Alessandro Baù e Claudia Mario: il cuore sulla Nord-ovest
di Franco Soave
(pubblicato su Le Alpi Venete, primavera 2023)
L’Autore ringrazia Francesco Lamo per la gentile collaborazione nella fase di raccolta dell’intervista e nella revisione del testo.
II messaggio via Whatsapp parte alle 11.44, destinatario Alessandro Baù. So che è andato in Patagonia, penso sia rientrato ma per sicurezza prima di telefonargli gli scrivo. Neppure due minuti dopo squilla il mio smartphone: «Ciao, sono Alessandro, mi cercavi?». «Sì, ti chiamo per Le Alpi Venete. Sei a casa?».
«No, sono ancora in Patagonia. Oggi è brutto, sono in tenda e non ho niente da fare, così posso telefonare».
Meraviglie della tecnologia direbbe qualcuno… Nel giro di centoventi secondi partono un messaggio e una telefonata tra il Veneto e la Patagonia, non proprio dietro l’angolo… Ma oggi è la normalità, basta avere una connessione. Dall’Artico all’Antartide il mondo (quello cosiddetto civilizzato) è tutto in internet. E questo in molte circostanze indubbiamente è una bella comodità.
La telefonata è breve, ci si mette d’accordo per una chiacchierata molto più comoda, a casa Baù-Mario a due passi dai Colli Euganei.
Pochi giorni dopo, eccoci con Alessandro Baù e Claudia Mario, compagni di roccia e compagni di vita. Lui, laurea in ingegneria e ora professionista freelance, Accademico del CAI e Guida Alpina; lei fortissima in roccia e fisioterapista con laurea a Padova e Master a Cardiff. Ma mentre Alessandro un giorno di dieci anni fa ha deciso di cambiare vita lasciando il posto fisso per avere più tempo da dedicare all’alpinismo, Claudia ha fatto della passione il proprio mestiere: grazie alla specializzazione in riabilitazione muscolo-scheletrica e al master in riabilitazione sportiva e allenamento, “ripara” i rocciatori infortunati. Il debutto, come in altre circostanze, avviene con una sintetica carta d’identità… civile. Claudia è nata a Padova il 4 agosto 1984, Alessandro pure nella città del Santo il 3 giugno 1981. Ma il ritratto di Alessandro chiede qualche riga in più e un’altra carta d’identità, quella alpinistica.
Il curriculum parla di oltre mille vie di tipologia tradizionale e moderna: ecco alcune aperture effettuate con compagni diversi (tra cui Alessandro Beber, Nicola Tondini, Claudio Migliorini, Francesco Ratti, i fratelli Enrico e Daniele Geremia, Luca Matteraglia, Giovanni Zaccaria): Wake up, Patagonia, Aguja Guillaumet (7a/A2, 425 m, 2023); Space vertigo, parete nord della Cima Ovest di Lavaredo (IX+/X-, 500 m, 2020); Zuita Patavina, Civetta, versante nord-est (M8, AI6, A2, 650 m, 2019); Colonne d’Ercole, Civetta, parete nord-ovest (IX, 1150 m, 2012); Chimera Verticale, Civetta, parete nord-ovest (IX, 650 m, 2008); Stile libero, Civetta, Torre Venezia (IX, 450 m, 2017); Gigi la Trottola, Pale di San Martino, Mulaz (IX-, 450 m, 2015); Fumo negli Occhi, Pale di San Martino, Cimon della Pala (VIII+/A2, 500 m, 2015); Via del Puma, Pale di San Lucano, Campanile della Besauzega (VII+/A3, 500 m, 2010); Scrumble de Manzana, Patagonia, Cerro Piergiorgio, parete est (AI5-M5/6, 350 m, 2019). Tra le ripetizioni, possiamo citare W Mejico Cabrones, Civetta, parete nord-ovest (VIII+, 1150 m, 2021), prima invernale; Kein Rest von Sensucht, Civetta, parete nord-ovest (VIII+, 1150 m, 2012), prima invernale e quinta ascensione; Captain Sky Hook, Civetta, parete nord-ovest (VIII+/A2, 600 m, 2010), prima invernale, in giornata; La perla preziosa, Conturines, Sass dla Crusc (IX+, 375 m, 2008), seconda salita e prima a vista; Eliana, Civetta, parete nord-ovest (VIII+, 700 m, 2007), prima ripetizione; Nuvole Barocche, Civetta, parete nord-ovest (IX+/A2, 1250 m, 2007), prima ripetizione. Come si sarà notato Alessandro Baù è di casa in Civetta e soprattutto su quel monumento alla natura e all’alpinismo che è “la parete delle pareti”, la Nord-ovest. D’ora in poi la scriveremo così, maiuscola e con trattino. Perché la Nord-ovest è solo una. Poi ci sono le spedizioni e una robusta attività verticale oltreoceano: Messico, Nuova Zelanda, Cile, Argentina, Stati Uniti con Utah e Yosemite, più volte in Patagonia.
