Alpinismo come trascendenza
di Gustavo Gamna
(pubblicato su Rivista della Montagna n. 32, giugno 1978)
«Quando gli uomini e le montagne si incontrano vengono realizzate grandi cose che non sono realizzabili nella calca delle strade (William Blake)».
ln un mio precedente breve articolo – scritto nell’estate 1974 ma pubblicato sulla Rivista della Montagna alla fine del 1976 – più che un articolo una serie di appunti per un articolo, dal titolo originale di Droga e Montagna, poi modificato, per giusto suggerimento dei redattori della Rivista in Droga e alpinismo, forse più corretto ma meno fascinosamente onomatopeico, ho cercato, sulla base di alcune considerazioni su di una allora nuova ed esasperata esperienza dell’alpinismo condotta in questi ultimi anni dalla scuola californiana e riferita in numerosi articoli su di esso, comparsi anche su riviste italiane ed europee, e particolarmente sulle annotazioni di uno scritto di Doug Robinson, di tracciare un parallelo, forse ardito, per taluni certamente scandaloso, ma non del tutto privo di fondamento, fra l’esperienza dello scalatore e quella psichedelica, e di sostenere come, da un fondo ideologico comune, possa nascere una via interpretativa di questi fenomeni.
Il mio scritto ha suscitato qualche polemica che ha trovato puntualmente eco nella Rivista. Dopo il mio articolo, uno scritto di Virginio Nava, psichiatra comasco, scalatore egli stesso e partecipe di spedizioni hymalaiane, ha ripreso l’argomento. Però né Nava, né Gian Piero Motti che ha gentilmente scritto alcune righe di presentazione al mio lavoro, mi pare centrino in maniera esatta il mio pensiero e ciò mi ha sollecitato, sia pure con qualche ritardo, ad un ulteriore ripensamento ed approfondimento. Nava, nel suo lavoro, analizza i relativamente scarsi dati sparsi nella letteratura specialistica sulla personalità degli scalatori, e, dopo aver esaminato le motivazioni e i bisogni che la montagna è in grado di soddisfare – il piacere derivante dall’attività fisica, l’evasione dalla vita quotidiana, il sentimento di solidarietà e di amicizia che si stabilisce con i compagni di cordata, il diletto estetico derivante dalla riscoperta della natura incontaminata – riconosce però che «queste motivazioni, valide soprattutto per gli alpinisti comuni, sono insufficienti e inadeguate per spiegare le imprese dei grandi scalatori, che sono spinti e sollecitati da impulsi più personali». Fra queste altre motivazioni egli cita il bisogno di affermare la propria personalità, di soddisfare una sete di gloria, di gratificazione rispetto a insufficienze e scacchi della vita quotidiana, di scaricare tensioni aggressive ed impulsi esibizionistici, di porsi in gioco in una rischiosa avventura alla scoperta del nuovo e per la conoscenza di se stesso. Quest’ultimo «desiderio di ampliare la conoscenza di se stessi avvicina l’alpinismo all’esperienza di alcune droghe». Però, pur ammettendo che «l’uso della droga e dell’alpinismo potrebbero anche essere originati dalle stesse premesse culturali e socio-ambientali», per Nava «tali esperienze presentano modalità espressive opposte soprattutto per l’impatto incisivo, icastico, rude (anche se esaltante) che l’alpinismo ha con il reale, anziché con l’immaginario, come avviene per la droga».
Ma non si tratta, a mio parere, di paragonare fra di loro due così difformi vissuti, quanto di identificare la possibile comune essenza, il fondo esistenziale che li unisce. Tanto più chi poi Nava, in qualche modo contraddicendosi, scrive che durante l’ascensione «spesso l’angoscia personale svanisce in un sentimento vicino alla religiosità cosmica, una specie di smarrimento nella grandiosità terrificante della solitudine alpina». Lo scalare è dunque «come un esercizio spirituale, basato su di una stretta simbiosi di azione e di contemplazione di sé e della natura». Egli cita ancora al proposito una frase di Saint Exupéry: «la montagna è uno specchio, una provocazione del sublime; essa esalta ciò che ciascuno porta in sé di più ardente» e le parole di Herzog nella prefazione al libro di Chris Bonington Annapurna parete sud: «non si è veramente vissuto se, in un momento della nostra esistenza, non abbiamo dovuto far battere il cuore rischiando la vita, per arrivare là dove nessuno era riuscito a giungere, per segnare con la propria impronta un universo inaccessibile, per sentirci migliori e più grandi, e per raggiungere infine una serenità spirituale che l’uomo del nostro tempo ha perduto».
