Alpinismo e tecnologia

Alpinismo e tecnologia
Il 30 settembre 2017 si è svolto a Treponti di Teolo (PD) il convegno nazionale del Club Alpino Accademico Italiano sul tema Alpinismo e Tecnologia. Ovvero come la tecnologia abbia portato benefici all’innalzamento dei livelli arrampicatori e/o alpinistici.
Sono intervenuti Giuliano Bressan, Marco Furlani, Romano Benet, Anselmo Cagnati e Alessandro Gogna. Conduttore è stato Vinicio Stefanello (di PlanetMountain).

Lettura: spessore-weight****, impegno-effort***, disimpegno-entertainment***

Alpinismo e tecnologia
(relazione di Alessandro Gogna al Convegno Nazionale del CAAI, Teolo (PD), 30 settembre 2017)

Facciamo una fuga in avanti. Il 15 settembre 2017 hanno “suicidato” la sonda Cassini, che da sette anni girava attorno a Saturno e ai suoi numerosi satelliti. L’hanno fatta precipitare e disintegrarsi: missione finita. Però in questi anni la sonda ha lavorato egregiamente facendo scoperte incredibili.

Il gruppo di comunicazione, che era dietro a questa missione europea in collaborazione con la NASA, mi ha contattato perché volevano fare una trasmissione in streaming sull’evento del 15 settembre, assieme a fior di scienziati e tecnici, alcuni dei quali direttamente coinvolti nel progetto (vedi https://gognablog.sherpa-gate.com/missione-cassini-montagne-aliene/). Lo scopo era di dare una panoramica non solo scientifica ma anche emozionale del significato delle nuove scoperte.

Mimas

Mi hanno contattato come alpinista, perché hanno scoperto che su due satelliti di Saturno, Mimas e Giapeto, non molto grandi, ben più piccoli della nostra Luna, ci sono montagne che arrivano a 25.000 metri di altezza. Numerati non sul mare ovviamente, bensì su quella che è stata calcolata come l’altezza media (rispetto ai punti più profondi) delle loro superfici. Stiamo parlando di 25 km di altezza, e su Giapeto di una catena di rilievi di 1.300 km. Guardando le foto si scorgono giganteschi incavi, presumo per caduta di meteoriti enormi. Questi incavi presentano pareti verticali fino a 3.000 metri di dislivello. Se la salita della montagna sembra in genere agibile per via della lieve pendenza, in questi incavi ci attendono cose sovrumane. Sono là che ci aspettano. L’unico vantaggio sarebbe costituito dalla gravità, enormemente più lieve di quella terrestre. Per il resto le condizioni sono molto più che proibitive.

Siamo oltre il sogno, non riusciamo neppure a sognare un’ascensione del genere. Solo il pensiero ce lo permette, il pensiero infatti arriva a concepire l’infinito. Il sogno è più concreto del pensiero: la cosa sembra incredibile, ma se ci riflettete è così.

Forse tra 200 anni, quando avremo salito anche le montagne di Giapeto, staremo a discutere ancora su questioni etiche, se per esempio il teletrasporto sarà ritenuto accettabile o meno o magari debba essere limitato al tragitto AstroBase di partenza-Campo Base, ecc.

Scherzi a parte, era solo per dire che le discussioni su materiali, tecniche e adesso anche tecnologia probabilmente sopravvivranno all’alpinismo stesso.

Dicendo “tanto di cappello”, mi rifaccio alla frase di Giuliano Bressan quando ci ha mostrato alpinisti degli anni Trenta e il loro equipaggiamento: soprattutto oggi impressionano le corde di canapa e il modo in cui si legavano.

 

Certo, tanto di cappello! Lo diciamo con il cuore, ma nello stesso tempo ci consoliamo pensando che forse, noi epigoni, tutti assieme e in molte decine d’anni, magari qualcosa in più abbiamo fatto. Abbiamo innalzato standard e limiti, a volte di tanto. Ci consoliamo così, ed è giusto.

