, in grado di dare vita a un organismo che possa prima definire questi standard, poi gestirne la diffusione e la promozione e possa poi esserne il garante.
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Signor Nago (giacché ha delle lamentele da fare, potrebbe firmarsi per esteso, così verrebbero ascoltate), mi permetto di farle notare che nei primi anni 80 Arco era un luogo sconosciuto e anche un po’ sinistro. Ora forse è esagerato nel senso opposto: troppa cagnara, negozi gelaterie (nessuna però fa il gelato buono come a Finale), ciclisti e arrampicatori ovunque, ecc. Come se non bastasse il campo di motocross del Ciclamino ha pure un campo pratica, tanto per fare un po’ più di rumore.
Piaccia o no, però, l’indotto che l’outdoor ha creato penso che abbia fatto bene alla maggior parte degli abitanti. È ovvio che non si può essere tutti contenti uguale, questo non succede mai in nessun luogo.
Circa l’intervista a Seneci (ciao Angelo) è ancor più lampante oggi, più che nel 2015, che occorra fare una distinzione tra falesia top level e falesia popolare. Non fosse altro per l’ elevatissimo numero di praticanti tra cui il cannibalismo crovelliano abbonda in proporzione. E a maggior ragione nell’era post covid in cui sembrano tutti indiavolati a fare qualsiasi cosa purché si faccia. Che il tutto accada nel Parco Giochi è vantaggioso perché si toglie un bel peso antropico da quelle zone più selvagge dove va chi sa.
Che ce ne siano tanti non v’è dubbio.
ma accusare gli arrampicatori della devastazione del territorio, è veramente incredibile.
E’ proprio vero che ognuno di noi se le dice e se le canta.
Buona sera
Signor Seneci, ha mai pensato che forse gli abitanti della zona non vogliono le falesie e gli arrampicatori maleducati e sporcaccioni ? Magari preferiscono famiglie, che soggiornano in strutture invece che nelle campagne o a bordo strada, e che garantiscono una tutela maggiore del territorio? Si è mai fermato a pensare che questa visione è solo sua e dei politici che la stanno sostenendo, mentre la stragrande maggioranza della popolazione ne ha piene le scatole di questa devastazione del territorio e della libertà di movimento della gente che vive e lavora nel territorio?