A casa di Walter Bonatti

Nel nono anniversario della morte del grande alpinista.

A casa di Walter Bonatti
di Marco Albino Ferrari
(pubblicato su montagna.tv)

Lo studio è situato al primo piano. Si penetra dalla porta d’ingresso e subito a sinistra sale la scala che conduce nel regno dei ricordi. In quel piccolo ambiente, con il soffitto spiovente e foderato di legno, trovano posto i suoi ferri del mestiere: ottantamila fotografie, taccuini di viaggio, lettere, ricordi, trofei. L’ufficio è circondato da ripiani e da raccoglitori con file di piccoli cassetti, ognuno dei quali riporta una targhetta scritta a mano, in corsivo e con la biro blu, su cui è indicato l’argomento contenuto: AlaskaBurundiKrakatoaPatagonia. Non c’è una diapositiva fuori posto. Tutto è conservato in un ordine da farmacista, pronto per dar vita a nuovi articoli, per replicare serate nelle sedi locali del CAI (che rendono un bel gruzzoletto), o per pubblicare nuovi libri.

Di fianco alla fotocopiatrice e al fax, è posizionata la scrivania di legno, sulla quale trovavano posto un piccolo visore con il ripiano luminoso per le diapositive, una lampada da tavolo nera, diverse pile di fogli scritti a macchina. «Sono per il mio nuovo libro», dice Bonatti sedendosi serio alla scrivania. «Sai, io non uso computer» aggiunge con un risolino.

Alle sue spalle – e ciò lo noto solo dopo un istante – è posto un mobile di legno rivestito in carta da parati colorata con un fantasia raffigurante coste di libri affiancate: sembra una biblioteca, invece sono libri disegnati, libri finti!

Sono passati venticinque anni da quell’incontro. Era il 1995 e lui aveva 65 anni; era il Grande Uomo, il mito vivente dell’alpinismo, mentre io, giovane redattore alle prime armi assunto alla rivista Alp, ero al suo cospetto niente più che un nonnulla, una pulce, ambizioso aspirante scrittore che aveva in mente di ripescare la tragica storia del Pilone Centrale del Frêney per raccontarla in un libro. Quell’appuntamento, Bonatti me lo aveva fatto a dir poco sospirare. Prima sì, poi no: si era accorto che avevo scritto un articolo a lui poco gradito e aveva annullato il nostro incontro. Alla fine mi aveva detto al telefono «Perdonato», e io, arrivato nel suo nido (due case di pietra attigue, alle porte della Valtellina, da lui acquistate come ruderi e restaurate nel 1991 con Rossana Podestà), ero rimasto ospite due giorni filati con il registratore in mano, per raccogliere i suoi ricordi della tragica vicenda accaduta nel luglio del 1961.

Walter Bonatti nella sua casa di Dubino

Aveva 65 anni, come ho detto, e i tempi della vigoria fisica e dell’azione, sui quali lui aveva creato il mito di se stesso, erano ormai lontanissimi. Eppure ancora in quei tempi la sua popolarità non conosceva declino. Tutt’altro: più passavano gli anni, più il Grande Uomo veniva stimato, addirittura venerato dai giovani alpinisti. In tantissimi continuavano a scrivergli lettere di ammirazione e provavano per lui una stima incondizionata e addirittura crescente. E così anch’io, ovvio. La sua immagine non è ma stata offuscata dai nuovi campioni dell’alpinismo, al contrario: è lui che continua ad essere il riferimento, il peso massimo, in fatto di montagne. È uno strano mondo quello della montagna, dove ciò che viene dal passato, proprio perché ormai irripetibile e irraggiungibile (come certe vette), ha più prestigio di ciò che vive nel presente. In alpinismo non è importante solo la prestazione in sé, ma ciò che la prestazione rappresenta e come viene raccontata.