Domanda di rito a entrambi: dove e in quale circostanza vi siete conosciuti, prima compagni di arrampicata e poi compagni anche nella vita?
Claudia: «Ci siamo conosciuti a Rocca Pendice nel 2009, io avevo iniziato a scalare da pochissimo, avevo appena terminato il corso di arrampicata libera del CAI e il corso roccia che ho frequentato quasi in contemporanea, perché dopo avere scalato la prima volta è scattata una passione pazzesca. Dopo pochi mesi ci siamo conosciuti ma eravamo su due livelli del tutto incompatibili: io avevo iniziato da sei mesi, lui invece era già molto conosciuto».
Alessandro: «Penso che la prima via salita assieme sia stata un’invernale alla Torre Venezia! La primavera successiva, a fine maggio, tra le altre abbiamo fatto la Carlesso-Sandri alla Torre Trieste. Claudia è stata proprio brava».
Alessandro, hai iniziato ad arrampicare a 14 anni con tuo padre. E il premio per il primo 30 e lode all’università è stato un corso di scialpinismo. Quanto è stato importante tuo padre per la tua attività in montagna?
«Mio padre ha fatto il corso roccia con il CAI nell’anno in cui sono nato e anche lui è stato conquistato dalla passione. Andava ad Arco ad arrampicare e mi portava con sé, avevo tre o quattro anni e me lo ricordo come un mito. Quando avevo 12-13 anni abbiamo fatto le prime vie assieme in Dolomiti. A 16 anni mi sono iscritto al corso di arrampicata del CAI e ho iniziato ad andare in montagna con gli istruttori del gruppo: Marco Simionato, Monica Voltan, Michele Bicio Chinello, Gabriele Masiero, persone con molta più esperienza di me e imparare è stato facile».
Com’è la vita di coppia in parete?
Claudia: «Come a casa, io preparo da mangiare e lui prepara il materiale. Abbiamo questi ruoli. Se vedeste il garage capireste perché non posso prepararlo io, il materiale: non troverei mai nulla di quello che serve». Alessandro: «Io mi trovo nel mio disordine però quando vado in montagna sono molto preciso, il disordine esiste fino a quando preparo lo zaino». Claudia: «Io ho sempre vissuto una dicotomia di sensazioni nell’andare in montagna con Ale, perché avendo due diversi livelli di preparazione, nella maggior parte delle situazioni vuol dire salire da seconda. A volte arrampicare con lui è difficile perché dove tu dai il massimo lui sale in scarpe da ginnastica! (risata). Però la mia passione per l’alpinismo non è confinata nell’andare da seconda dietro al marito, mi piace avere degli obiettivi e cercare di raggiungerli. Perciò per farlo, spesso ho dovuto cercare altri compagni di cordata». Alessandro: «Per la verità quando ci siamo conosciuti, tra noi c’era un certo divario ma mentre io sono rimasto sempre a quel livello, lei invece è cresciuta moltissimo, e ormai… ».
Claudia, quando parli di obiettivi in parete senza Alessandro a cosa ti riferisci, c’è qualcosa che hai in testa?
«Ora posso dire che tante delle cose che mi sarebbe piaciuto fare le ho fatte. La primavera scorsa in Yosemite ho salito El Capitan con degli amici. Mi rimane qualcosa in Civetta… Mi piacerebbe ripetere W Mejico Cabrones (Nord-ovest del Civetta, Venturino De Bona in solitaria, 2001, NdR). E poi vorrei tornare in Patagonia ma con un’ottica diversa perché le cime che abbiamo salito laggiù le ho fatte da seconda. Un altro sogno nel cassetto è il Pilastro Goretta al Fitz Roy (Pilastro nord-est, Casarotto in solitaria, 1979, NdR). Queste due vie sono quelle a cui do la precedenza». Alessandro: «L’anno scorso siamo ritornati in Yosemite, io sono rimasto in campeggio con nostra figlia, Claudia invece ha salito la Salathé al Capitan con dei nostri amici e compagni di viaggio. Ecco, quel giorno ho compreso la trasformazione di Claudia ed è stata una bellissima soddisfazione. E la foto di noi due in cima al Fitz Roy dopo avere salito la via Afanassieff (1) è uno dei ricordi più belli proprio perché l’abbiamo fatta assieme».