Ma se ci facciamo l’altra domanda “e l’esperienza individuale?” cosa rispondiamo? E’ aumentata? E’ rimasta sostanzialmente simile? O magari è diminuita?

E’ una domanda che dobbiamo farci, perché alla fine riconduce alla domanda fondamentale “perché andiamo in montagna?”.

Tante sono le risposte possibili, con altrettante domande. Ma qui ne considero solo due.

Prima. Veramente andiamo in montagna per superare i nostri limiti e quelli dei nostri padri? Può essere una motivazione, ma non la vedo così importante e trascinante.

Seconda. Andiamo in montagna per scoprire e trovare noi stessi, per avere un’esperienza globale di noi stessi e magari per cercare di trasmetterla ad altri. Questo mi sembra lo scopo fondamentale per il quale facciamo alpinismo.

Nel tornare al tema di oggi, alpinismo e tecnologia, mi faccio una domanda ulteriore: “quali sono gli aiuti all’attività alpinistica?”, ove per attività alpinistica intendo quella globale, dall’escursionismo all’alpinismo himalayano, dalle solitarie allo scialpinismo, dallo speed climbing al freeride.

Do per scontata la motivazione personale, che è evidentemente un “aiuto” basilare senza del quale ce ne staremmo tutti a casa. Al di là quindi delle motivazioni dell’individuo, che sono quelle che ci spingono in alto, quali sono gli aiuti?

Ho provato a classificarli e ho deciso di dividerli in cinque categorie diverse. Delle prime quattro si è parlato oggi e se n’è discusso per anni e anni:
1) tecniche di progressione (sviluppate in 250 anni);
2) tecniche di assicurazione e sicurezza;
3) materiale usato (evoluzione di 250 anni) e studi scientifici al riguardo, con particolare riguardo allo spit;
4) tecniche di allenamento (per semplicità ho qui incluso anche l’evoluzione e l’uso dei farmaci).

Anche della quinta si è parlato e discusso:
5) informazioni.

Ed è questo il punto che più m’interessa. Noi, nella nostra attività, siamo sempre stati aiutati dalle informazioni. Le informazioni sono di due tipi: c’è la nostra esperienza diretta, il nostro vissuto, ciò che noi abbiamo imparato negli anni della nostra attività individuale; e c’è il “percepito”, ciò che noi assimiliamo dall’esperienza altrui. E’ questo secondo tipo di informazioni a essere più visibile e raggiungibile. Queste informazioni del secondo tipo occupano le vaste biblioteche (libri, racconti, monografie, relazioni, biografie di alpinisti), in tutte le lingue. Di questo secondo tipo fa parte anche il “sentito dire”, ciò che ci dicono gli amici, ciò che ogni giorno ci presenta la cronaca (oggi perfino in tempo reale), anche quella che una volta si chiamava “radio serva”.

Arriviamo alla parola tecnologia. “Tecnologia” non è nulla di tutto questo, non è una sesta categoria da aggiungere alle altre. Tecnologia non è tecnica, vuole dire altro, è altro. Le tecniche le abbiamo affinate noi, dal tempo dei nostri trisnonni. Le tecnologie sono invece insiemi di studi e tecniche che hanno sviluppato “altri” e che vengono APPlicate all’alpinismo.

La tecnologia non è una sesta categoria di aiuti perché va ben oltre un aiuto. La tecnologia è un moltiplicatore, infatti moltiplica (se applicata) tutte e cinque le categorie di aiuti di base. Le invade in modo massiccio, non entra in punta di piedi, e in genere finisce per escludere con la sua presenza i sogni e le nostre doti d’intuito e pensiero.