Foto Walter Bonatti davanti al Cervino. Foto: ANSA/Carlo Orlandi

In realtà, più che ricostruire ora per ora la vicenda del Pilone Centrale del Frêney, mi interessava saper altro da Bonatti. Chi c’era veramente dietro la sua immagine pubblica? Ogni parola pronunciata in quei due giorni, ogni suo gesto, tutti gli oggetti che lo circondavano, mi sarebbero serviti per farmi un’idea più ampia dell’uomo, operazione che ritenevo fondamentale nella stesura del racconto che avevo in mente. I fatti erano noti: sul Pilone Centrale del Frêney, nell’estate del ’61, arano morti quattro alpinisti tentando di scalare ciò che veniva considerato l’”ultimo problema delle Alpi”: si erano salvati Bonatti, il suo compagno Roberto Gallieni e il francese Pierre Mazeaud, incontrato lungo l’avvicinamento alla parete.
«La cosa che non mi dimenticherò mai» disse alla fine della ricostruzione dei fatti con un tono fattosi rabbioso, «è la malafede di certa stampa. Si volle fare una montatura scagliandomi contro l’opinione pubblica. Non mi perdonavano di essere tornato vivo. E dicevano che non avevo fatto abbastanza per salvare i miei compagni».

Fu proprio Emilio Fede che in televisione raccontò i fatti con superficialità, come se i superstiti fossero in vita solo grazie al sacrificio di Andrea Oggioni, compagno e amico di Bonatti. Da qui si scatenarono le polemiche. Come! Il più forte alpinista del mondo non era riuscito a salvare i compagni ed era vivo solo grazie al sacrificio dell’amico? Il giorno del funerale di Andrea Oggioni, a Villasanta, Bonatti dovette allontanarsi dal cimitero per «paura di essere aggredito». Bonatti vendette in esclusiva il suo racconto a Epoca, Gallieni a Il  Tempo, ed entrambi devolvettero i quattro milioni di lire di proventi alla famiglia di Oggioni. Era un personaggio invidiato, ingombrante. Anche per questo a Courmayeur, nei giorni successivi alla tragedia, nessuno buttò acqua sul fuoco delle polemiche.

Foto Walter Bonatti e Andrea Oggioni ai Resinelli nel 1948. Archivio Walter Bonatti, Centro Documentazione Museo Nazionale della Montagna “Duca degli Abruzzi” – CAI Torino

Solo un mese dopo i fatti, Bonatti venne visto da certi inglesi di notte, al bivacco della Fourche, con un cliente mentre verificava se nel libro del rifugio qualcuno, in quel momento, fosse impegnato sul Pilone.

Rimanemmo in silenzio per qualche istante, mentre lui, visibilmente alterato ricordando le polemiche, toccava a uno a uno gli oggetti sulla scrivania cambiandogli di posto.
«Ma ora tutto è finito» gli dissi per spezzare la tensione.
«Sì, ma ce n’è voluto di tempo!».

Facemmo una pausa. E con una tazza di tè in mano ricominciò a raccontare con la sua voce profonda e gentile. Bonatti, si sa, era un impareggiabile narratore. Avvinceva con la voce così come con la penna. I suoi testi erano sempre efficaci, puntuali nel riportare dati e informazioni, ma nello stesso tempo colorati da superlativi, disseminati da aggettivi altisonanti, in un’enfasi travolgente sempre declinata alla prima persona. Era capacissimo a usare la penna: già da studente un suo testo aveva vinto il concorso regionale che gli aveva fruttato un premio di 100 Lire. Bella sommetta all’epoca per un ragazzo!

Walter Bonatti verso i 7000 metri del K2, immagine tratta dal libro Le mie montagne di Bonatti. Foto: ANSA

Parlò delle sue salite più importanti: la Est del Gran Capucin, la Nord delle Grandes Jorasses in invernale, la salita in inverno della Cima Ovest di Lavaredo. Accennò – senza neppure arrabbiarsi – al fattaccio del K2: era l’esperienza vissuta a 24 anni che più lo aveva ferito, quando i suoi compagni, a ottomila metri, «avevano spostato la tenda per non farsi trovare e dover dividere l’imminente conquista della cima», e lui aveva dovuto affrontare una tremenda notte all’addiaccio. Poi la spedizione con Riccardo Cassin al Gasherbum IV. Una per una dipinse le «mie montagne», così le chiamava, citando il titolo di uno dei suoi libri più letti uscito nel 1961 (edito da Zanichelli). Si dilungava con sapienza da oratore nelle descrizioni dei luoghi, poi indicava gli errori di certa stampa, e qui cambiava ancora il tono della voce, tanto da indurmi a pensare che volesse trasmettermi un implicito messaggio ammonitorio parlando di giornalisti. I giornalisti, questo era chiaro, non gli andavano a genio. E non riuscivo a spiegarmi il perché di questa paura di essere frainteso, sminuito, criticato, come se nascosto dietro l’angolo ci fosse sempre qualcuno pronto a colpirlo. In fondo la sua carriera di alpinista estremo era durata una quindicina d’anni, dunque solo una parte decisamente esigua della sua lunga vita. Eppure adesso, a distanza di oltre trent’anni da quelle scalate, in lui il tempo non sembrava essere passato. Il tempo non aveva agito in lui come un grande attenuatore di ogni fiamma. Bonatti era ancora lì, coinvolto come se i fatti fossero appena accaduti, ancora ferito e sanguinante, ancora segnato dal pericolo appena scampato. Eppure erano passati oltre trent’anni, e tantissimo altro aveva riempito la sua ricchissima vita.