Sei ingegnere meccanico e hai lavorato molto a bordo delle navi. Che incarichi avevi e come facevi a tenerti in allenamento in mezzo al mare per andare poi ad arrampicare?
«A bordo come ingegnere coordinavo l’attività tecnica, il lavoro mi piaceva molto. E mi ero portato un travetto portatile – ah, se quella volta avessi pensato di commercializzarlo! – Facevo turni di dodici ore di lavoro, poi ne avevo altre dodici libere. Ti riposi e dormi, certo, ma avevo anche tempo per allenarmi. E devo dire che molte volte sono tornato in discreta forma».
Quando hai deciso di cambiare vita?
«Ho fatto sei anni di gavetta, con la mia azienda sarei diventato “project manager” e avrei potuto seguire grandi progetti. Questo però significava seguirli in Russia, Africa, Kazakistan… in luoghi che non erano compatibili con la famiglia né con la passione per la montagna. Così dieci anni fa ho cambiato vita. Nel 2012 io e Claudia ci siamo sposati e in azienda avevo chiesto di rimanere un po’ “tranquillo” ma l’anno successivo mi hanno inviato in Russia. Così ho detto basta. Poco dopo ho deciso di fare il corso per diventare Guida alpina. E quando l’azienda mi ha chiesto di rimanere come consulente ho accettato, il lavoro mi piaceva. Infine l’anno scorso mi sono messo in proprio».
Sei Accademico e Guida alpina: si può vivere di montagna oggi? Come bisogna organizzarsi e cosa è necessario mettere in tavola per poterlo fare?
«Un conto è vivere facendo la Guida alpina, e ci sono persone che fanno solo quello. Altro conto è vivere come alpinista professionista. Professionisti in Italia ce ne sono veramente pochi: penso a Matteo Della Bordella – da circa un anno è entrato nel Centro Sportivo dell’Esercito – a Simone Moro, Hervé Barmasse, Jacopo Larcher, forse c’è qualche altro ma sono veramente pochi. Chi è entrato in un Corpo militare è stipendiato, ma non è assolutamente nei miei pensieri».
Questo significa che sei soddisfatto di quello che sei e di quello che fai?
«Sì, il mio lavoro mi piace, non farei cambio, anche se è difficile gestirsi. A volte qualcuno dice “voi viaggiate un sacco, fate tante cose, avete molto tempo libero”… È vero ma bisogna crearselo, il tempo libero. Un’azienda mi ha chiamato chiedendo se potevo seguire un progetto: dal punto di vista economico sarebbe stato interessante però se si vogliono mantenere delle opportunità per sé bisogna saper dire di no. Credo che negli anni io e Claudia abbiamo raggiunto un discreto compromesso, pur lavorando parecchio cerchiamo di mantenerci un bel po’ di tempo libero».
Claudia, è così anche per te o con il tuo lavoro avere tempo da dedicare alla passione della montagna è più difficile?
«Sono sempre stata libera professionista da quando sono fisioterapista e nel tempo mi sono dedicata all’ambito sportivo nel quale, ormai, sono impegnata esclusivamente. Al momento faccio la fisioterapista e la coach. Ho fondato una pagina Instagram e questo ha dato la svolta al mio lavoro permettendomi di lavorare solo nell’ambiente montagna. Quindi nemmeno io trovo difficile avere tempo libero. Però è questione di mentalità, per scelta nella mia agenda prima ci va il tempo che mi serve per allenarmi e poi tutto il resto. Certo, ci sono periodi nei quali lavoro di più, altri più scarichi ma quando lavoro meno, scalo e mi alleno di più. Alla fine penso sia solo questione di organizzazione tra famiglia, lavoro e altre mille cose».
Alessandro, l’ingresso nel Club Accademico è stata una bella soddisfazione. Ma è un punto di arrivo, un distintivo da esibire o un punto di partenza?