Gian Piero Motti, cui si deve una precisa e diffusa analisi dell’alpinismo californiano, articolo che mi ha appunto spinto ad interessarmi dell’argomento, scriveva d’altronde che «l’alpinismo, in certe condizioni, può essere un mezzo di fuga davanti all’angolosa realtà esistenziale di un modo di vivere pressante e caotico. E’ significativo come l’alpinismo californiano tragga grande ispirazione dalla filosofia e da alcune discipline orientali, soprattutto dallo Zen e da certi risvolti dell’induismo, sebbene riveduti e corretti ad uso occidentale. Alla base vi è dunque una forte esigenza di vedere chiaro in se stessi, una indagine fine e profonda del proprio io… L’azione infine non sarebbe che un mezzo per il raggiungimento di una pace interiore e di una verità superiore o almeno presunta come tale». Chiunque del resto legga i volumi scritti dai grandi scalatori sulle loro, spesso drammatiche, imprese, trova, espresse in maniera diversa, ma sempre centrale, queste esigenze di una spiegazione dell’alpinismo non in termini semplicemente materiali, di sforzo fisico o di apporto tecnico, ma invece nel senso di un confronto con se stesso, di un anelito nel raggiungimento di mete che non sono la vetta in sé, ma il superamento e la trascendenza dei propri limiti umani.
Già Adolfo Hess nei suoi Saggi sulla psicologia dell’alpinista, 1914, scrive citando un alpinista dei primi del Novecento che «la ragione di essere del vero alpinismo è un bisogno imperioso di rinnovamento interiore».
Il problema tuttavia non è quello di sottolineare questi ben noti aspetti dell’alpinismo. Restando cioè scontato che l’esperienza della scalata non può essere risolta solo sul piano della neurofisiologia, per quanto elaborata e sofisticata essa possa essere – assai più in là delle rozze ipotesi esposte da Robinson – e che quindi l’alpinismo è qualcosa di più e di diverso da un semplice fatto fisico (quindi anche di in fatto atletico, sportivo, ecc.), e che pertanto questa esperienza debba essere valutata e compresa (nel senso jaspersiano) soprattutto come vissuto esperienziale, come modalità di declinare la propria esistenza, rimane la necessità di uno studio fenomenologico che vada oltre l’apparenza descrittiva, per indicarne invece l’essenza.
Sotto questo aspetto la scalata deve essere ritenuta come un progetto, o meglio ancora, un metaprogetto di mondo, e quindi, un’opera creativa, e deve pertanto essere considerata in maniera ben diversa da quell’aspetto negativo di «fuga dal mondo» per cui gli alpinisti vengono etichettati fondamentalmente come delle persone che sfuggono l’impegno sociale. Già George H. L. Mallory, nel 1914, con rara e in allora discussa capacità di penetrazione, scriveva al proposito sull’alpinista come un artista.
Idea che trova riscontro anche in scritti recenti. Soprattutto nella scalata solitaria, scrivono Pierre Béghin, Xavier Fargeas e Nicolas Jaeger (1976) «il contesto spirituale diviene preponderante e la concezione del progetto, come la sua realizzazione, impegna l’individuo nella sua interezza». E Domenico Rudatis, in occasione di un recente congresso, ribadisce che «anche l’alpinista è un creatore… impegnato nella sua azione con tutto il suo essere… e questo discorso emerge anche dallo stile… La grande questione è il riconoscere cosa l’alpinista può dare a se stesso ed agli altri, quale sia cioè il vero significato dell’alpinismo, al di là delle cronache giornalistiche e delle competizioni sportive».