Walter Bonatti fotografato da Toni Gobbi al termine dell’ascensione al Monte Bianco lungo il Grand Pilier d’Angle, 1-3 agosto 1957. Foto Archivio Walter Bonatti, Centro Documentazione Museo Nazionale della Montagna “Duca degli Abruzzi” – CAI Torino

Nel 2004 ha restituito al Presidente della Repubblica la medaglia e il titolo di Cavaliere di Gran Croce, perché lo stesso riconoscimento era stato assegnato ad Achille Compagnoni, sempre avverso dopo i fattacci del K2.

Si appoggiò allo schienale della sedia, dietro la scrivania, e si passò le dita sul mento. «L’alpinismo tradizionale ha il merito di aver arricchito l’uomo di esperienze che affondano le radici nella morale, nell’etica e nell’estetica. Fare alpinismo per me è stato un modo di vivere e migliorarsi: l’importante sarebbe che questa ricerca continuasse. Invece oggi l’alpinismo si è snaturato, è diventato uno sport dove la componente dell’avventura è venuta meno. Anche se tutti ne parlano, quella che ti vendono oggi è un’avventura prefabbricata».

Walter Bonatti. Foto Archivio Walter Bonatti, Centro Documentazione Museo Nazionale della Montagna “Duca degli Abruzzi” – CAI Torino

Fin dal 1963, aveva inanellato numerosi viaggi nelle terre estreme per conto del settimanale Epoca. Per primo, il direttore Nando Sampietro gli aveva chiesto di raggiungere il “polo del freddo” nella Siberia nordorientale (Yakutia). Un viaggio da inviato speciale. Ecco il nuovo inviato veramente speciale per Epoca. Non un inviato a caccia di notizie. Lui stesso sarebbe stato la notizia. E quando sarebbe apparso in copertina, le tipografie a rotocalco macinavano aumenti vertiginosi di tiratura. Cambiando di abito, il secondo Bonatti si svelava in canoa sul Klondike o mentre scendeva nel cratere del vulcano attivo, o tra le raffiche di Capo Horn, o sull’Aconcagua, o ancora disarmato tra gli animali selvatici, le tigri, i varani che definiva «draghi», gli orsi, i coccodrilli, i leoni, i pescecani. Una natura ferina, spaventosa, brutale. Una natura però non abitata solo da belve, ma anche dall’“uomo naturale” che lui amava come un parente stretto: il pigmeo, l’aborigeno, lo stregone della tribù, nel pieno mito romantico del primitivismo («spesso mi sono sentito più a mio agio, e al sicuro, tra gli uomini da noi bollati con gli epiteti di selvaggio e cannibale che non tra esseri “civili”»).

Messner e Bonatti durante la consegna del Piolet d’Or (il più importante riconoscimento del mondo dell’alpinismo) alla carriera a Walter nel 2009. Foto: Ansa/Walish

Gli chiesi: «Alcuni psicologi attribuiscono alle motivazioni dell’alpinismo o dell’avventura estrema una sorta di immaturità, una forma di infantilismo insuperato. Cosa ne pensi?».

«Questi signori hanno una cultura nata a tavolino. Perché se qualcuno di loro avesse vissuto la vita come meriterebbe di essere vissuta, probabilmente rifiuterebbe questi concetti. L’alpinismo ha la forza di creare degli uomini, di allargare gli orizzonti dell’uomo».

«E del rischio cosa mi dici?».