«Sono entrato nel Club Accademico nel 2010, proposto da Giuliano Bressan e Francesco Cappellari, ed è stata una grande soddisfazione. Sono stato contentissimo, ma mi aspettavo qualcosa di diverso. Intendiamoci, ho massimo rispetto per chi è entrato prima di me, su questo non si discute, però ho trovato l’ambiente un po’ ingessato. Recentemente, durante una riunione del Sottogruppo veneto, abbiamo discusso su come si possa ringiovanire il Club Accademico. È stato bello entrare, sono felice di farne parte ed è qualcosa in cui credo molto, ma sento la necessità che si rinnovi. Quindi rispondo “un punto di partenza”».
Cosa cambieresti nel mondo dell’Accademico, cosa proporresti per ringiovanirlo?
«La soluzione credo sia semplice. L’Accademico ha uno Statuto che risale ai primi del Novecento, è cambiato pochissimo negli anni mentre il mondo alpinistico è stato stravolto. Oggi tanti ragazzi, con un’attività alpinistica importante, decidono di diventare Guide alpine, facendo della montagna la propria professione, ma il regolamento dell’Accademico nega alle Guide di farne parte, limitando sensibilmente il bacino tra cui pescare nuovi “adepti”. Bisogna pertanto rivedere lo statuto perché non è al passo con i tempi, deve essere riscritto per dare la possibilità ai giovani di farne parte, guardando il loro bagaglio alpinistico indipendentemente dalla professione svolta. E quando parlo di giovani non mi riferisco, per esempio, al sottoscritto che di anni ne ha quarantuno, sto parlando dei ventenni! Tre anni dopo il mio ingresso nel Club sono diventato Guida e, da regolamento, sono stato costretto a uscire. Poco dopo la norma è stata cambiata, per cui chi è entrato prima nell’Accademico e in seguito è diventato Guida alpina poteva chiedere di rientrare. Per questo sono ancora Accademico. Ma chi diventa prima Guida non può entrare nel Club. E questo è un controsenso».
Argomento spinoso, lo spit. Alessandro Zeni – Centro Sportivo Esercito, membro della Sezione Militare di Alta Montagna – nel 2021 ha rilasciato un’intervista al sito Montagna.tv nella quale, tra l’altro, ha detto: «Lo spit è una forma di debolezza. Lo usi quando non hai altre possibilità, quando non sei in grado di fare di meglio». Sei d’accordo?
Alessandro: «Di tutte le vie che ho aperto solo due sono totalmente a spit: Timelapse sulla Torre Sprit e A piede libero due anni fa in Sardegna con Mirco Grasso. Come stile di apertura mi piace molto di più quello tradizionale, a chiodi, ma non posso dire che uno sia migliore dell’altro, sono cose diverse. E a volte bisogna scendere a compromessi. Altrimenti dovresti seguire un’etica rigorosa e dire “non voglio usare lo spit, non passo e lascio il progetto alle generazioni future”. Però è anche vero che nelle Dolomiti come in altri parti del mondo le linee da aprire nel tempo sono cambiate. Mentre una volta si seguivano fessure o conformazioni della roccia, ora alzandosi il livello e riducendosi le possibilità di apertura si vanno a guardare pareti che presentano opportunità di chiodare diverse dalle vie classiche. Su Space vertigo, la via che abbiamo aperto in Lavaredo sulla Nord della Cima Ovest, abbiamo deciso di mettere le soste a spit per questioni di sicurezza mentre lungo i tiri siamo saliti a chiodi e protezioni veloci. In Yosemite sul Capitan le soste sono a spit. Insomma si tratta sempre di etica, il problema è che ci sono persone con un’etica… soft».
Claudia: «C’è chi addomestica con gli spit situazioni in cui alpinisti più “valorosi” potrebbero passare senza. E addomesticare per me significa rendere pareti che hanno sempre chiesto un certo impegno, fruibili a una platea molto più vasta portando un alpinismo quasi “di massa” in zone dove storicamente non c’era. Ad Arco o in altre aree dove l’arrampicata sportiva è sempre stata un caposaldo, ci può stare. Però ci sono luoghi dove sono state aperte vie con un’etica discutibile ed è un peccato. Perché in un posto dove gli alpinisti si sono avvicendati con etica ferrea, aprendo itinerari che richiedono impegno non solo fisico ma anche psicologico di un certo tipo, ci sono vie aperte con un’etica completamente diversa. E questo per me è un peccato. Esistono pareti dove si può chiodare in un certo modo, altre dove sarebbe bello seguire le orme di chi ha iniziato».