Il problema allora si pone come questa opera creativa venga a dispiegarsi; di un’analisi di «ciò che è realmente nella coscienza, o, in altri termini, immanente ad essa»; di dare dunque importanza primaria alla maniera in cui la presenza si pone in relazione con il suo sé e con il suo mondo; di cercare «il modo di essere nel mondo che rende possibile una tale esperienza, o, in altre parole, che la renda comprensibile».
Si scopre allora che «nel suo esistere la presenza è il fondamento del suo poter-essere solo nella misura in cui è (pro) gettata (Ludwig Binswanger)». La questione da risolvere è dunque «la relazione originaria della realtà umana con l’essere dei fenomeni». Scrive Jean-Paul Sartre che «nella proporzione in cui il per sé deve essere il suo essere al di là del suo presente, è manifestazione di un al di là dell’essere qualificato che viene a questo dal fondo dell’essere… La realtà umana, superandosi verso la propria possibilità di negazione, fa essere ciò per cui la negazione mediante superamento viene al mondo… Essere nel mondo non significa sfuggire al mondo verso se stessi, ma fuggire dal mondo verso un al-di-là del mondo…». Perciò l’atto «ha per funzione di manifestare e di rendere presente a se stessa la libertà assoluta che è l’essere stesso della persona». In questa relazione fra il fare, l’essere e l’avere, è la libertà quella che conta.
E’ significativo che Sartre scriva, a proposito dello sport, che esso «è effettivamente libera trasformazione di una porzione del mondo in elemento di sostegno dell’azione. Perciò, come l’arte, è creatore».
Qual è allora questo pro-getto di mondo ed attraverso quali categorie esso si dispiega?
Certamente una delle categorie sulle quali si declina esistenzialmente la persona dello scalatore è quella dell’azzardo e del rischio [nella terminologia anglosassone «hazard» designa il vero e proprio rischio obbiettivo, mentre «risk» la sua vantazione soggettiva (Bernard Fox: Behavioral Approaches to Accident Research – Ed. Assoc. f. Aid to Crippled Children, New York, 1961), NdA], dove la consequenzialità dell’azione va nel senso di una «capacità del risultato di andare oltre quelli che sono i confini dell’occasione in cui esso è determinato e di esercitare un’influenza obbiettiva sul resto della vita di colui che la compie (Erwing Goffman)». «Stare sul filo è vivere – ha detto l’equilibrista Karl Wallenda, di recente scomparso, al momento di riprendere l’attività dopo un tragico incidente che coinvolse la sua troupe – tutto il resto è aspettare». «Questi piccoli spasmi crudi del sé – scrive ancora Goffman – si verificano alla fine del mondo, ma là in ultima analisi sono l’azione e il carattere». Da queste premesse discende anche il problema dell’attrezzatura e dei sussidi tecnici consentibili all’alpinista, problema aperto e per molti versi polemico.
E’ certo che, l’alpinismo fa uso della categoria del rischio, «se si desidera mantenere aperta la possibilità di spingersi sino al limite estremo, bisognerà naturalmente impedire in qualche modo l’uso di un equipaggiamento eccessivo (Goffman)». Gilbert descrive queste limitazioni che si impongono volontariamente gli sportivi: nell’alpinismo la scalata solitaria, l’esclusione di certi mezzi artificiali, il rifiuto delle mastodontiche organizzazioni che richiedono ed hanno realizzato certe spedizioni hymalaiane. Queste situazioni, nelle quali domina la cosciente e consapevole ricerca del rischio si pongono nel novero di quelle situazioni-limite «nelle quali – come scrive Karl Jaspers – ci si sveglia all’esistenza e si naufraga-come realtà immediata». Giustamente Jaspers scrive ancora che «vedere chiaramente questi limiti e ciò che l’individuo può diventare in essi, quando si apre ad essi o quando si nasconde, va al di là della psicologia empirica». Ciò indica chiaramente l’inanità di certi sforzi di interpretazione dell’alpinismo secondo dimensioni psicologiche banali, ed in particolare l’errore metodologico di certe, per altro verso anche molto rozze, interpretazioni psicoanalitiche.