«Io ho convissuto spesso con la morte, sia in alpinismo, sia in giro per il mondo sono stato più volte a tu per tu con lei. Ma se le sono andato così vicino non è perché sia votato a morire, l’ho fatto solo per vivere più intensamente».

Bonatti ha risvegliato – in chi lo ha letto o lo ha sentito parlare – quella fantasia innocente che in tutti noi con l’età tende a sopirsi ma che è pur sempre pronta a risvegliarsi. Prima di lui lo aveva saputo fare Emilio Salgari con romanzi di fantasia: Bonatti è riuscito a far sognare – compito assai più difficile – con la realtà.

Un ricordo autografato da Walter Bonatti per Dino Perolari. Foto @ Archivio Perolari

È passato tanto tempo da quelle conversazioni, per me seducenti e indimenticabili, nel suo studio in Valtellina. E lo rivedo mentre mi spiega con la sicurezza dei saggi i valori che lo avevano guidato nella sua esistenza. Granitico, di fronte alle temerarie convinzioni di uomo rimasto sempre uguale a se stesso.

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A casa di Walter Bonatti ultima modifica: 2020-09-11T05:06:54+02:00 da GognaBlog

20 pensieri su “A casa di Walter Bonatti”

  1. 20
    Prof. Aristogitone says:

    Egr. Sig. Bertoncelli, usare il termine di “schitarrate” quando si parla di mostri sacri del calibro di Mc Cartney o Eric Clapton lo trovo decisamente improprio. 
    Senza arrivare alle bestemmie in chiesa ma restando in tema, sarebbe come definire “gita” l’ascensione invernale solitaria compiuta da Bonatti sulla nord del Cervino.

  2. 19
    Fabio Bertoncelli says:

    Questo professor Aristogitone, con i suoi riferimenti a Paul McCartney e alle schitarrate, mi ricorda vagamente qualcun altro che tempo fa frequentava il blog, ma non riesco a capire chi.  ???
    N.B. Esimio professor Aristogitone, si può dire “schitarrate”? o è come bestemmiare in chiesa?

  3. 18
    Riva Guido says:

    @ Simone Di Natale al 16: “. . . . . Resta poi la mia difficoltà nel decifrare una persona senza averci passato del tempo insieme.” Bingo! Cosa fai con una persona quando sei obbligato a collaborare per degli aspetti in cui devi dare, tipo il lavoro, e non per un passatempo, a volte ti permette di vederne veramente delle belle, che potrebbero scombussolare un po’ le carte e le convinzioni.

  4. 17
    Prof. Aristogitone says:

    Concordo con l’acuta analisi del Sig. Pasini e col commento che dice: si è ritirato all’apice facendo nascere il mito. Un po’ come una rockstar maledetta che non ha dovuto ricorrere alla morte. 
    Poi, sulla limitata capacità in arrampicata… possiamo dire che Paul Mc Cartney alla chitarra non è di certo Clapton o Jeff Beck, ma ha creato Yesterday, A day in the Life, Let it be…
    Infine: “granitico, di fronte alle temerarie convinzioni di uomo rimasto sempre uguale a se stesso” non so se interpretarla come un complimento o una frecciata.

  5. 16
    Simone Di Natale says:

    Forse ricordo male, ma le parole e i concetti non sono molto diversi da quanto giá narrato in un suo libro. Se non fosse per un recente trasloco e dei lavori da eseguire, che ancora tengono rinchiusi i miei libri in degli scatoloni andrei a cercare …..Resta poi la mia difficoltá nel decifrare una persona senza averci passato del tempo insieme. 

  6. 15
    Roberto Pasini says:

    Per DinoM. Bella storia sulla forza evocativa dei ricordi e sullo stile dei testimoni che restano. La mia reazione, ovviamente del tutto personale e soggettiva, è stata proprio determinata dallo stile della rievocazione, che ho trovato crudele e freddo sul piano umano. Non amo lo stile Vita del Santo ma le stesse cose potevano essere dette in modo diverso. Le parole che si scelgono non sono casuali. Soprattutto nel caso di un professionista della comunicazione. Niente lesa maestà dunque, ma solo una questione di gusto ed eleganza e , perché no, forse anche di empatia e di sensibilità.  E qui chiudo.