Alessandro: «Condivido totalmente quello che ha detto Claudia. Io in Civetta prima ho ripetuto vie e solo dopo ho creato qualcosa di nuovo. E quello stile io e altri amici l’abbiamo portato in diversi luoghi. Alla fine è sempre questione di equilibri, di limiti, di darsi delle regole e rispettarle. Il bello della montagna è anche questo: tutti possono andarci però bisogna pensare che domani ci sarà qualcun altro. Quest’anno quando io, Alessandro Beber e Nicola Tondini siamo andati in Civetta per aprire una via sulla Torre Trieste, ci siamo trovati in una situazione un po’ particolare. Abbiamo iniziato a salire e pochi giorni dopo anche Simon Gietl, Vittorio Messini e Matthias Wurzer hanno iniziato una via lungo la stessa parete sud. Si trattava di due vie molto vicine. Così abbiamo avanzato una proposta: se vediamo che si possono seguire due linee separate che abbiano un senso, ok, altrimenti proponiamo di unire la cordata per aprire un’unica via. Bene, si tratta di due linee completamente diverse (2)».
Alessandro, secondo te esiste ancora il pericolo di “assassinare l’impossibile”, per citare il noto pezzo di Reinhold Messner pubblicato nel 1968 dalla Rivista Mensile del CAI?
«Assolutamente sì, c’è chi non fa le cose per bene in montagna. Qui in Dolomiti le vie più belle che ho visto aprire negli ultimi anni – a parte i miei compagni di cordata – sono state quelle dei ragazzi gardenesi Alex Walpoth, Titus Prinoth, Martin Dejori, e poi quelle di Diego Dellai, Luca Vallata… La via di Luca e Davide Cassol in Civetta (Capitani di Ventura, estate 2019, NdR) è totalmente indipendente su una zona di parete che a guardarla diresti “non ci vado”. Bene, l’ho ripetuta con lui per liberarla ed è una via bellissima. Questo per dire che si può creare ancora tanto, l’importante è farlo nel modo più “critico” possibile».
Torniamo a Timelapse, la via sulla Torre Sprit, la “Torre degli Spiriti” nel gruppo della Croda Granda. Iniziata nel 2008, finita con diversi compagni – tra cui tua moglie Claudia – con la “libera” nel 2019. Undici anni per terminare una via. Una storia infinita… E poi il mistero di una voce sconosciuta, quasi un lamento udito durante la notte. La stessa cosa che ha raccontato Manolo quando ha aperto Spigolo della Melodia nel 1978 sempre sulla Torre Sprit. Vuoi raccontare?
«Ah, quella è una storia un po’ strana, sono passati tantissimi anni tra l’inizio e la fine, e nel mentre la mentalità è cambiata. Oltre a tutto è stata la mia prima via aperta a spit. Non è una di quelle a cui sono più affezionato, però ha attraversato undici anni di esperienze in montagna e di cambiamenti. È un bellissimo ambiente, bella roccia, forse è una delle vie più ripetute proprio perché è a spit. Ma ci sono molti altri itinerari a cui tengo di più. Quella voce? E’ capitato nel 2018 con Alessandro Beber durante un bivacco in portaledge. Il luogo ha una conformazione particolare, nel canalone accanto alla torre spesso salgono le nebbie e ci sono parecchi animali. Secondo me è l’aria nel canalone che produce quegli strani effetti».
Chimera verticale, aperta in tre anni, Colonne d’Ercole, Zuita patavina, Stile libero. Tutte vie in Civetta, dove hai trascorso circa trenta bivacchi. Cos’è per te la Civetta, cos’è la Nord-ovest?
La Nord-ovest è la parete che preferisco in assoluto. La prima via l’ho fatta vent’anni fa con Michele Chinello, Accademico anche lui: era la Philipp-Flamm. La bellezza della Nord-ovest rispetto, per esempio, alla Sud della Marmolada, è data dalla severità della parete. La Marmolada presenta la cengia mediana che ti permette in qualche modo di fuggire e di scendere, sulla Nord-ovest quando sei a metà puoi scendere solo se la conosci bene. È una parete molto più alpina rispetto alla Sud della Marmolada. La mia passione è legata anche al fatto di avere conosciuto i gestori dei rifugi, molto bravi a creare un ambiente che favorisce il ritorno. La mia prima salita importante è stata W Mejico Cabrones, che vorrebbe fare anche Claudia. Più tardi con Alessandro Beber abbiamo ripetuto Nuvole barocche, ed è nata l’amicizia con Venturino De Bona, gestore del rifugio Torrani, con Valter e Paola Bellenzier, gestori del Tissi; al Coldai c’erano Enza e Renato De Zordo».