In tale prospettiva e in questa direzione acquista interesse la dimensione estatica e meditativa nell’ambito delle quali si pone l’atto della scalata. Sul piano psicofisiologico, come precisa Fischer in una serie di lavori, questo vissuto esperienziale può situarsi sia lungo il versante percettivo allucinatorio, nel quale sono incluse esperienze creative, e/o lungo il versante percettivo meditativo, nel quale sono incluse esperienze di tipo Yoga o Zen [Secondo Kuno Fischer questi due tipi di esperienze implicano la partecipazione di due diversi sistemi neurofisiologici, rispettivamente quello ergotrofico e quello trofotropico, secondo il modello proposto dalle ricerche di Hess W. (Das Zwischenhirr – Schwabe, Basel, 1949)].
Non è difficile esemplificare questi due aspetti dell’alpinismo. Basta per esempio leggere il resoconto di Yvon Chouinard della scalata al Muir Wall di El Capitan per trovare la descrizione dettagliata di tutta una serie di modificazioni a livello percettivo e di vissuto corporeo; come d’altra parte è sufficiente sfogliare le pagine dei volumi che hanno scritto i grandi alpinisti per cogliere in essi espressioni che connotano esperienze interiori di meditazione che hanno spesso raggiunto livelli assai alti e di intensa profondità.
E’ su questi modelli esperienziali che si innesta il discorso delle analogie di questi stati con quelli prodotti da droghe del gruppo «psichedelico» (LSD, mescalina, psilocibina, ecc.). Come ho già ricordato nel mio precedente articolo Henry Ey, in un lungo lavoro sull’esperienza psichedelica, ricercandone il senso esistenziale, scrive che essa ha un’evidente analogia con altri tipi di esperienza, come quella estetica o quella mistica od altre forme ancora che si situano, come anche l’alpinismo, «in quelle regioni dell’essere dove sorge come un mondo di oggetti il puro vissuto, il radicale della soggettività». Talché, e questa era la mia conclusione, «la motivazione fondamentale dell’alpinismo trova nello studio e nell’esperienza delle droghe un apporto chiarificatore». Su questa base la ricerca potrebbe essere ulteriormente approfondita anche sul piano neuropsicofisiologico [Si può leggere in proposito il volume di Gordon Claridge Drugs and human behaviour, Pinguin Pr., London, 1970, l’articolo di Julian Silverman Research with psychedelics (Arch. Gen. Psychiatry, 25, 498, 1971) ed un mio lavoro, Gustavo Gamna e Roberto Marocchino, Recenti contributi ad un’ipotesi interpretativa della schizofrenia dedotti dallo studio degli effetti delle sostanze psichedeliche (Ann. Fren. e Se. Affini, 87, 1, 1974) nel quale sono riferite le moderne conoscenze sull’argomento], ma non mi pare questa la sede adatta né il motivo principale di questo lavoro.
Ritorna allora come di primaria importanza per la comprensione dell’alpinismo la ricerca del suo fondamento e della sua dimensione esistenziale. Scrive Binswanger al proposito che «la presenza umana si progetta nel senso dell’ampiezza ed in quello dell’altezza; essa non procede solo orizzontalmente, ma sale anche verso l’alto… La prospettiva verticale di significato, e cioè il salire verso l’alto, corrisponde prevalentemente al desiderio di vincere la “gravita della terra”, ossia al desiderio di stare al di sopra della pressione e dell’angoscia delle cose terrene, ed insieme al desiderio di arrivare ad un punto di vista “superiore”, ad una visione più alta delle cose… del decidere di sé, come appropriazione del mondo nel senso del divenire e del realizzare il proprio sé… la decisione implica che si salga e ci si elevi al di sopra della particolare situazione mondana… Il salire verso l’alto non significa soltanto imparare a sapere il fatto proprio, nel senso dell’esperienza; esso implica piuttosto una presa di posizione, ossia un decidere di sé nel senso dell’autorealizzazione…». Scrive ancora Binswanger che «tratto caratteristico della più profonda struttura ontologica della condizione umana è la possibilità di direzione dal basso all’alto (e viceversa)… questo stesso fondamento del cadere e del salire della nostra presenza costituisce la base di tutte le rappresentazioni religiose, mistiche e poetiche dell’ascesa dello spirito al cielo e dell’infinita pesantezza del corpo…».