  7. 14
    Simone Di Natale says:

    Pasini è sempre istruttivo leggerti.
    Sono tendenzialmente a favore di argomentazioni più dirette e scevre da seghe mentali…ma apprezzo i modi differenti dai miei. Ho letto sia Bonatti  che Ferrari. Apprezzo e ammiro il primo ma mi ritrovo più nel secondo e mi piacciono le frecciatine rivolte ad una eccessiva prosopopea e autocelebrazione, per quanto legittima possa essere nel caso di Bonatti.
    Ciao alla prossima

  8. 13
    DinoM says:

    Visto che mio nipote, quasi diciottenne, è impegnatissimo con il riavvio della scuola, riporto un piccolo e simpatico fatto accaduto alcuni anni fa, alla morte di Bonatti.
    In casa nostra spesso si parlava  del mito Bonatti. Alla sua morte, mio nipotino allora in prima media,  lesse “le mie Montagne” e scrisse una lettera molto accorata a Rossana Podestà, esprimendogli tutta la sua ammirazione e il dispiacere di non essere riuscito a conoscerlo. Alcuni mesi dopo arrivò una lettera dalla Signora Podestà. Si disse molto colpita dalla lettera e invitò mio nipote e sua mamma per un w.e. nella casa di Dubino. L’invito fu accolto con entusiasmo e per due giorni mio nipote venne condotto in esplorazione dalla Signora tra gli archivi, le foto e le cose di Bonatti; un’esperienza affascinante. Gli raccontò dell’uomo e del marito. 

  9. 12
    Roberto Pasini says:

    Per Di Natale. Sono un lettore affezionato di Ferrari. Mi divertono i lupetti quando si travestono da dolce pecorella. Volevo solo sottolineare che bisogna stare attenti a chi si invita in casa. La quotidianità uccide qualunque mito. È il famoso adagio del grande uomo e del cameriere. A Bonatti, come a tanti altri prima di lui è andata bene che non esistessero i social. Lo sanno bene i più discreti eroi moderni che si presentano in modi molto più di basso profilo, alla Honnold. Senza grancassa ed esponendo a scopo preventivo e con un sorriso le loro debolezze. Mestiere rischioso oggi il Titano.

  10. 11
    Simone Di Natale says:

    Anche te Pasini non scherzi a veleno…..qualche conto in sospeso con Ferrari? O troppo amore per Bonatti? Oppure volevi dire qualcos’altro che non ho colto?

  11. 10
    Roberto Pasini says:

    Già l’incipit non è male. L’eroe “ ormai lontanissimo dagli anni del vigore” (a 65  anni ?!) che raccoglie con ossessività “da farmacista” in ordinati cassettini le sue avventure, pronte per produrre “nuovi libri” e per le serate CAI “che rendono un bel gruzzoletto”. E via cantando, compreso l’Avventuriero a petto nudo da copertina di rotocalco popolare, che mette al centro più se stesso che i luoghi che esplora, ispirato “dal mito romantico del primitivismo” e con uno stile pieno “ di enfasi e aggettivi roboanti” dove l’Io fa da padrone. E lo chiamavano “umanizzare”. Poi dicono delle viperette che incontriamo in montagna. Simpatici e timidi animaletti.
     
     
     
     

  12. 9
    lusa says:

    Bonatti: un gigante, un titano.

  13. 8
    Andrea Parmeggiani says:

    Sono d’accordo con il commento di Pasini

  14. 7
    Roberto Bianco says:

    Ha mollato quando era al massimo ed è entrato nel mito !  Determinato , tenace , rigoroso con se stesso ha saputo affascinare molte generazioni  con la sua Grande Avventura .
    Al di là dei pur formidabili risultati tecnici ha affermato la supremazia della mente , dell’etica , dell’Uomo . 

  15. 6
    Alberto Benassi says:

    qualcuno ha accusato Bonatti di essere un ” carpentiere” , stessa accusa fatta anche a Desmaison. Cioè di avere usato troppo chiodi nelle loro vie. Altri dicono che come arrampicatore puro nella sua epoca , altri erano più bravi di lui, lo stesso Oggioni forse era più abile di lui in roccia.
    Ma non credo che a Bonatti questo interessasse più di tanto. Non credo che gli interessasse tanto il puro gesto arrampicatorio lo dimostra anche la sua grande preferenza  per l’alta montagna, con ghiaccio e misto. La sua dimensione era la ricerca dell’avventura, dell’esplorazione, la soluzione di un problema, salire la parete più difficile per il percorso più facile ponendosi dei limiti tecnici, oltre i quali non andare pur di salire ad ogni costo.