Claudia: «La prima volta che ho visto la Nord-ovest è stata durante un trekking. Quando sono arrivata sotto ho pensato “quanto mi piacerebbe salire questa cosa!”. Poco dopo mi sono iscritta al CAI, ho iniziato a fare i primi corsi e due anni dopo, nel 2011, ho ripetuto la Philipp-Flamm con Matteo, il fratello di Alessandro». Alessandro: «Invece la prima via che abbiamo fatto assieme sulla Nord-ovest è stata la Via dei Polacchi al Pan di Zucchero. Lei lavorava al Tissi, io le ho fatto un’improvvisata e l’ho “rubata” al Valter per andare ad arrampicare».
C’è qualcosa che ti piace ricordare dell’amicizia con i gestori dei rifugi?
«Quando con Matteo Della Bordella e Fabrizio Fratagnoli siamo andati a ripetere la via Eliana (3) sulla Nord-ovest, siamo arrivati al Coldai con un solo martello, l’altro l’avevamo dimenticato giù. Bene, Renato mi ha prestato il martello di Eliana. Pensa, abbiamo fatto la prima ripetizione della via dedicata alla loro figlia con il martello di Eliana De Zordo!».
Hai mai pensato di provare l’alta quota, le grandi montagne himalayane? C’è mai stato uno degli Ottomila nei tuoi pensieri?
«No, zero. E per due motivi: primo, non mi attira; secondo, non posso andare (risata)! Non mi attira perché a me piace la salita tecnica. C’è anche chi fa salite impegnative in alta quota però di solito la gente va a fare le vie “normali”. Lo trovo un rischio eccessivo, proprio non mi interessa. Quest’anno siamo andati in Pakistan per scalare su roccia e per acclimatarci abbiamo salito la Great Trango Tower, una classica di neve e ghiaccio. Sono salito perché dovevo acclimatarmi, ma dopo due ore che pestavo neve ne avevo già le scatole piene. L’ambiente è bello ma non è stato molto divertente».
Claudia: E poi bisogna parlare anche di etica. Non contribuiremo al sudiciume che esiste su quelle montagne. E l’idea di muovermi in un territorio nel quale poi “devo” abbandonare i miei rifiuti perché pare sia impossibile fare altrimenti, per me è inconcepibile. Per non parlare dell’aspetto umano. Faccio fatica a concepire determinate situazioni, gente che si accascia sui cadaveri per riposare… Quando siamo andati in Patagonia la prima volta c’era la possibilità di fare la Supercanaleta, ma era secca, bisognava fare una sosta quasi su un cadavere: mi sono rifiutata. Per me sarebbe stato impossibile salire una montagna calpestando il corpo di un altro alpinista. È una cosa che il mio cervello e il mio cuore non mi consentono assolutamente di fare».
Alessandro, nel corso della tua vita verticale hai arrampicato con diversi compagni: che qualità deve avere per te, il perfetto compagno di cordata, qual è il suo identikit?
«Ci sono due persone con cui ho condiviso tantissimo in montagna: Alessandro Beber e Nicola Tondini. Con Ale Beber praticamente ho iniziato a scalare, ci conosciamo da tanti anni, ci divertiamo un sacco e abbiamo una mentalità molto simile. Sicuramente è uno dei miei preferiti. Con Nicola sono cresciuto molto, abbiamo aperto vie importanti e faccio parte del suo stesso gruppo di Guide alpine. Ale e Nicola sono i due compagni con cui ho fatto di più e che sento più vicini. Tracciare l’identikit di una persona è difficile, per me ciò che conta sono le idee. E poi quando arrampichi fai presto a vedere se ti trovi bene o no con un compagno, dal punto di vista sia tecnico sia umano».