Queste espressioni filosofiche trovano riscontro in quanto hanno scritto gli alpinisti. «Immagini – dice Hermann Buhl – che sovrastano il contingente evento umano, che splendono ed attirano, fanno ardere il cuore e dimenticare, tornando, pene e delusioni», e Walter Bonatti, nella sua relazione alla salita in solitaria dei Drus «ho il sentimento di avere superato la barriera insuperabile che mi separava dalla mia anima». Giusto Gervasutti pensava che l’alpinismo sia «una forma di attività che permette a degli uomini di esprimere con quel mezzo o di soddisfare mediante quel mezzo un bisogno del proprio animo… questo bisogno può essere la necessità di una forma eroica di vita, l’insofferenza a costrizioni e limitazioni, di crearsi una forma di vita più alta…». Per Bonatti «l’alpinismo trascende veramente le sue origini per assumere un senso quasi filosofico… trascende le premesse materiali, e persine la pura, intima soddisfazione di chi Io compie, in lotta a volte disperata con se stesso, con le difficoltà e l’incomprensione. Questa verità è la chiave stessa della verità dell’uomo… è il simbolo che conferma la nostra dimensione umana, irreversibile e immortale…». Egli ancora scrive: «ebbro di silenzi e liberato dai limiti del pensiero e dell’azione, il mio spirito vibra, esulta, e dà un valore alla mia avventura…».
Sotto questo profilo l’alpinismo è qualcosa di più di uno sport, è un ideale di vita, come afferma anche René Desmaison nel volume sulla sua terribile esperienza sulle Grandes Jorasses. Vi è la possibilità, ha detto Messner in un recente convegno che «alcune volte, specialmente in situazioni limite, ci capita di uscire al di là delle normali forze e situazioni mentali dell’uomo». Di queste citazioni se ne possono fare molte e tutte concordanti [Val la pena, al proposito, indicare le belle pagine che in campo letterario lo scrittore americano della beat generation Jack Kerouac ha scritto in I vagabondi del Dharma (Mondadori, Milano, 1961), oltre a quelle già indicate nel mio precedente articolo dell’etnologo americano Carlos Castaneda in Una realtà separata (Astrolabio, Roma, 1972)].
Ciò che però importa non è la sottolineatura dell’aspetto romantico ed elitario che pone l’alpinismo ad una osservazione superficiale come una attività emarginata e talvolta addirittura alienata, ma invece la presa di coscienza della problematica dell’alpinismo come fondamento dell’essere e come trascendenza. Certo non sempre questa chiarezza di pensiero è stata raggiunta. Mi sembra soprattutto da contestare una posizione ideologica avanzata da più parti in tempi recenti che attribuisce all’alpinismo una connotazione unicamente sportiva. Giustamente scrive Alessandro Gogna al proposito: «l’alpinismo sportivo asseconda la morale del successo e valorizza l’idea del singolo in rivolta a una società; perciò l’affermazione personale è sempre nei limiti del movimento che il sistema concede, e non è sfruttata la scintilla rivoluzionaria che l’alpinismo può racchiudere». Mentre invece «alla base dell’alpinismo ideale vi può essere almeno la coscienza che un fine ideale è stato ritrovato e che la creazione di un benessere spirituale nell’ambito sociale è stata iniziata». Si tratta soprattutto di una nuova etica e di tendenze dell’alpinismo moderno (Thomas John Higgins), e, per esempio, di una «frontiera da immaginare» che l’irrequieta ed un poco eccentrica, ma viva e vera personalità di Andrea Gobetti invita a scoprire. Di fatto, quanto più si approfondisce il discorso sull’alpinismo, come su qualsiasi «verità» umana, e quanto più si cerca il fondamento essenziale di esso, tanto più esso diventa un discorso sulla trascendenza. «Il problema del fondamento – scrive Martin Heidegger – non potrà trovare una impostazione adeguata se non là dove l’essenza della verità attinge la sua possibilità intrinseca, cioè nell’essenza del fondamento, e diviene così il problema della trascendenza… Trascendere significa oltrepassamento… qualcosa di appartenente all’esserci dell’uomo… come la costituzione fondamentale del suo ente… La trascendenza è un oltrepassamento che rende possibile l’esistenza in generale…».