  16. 5
    Roberto Pasini says:

    Intervengo non sul contenuto ma sul “pezzo”. Come l’occhio professionalmente addestrato di Paolo coglie qualche dissonanza nel romantico racconto mitologico dell’orso M49, il mio occhio, diversamente addestrato,  mi fa cogliere nell’articolo, dopo la dichiarazione d’amore iniziale, qualche piccola freccetta maliziosa su elementi del carattere dell’Eroe. Non scherzava l’Ego granitico di Bonatti ma neppure quello dell’autore dell’articolo, che pure vorrebbe presentarsi come un umile fraticello al cospetto del Santo. Interessante dinamica tra mito ed esegeta. Interessante ovviamente per chi è interessato alle sfumature della comunicazione umani. Per altri probabilmente e giustamente irrilevanti di fronte alla potenza ispiratrice del mito. 

  17. 4
    Alberto Benassi says:

    Molto di quello che ha scritto Paolo nel suo commento, l’avrei voluto scrivere io. Difficile ora andare oltre. Leggendo i suoi libri e immedesimandomi, avrei voluto ripetere tutte le sue vie. Chiaramente non ci sono riuscito se non in piccola parte.
    Per il mio alpinsimo è stato un esempio: apertura di vie nuove, alpinismo invernale, solitarie.  Devo però ammettere che io non sono stato così integerrimo come lui . Troppo difficile, troppo superiore, non ho avuto la sua capacità di non scendere a qualche compromesso.

  18. 3
    Andrea Parmeggiani says:

    Chapeau

  19. 2
    Fabio Bertoncelli says:

    Caro Paolo, ben detto!

  20. 1
    Paolo Gallese says:

    Bonatti ha significato e significa ancora tanto per me.
    Quasi ne tremo mentre scrivo un commento a questo post, perché non mi sento all’altezza di raccontare il senso del suo essere per il mio, di essere.
    Ho imparato da lui, ho sognato grazie a lui. Il suo esempio mi ha tenuto vivo nell’affrontare una vita che avrei desiderato diversa e nella quale ho fallito rispetto ai miei desideri di avventura in Natura.
    Se oggi pur lavoro nel campo, benché non sul fronte e nel modo che avrei desiderato, lo devo a lui.
    In un mondo in cui l’avventura ormai si compra, lui mi ha insegnato a viverla con poco nella mente, nel fisico, libero. A sognarla, a costruirla pezzetto per pezzetto, che fosse un tratto della cresta dell’Innominata, o un lungo trekking nei luoghi solitari dell’Appennino.
    Da lui ho imparato ad arrangiarmi, se non hai tanto denaro per affrontare i luoghi in cui vuoi andare. Ti devi allenare, devi andare a vivere il gelo o l’afa peggiore per abituare il corpo, devi affrontare molte paure. Da lui ho imparato portare pezzo per pezzo quello che mi serve, all’attacco della via, o al principio del percorso.
    Ho imparato a dilatare un’avventura, a realizzarla nel tempo lungo, a studiare come sopravviverle ed essere pronto al peggio, anche quando gli altri ridevano della possibilità. In due casi mi ha salvato la vita.
    E ho imparato che l’uomo solo può fare tante cose, che la solitudine è un mezzo straordinario, un’esperienza piena. Nel mio caso anche un modo per sopperire alla mia mancanza di mezzi, in termini di attrezzi o possibilità di pernottare vitto e alloggio.
    Resti solo tu, con quello che hai, ti organizzi, te lo fai bastare. Non hai bisogno di dare spiegazioni, se non a te stesso, per sapere se hai fatto la scelta giusta quel giorno, se ce la puoi fare.
    Quello che non hai te lo inventi. E ti assumi il rischio.
    Mi suonano sempre in mente delle belle parole di Rossana Podestà, che mi hanno sempre dato coraggio: “Lui non aveva molti soldi, non aveva molti mezzi. Ma diceva che non gli importava. Lui voleva andare là…!”

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