Con Alessandro Beber due anni fa hai aperto la via Fiaba della Sera sulla parete est della Pala di San Martino, via che vi ha consentito di vincere il premio Silla Ghedina 2022. A proposito di quella via hai scritto: «Ancora una volta è stato bello allontanarsi di poco da cime super-frequentate come la Canali, trovandosi su un ambiente inesplorato a poche decine di minuti dal rifugio». Vuoi dire che anche tra le Dolomiti, un ambiente super-frequentato e super-antropizzato, si possono trovare pareti e luoghi ancora “liberi”?
«Secondo me dappertutto si possono trovare luoghi ancora liberi per arrampicare, basta andare un po’ fuori dai percorsi comuni. Sulla Nord-ovest della Civetta, una montagna tra le più famose delle Dolomiti, in parete di solito siamo soli. Alla fine la gente va sempre dove porta la moda: Falzarego, Cinque Torri… Tutte le volte che siamo stati in Tre Cime ad aprire sarà capitato forse due volte di vedere qualcuno sulla Ovest. E non solo perché si tratta di pareti severe. Oggi la frequentazione su terreni come ghiaccio e neve è determinata dai social. Invece a livello di roccia dipende da ciò che va di moda».
Preferite arrampicare sul granito o sulla roccia delle Dolomiti? Che differenze ci sono tra i due ambienti?
Claudia: «Indubbiamente si parla di stili completamente diversi. La prima volta che siamo andati a scalare in fessura negli Stati Uniti è stato terribile e bellissimo nello stesso tempo. Terribile perché sembrava di non avere mai arrampicato prima, la tecnica è talmente diversa da farti sembrare un neofita, l’esperienza che ti porti da qui non serve a niente. Io sono molto più motivata verso questo tipo di scalata soprattutto se prepariamo un viaggio, ma è difficile perché in Italia di fessure vere e proprie, al di là di Cadarese e Yosesigo (4), c’è pochissimo. E il Monte Bianco non è paragonabile anche se è granito: per esempio sulla Bonatti al Grand Capucin di passi in fessura ne farai per dieci metri in tutta la via. Alla fine non saprei scegliere, a volte mi piace molto frantumarmi le articolazioni nelle fessure (risata), altre invece scalare in calcare è bellissimo, c’è più variabilità di gesto». Alessandro: «A me piace molto di più la nostra arrampicata, c’è molta più incognita in Dolomiti, su placca che su granito. Sul granito la maggior parte delle volte segui linee che dal basso sono evidenti. Invece in Dolomiti serve più fantasia, la salita è molto più improvvisata. C’è differenza anche a livello di proteggibilità: sulle fessure nella maggior parte dei casi con i friend te la cavi, in Dolomiti se vai a chiodi è un’altra cosa».
Tutti noi, credo, abbiamo un posto speciale dove ci rifugiamo quando abbiamo bisogno di staccare dal mondo. Voi ne avete uno?
Claudia: «Più che un posto direi che… c’è il camper! (risata) Prendiamo il camper, guardiamo le previsioni e andiamo dove è bello. È il mezzo che ci ha permesso di fare la nostra vita anche con nostra figlia».
Alessandro: «La mia risposta è identica! Nel 2013 quando ho cambiato lavoro abbiamo comperato un furgone, il Caddy, l’abbiamo attrezzato e abbiamo iniziato a girare con quello. Nessuno avrebbe mai pensato al camper. Pochi mesi dopo la nascita di Viola abbiamo cercato qualcosa da fare che potesse comprendere anche la bimba e siamo andati in Francia, a “fare blocchi” a Fontainebleu. Abbiamo affittato un camper e ci siamo resi conto che per viaggiare con una bambina era comodissimo».
Avete una bimba di sei anni. La sua nascita ha cambiato il vostro modo di andare in montagna, vi ha frenato o è rimasto tutto come prima?
Alessandro: «Quando è nata Viola ho passato un periodo in cui sentivo di avere il freno a mano tirato. Ora sto il più attento possibile ma non avverto più quella sensazione come nei primi tempi. Tra l’altro, fino alla sua nascita io e Claudia abbiamo sempre scalato assieme, in Patagonia, negli Stati Uniti. Ma da quando c’è Viola è un po’ più difficile gestire tutto in coppia».