Fondamento della trascendenza, è, a sua volta, la libertà: «la libertà, nella sua natura essenziale di trascendenza, pone l’esserci, in quanto poter essere, di fronte al suo destino». Questo è forse il senso ultimo ed il messaggio dell’alpinismo moderno.
Bibliografia consultata
Hess A.: Saggi sulla psicologia dell’alpinista (Lattes, Torino, 1914).
Gamna G.: Droga e alpinismo: verso una trascendenza (Rivista della Montagna, n. 26, 1978, pag. 304).
Robinson D.: The climber as visionary (Ascent, 1969).
Nava V.: Aspetti psicologici dell’alpinismo fra droga e realtà (Ann. Fren. e Se. Aff. 91 1978, pag. 1).
Bonington C.: Annapurna parete sud (Dall’Oglio, Milano, 1973).
Motti G.P.: Il nuovo mattino: analisi dell’alpinismo californiano (Rivista della Montagna, n. 16 1974, pag. 2).
Mallory G.: L’alpinista, un artista (British Climber’s Club Journal, 1914).
Béghin P., X. Fargeas, N. Jaeger: Du spirituel dans l’art (La Montagne, n. 3, 1976, pag. 326).
Rudatis D.: La grammatica, il discorso, il significato dell’alpinismo (Atti 1° Conv. Naz. sull’Alpinismo Moderno – Torino, nov. 1976).
Binswanger L.: Essere nel mondo (Astrolabio Roma, 1973).
Sartre J.P.: L’essere e il nulla (Il Saggiatore Verona, 1964).
Goffman L.E.: Modelli di interazione (Il Mulino, Bologna, 1971).
Gilbert B.: The moment of a truth menace (Esquire, die. 1965, pag. 117).
Jaspers K.: Psicopatologia generale (II Pensiero Scientifico, Roma, 1964).
Fischer R.: A cartography of the Ecstatic and Meditative States (Science, n. 174, 1971, pag 897).
Chouinard Y.: Resoconto della scalata al Muir Wall di El Capitan (American Alpine Journal 1966).
Ey H.: LSD et expériences psychedéliques (Evol. Psychiatrique f. 2, 1969, pag. 249).
Buhl H.: E’ buio sul ghiacciaio (SEI, Torino 1961).
Bonatti W.: I giorni grandi (Mondadori, Milano, 1971).
Gervasutti G.: Scalate nelle Alpi (SEI, Torino, 1968).
Desmaison R.: 342 ore sulle Grandes Jorasses (Dall’Oglio, Milano, 1973).
Messner R.: Relazione in Atti del 1° Conv. Naz.le sull’alpinismo moderno (Torino, nov. 1976).
Gogna A.: Un alpinismo di ricerca (Dall’Oglio, Milano, 1975).
Gobetti A.: Una frontiera da immaginare (Dall’Oglio, Milano, 1976).
Higgins T.: Analizzando questo nuovo e audace mondo: etica e tendenza attuale dell’alpinismo americano (Mountain, vol. 53, febbr. 1977).
Heidegger M.: Essere e tempo (Utet, Torino, 1969).
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Analisi sempre interessanti ma che hanno il solo fine di cercare spiegazioni come lo sono per ciascun attore, quindi infinite.
E’ come fare l’oroscopo: una serie di frasi dall’apparente senso compiuto che si adattano camaleonticamente a ogni situazione in cui si trova chi le legge o ascolta. C’è perfino chi ci crede.
Un tempo dicevano: tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare.
Già allora le analisi nascevano dal sentito dire o dall’aver letto.
Strano il mondo, ma in quei tempi le riviste di montagna pubblicavano così.
Ora i risultati si vedono bene.
Da domani mi dicono che si parlerà delle Alpi senza mai esserci stati.
Anatema se ci si confronta con gli altri se stranieri.