Claudia: «Ora quando si tratta di vie, io o lui andiamo con altri, così la mamma o il papà rimane con la piccola: in falesia o d’inverno invece l’abbiamo sempre portata con noi. Avere la responsabilità di una bimba a casa ha influenzato soprattutto il mio aspetto mentale. Dopo la sua nascita ho dovuto rimettermi in gioco. Per di più il ritorno all’alpinismo è coinciso anche con la morte di due nostri carissimi amici in montagna, per cui per me è stato un anno molto difficile quello che ha seguito questa vicenda. Di sicuro Viola è stata motivo di riflessione e lo è tuttora, soprattutto se andiamo via assieme. Ma se c’è una cosa che mi è sempre piaciuta dell’andare in montagna con Ale è proprio il livello di sicurezza che usa di default, sul V grado come sul IX. E non è una cosa standard. Certo avere una bimba a casa che ti aspetta ti fa rivedere le priorità ma questo non ha spento la passione, l’ha reinterpretata».
Note
(1) Fitz Roy. Aperta nel dicembre 1979 in sei giorni dagli alpinisti francesi Jean e Michel Afanassieff con Guy Abert e Jean Fabre. La via, a sinistra della famosa Supercanaleta, viene ripetuta raramente: con quasi 1600 metri di dislivello è conosciuta come una delle più lunghe nel massiccio.
(2) La via di Baù, Beber e Tondini si sviluppa in 28 tiri ed è stata chiamata Enigma, quella di Gietl, Messini e Wurzer, di 20 tiri, pare non sia stata ancora battezzata.
(3) Via Eliana, Civetta, parete nord-ovest, Punta Civetta, difficoltà massima VIII+, aperta il 27 luglio 1995 da Renato Panciera e Mauro Valmassoi. È dedicata a Eliana De Zordo, figlia dei gestori del rifugio Coldai, scomparsa assieme a Paolo Crippa nel gennaio 1990 sulla Torre Egger, in Patagonia. In dodici anni non era mai stata ripetuta.
(4) – Cadarese e Yosesigo sono entrambi piccoli centri dell’Ossola. Yosesigo è un nome inventato prendendo lo spunto da Yosemite e dal paese di Esigo.
16Scopri di più da GognaBlog
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.
Non ho ancora capito il motivo per il quale le guide alpine vogliono far parte dell’ accademico! E non capisco perché un gruppo come quello del Caai, che si fonda sulla non-professionalità nella attività alpinistica, dovrebbe perdere la sua ” natura” facendo entrare le guide.
ps mi sono espresso male, intendevo dire che Mario e Bau esprimono una modestia altissima e capacità straordinarie, un mix raro… che un amico molto forte in montagna condensava con il detto “chi più fa meno parla…”.
@regattin – hai ragione, sono stato forse troppo sintetico. anyway mi riferivo ai contenuti, propri o veicolati da altri: che sia intervista di alpi venete – che sembra una gran bella rivista – mi pare inequivocabilmente comprensibile dall’articolo.
Mi hanno colpito la modestia degli intervistati, inversamente proporzionale, con ogni evidenza, alle loro capacità (regola aurea della vita…, mi pare che anche in questo blog gli esempi non manchino), le belle foto di salite incredibili, la bella energia che traspare. Davvero una bella coppia.
Cambiano stili di scalata e obiettivi ma visione etica dell’alpinismo e motivazioni in molti rimangono inalterate con il passare degli anni.
La visione del’ Accademico, l’indirizzo dell’alpinismo extraeuropeo, e la scelta degli obiettivi, espressi dai due protagonisti mi sembrano molto simili a quelli che mi animavano 50 anni fa.
Complimenti e tanti auguri per le future scalate e non solo
L’Accademico visto da dentro non aggiunge nulla a quello che si vede da fuori.
Restando invariata la validità degli intervistati.
Condivido entrambi i commenti precedenti, vorrei solo ricordare a MG che l’intervista non è del Gognablog ma di Alpi Venete, rivista di ottimo livello, con contenuti spesso molto interessanti. Rimane comunque il merito di averne dato maggior diffusione, rispetto ad un bacino di utenza triveneto.
due grandi. senza retorica, trasmettono grandi e inarrivabili sensazioni.
questo è il gognablog che mi piace.
SuperBravi splendida intervista che accarezza ogni argomento con semplicità e chiarezza cosa non sempre facile vista le complessità che nella vita accompagna gli argomenti stessi,le scelte di vita ,ingrandire la famiglia ma non da meno l’ etica alpinistica e la modestia che non offusca la bravura.
Ancora complimenti a questa bella coppia!