Un elenco di queste tecnologie, forse grossolano ma efficace:
1) facilitazione degli avvicinamenti (vettura propria, strade, autostrade, impianti di risalita: è la tecnologia dei trasporti (non ancora il teletrasporto…) che ti trasferiscono velocemente all’inizio delle difficoltà alpinistiche;
2) comunicazioni radio (oggi un po’ desuete, in uso solo per il soccorso alpino);
3) telefono cellulare (oggi smartphone, anche satellitare), un vero e proprio minicomputer dotato di App di ogni tipo;
4) gps, che poi si applica in quel GeoResQ con il quale si può più facilmente essere reperiti e salvati;
5) previsioni meteo, sappiamo tutti quanto possono essere importanti. L’esempio fornito da Anselmo Cagnati al riguardo della tragedia del 1961 sul Pilone Centrale del Monte Bianco in cui morirono quattro grandi alpinisti è davvero illuminante. Con i dati di cui si disponeva nel luglio 1961, la tecnologia moderna ha ricostruito una mappa meteo di quei giorni tale che se avesse potuto essere disponibile, nessuno allora si sarebbe avventurato in un’impresa di quattro-cinque giorni. Si sarebbe potuto evitare la tragedia.
6) altri congegni elettronici, tipo artva;
7) i social network.

I libri sono sempre più soppiantati dalle informazioni digitali

Queste tecnologie trasformano e moltiplicano le cinque categorie di aiuti di cui parlavo prima, direi quasi indipendentemente dalla nostra volontà.

Per le prime quattro abbiamo una vera e propria moltiplicazione di risultato, con efficienza straordinariamente ingigantita e raffinata; ma per la quinta (l’informazione) occorre fare un distinguo, tra informazione nostra e quella altrui. E’ vero che l’informazione altrui con l’uso di tecnologia viene moltiplicata. E ci arriva in tempo reale e ovunque. L’informazione ci può raggiungere in parete, nel momento in cui possiamo averne bisogno. La moltiplicazione avviene nello spazio e nel tempo. Ci sono app che ti dicono come si chiamano le montagne che si vedono, altre che ti suggeriscono cosa devi fare in base all’esperienza di chi ti ha preceduto ieri, altre che sostituiscono guide, cartine e relazioni, che a quel punto puoi lasciare tranquillamente a casa.

Vogliamo parlare di facebook? Questo social amplifica a dismisura qualunque cosa, nel bene e nel male con battute immediate, a volte neppure pensate. E la go-pro? Ci sono dunque tante tecnologie che oggi noi utilizziamo normalmente e che sono solo la moltiplicazione dell’esperienza altrui.

E l’informazione “nostra”? L’esperienza nostra? Torno alla domanda di prima, ci interessa di più superare i limiti nostri e degli altri, o ci interessa il raggiungimento di una nostra esperienza globale?

Perché è evidente che le tecnologie non moltiplicano la nostra esperienza, anzi la de-moltiplicano. La nostra esperienza individuale viene de-moltiplicata con l’uso sistematico e massiccio della tecnologia.

Anche oggi, qui in questa sede, si è detto almeno due o tre volte che quando si è circondati da tecnologia non si è più capaci di “sentire” l’ambiente a noi circostante, un’amputazione delle nostre possibilità e capacità che non può essere tollerata. Ciò lo si deve al fatto che con la tecnologia le informazioni altrui arrivano di colpo, tutte assieme, ciascuna con la sua validità oggettiva. Non stiamo parlando di fake news, bensì di informazioni che si ritengono, e assai probabilmente sono, valide.

La de-moltiplicazione dell’esperienza propria si può tradurre con “diminuzione”. E se così è, dobbiamo davvero prendere coscienza di questo fatto. Non possiamo fare finta di nulla.

Tanto più le informazioni ci raggiungono in ogni momento e ovunque, tanto più diminuiscono le possibilità di un’individuale esperienza della montagna. Non possiamo maturare, né crescere, né diventare qualcosa di bello. Perché alla fine c’interessa essere belli: non di faccia, voglio dire belli dentro.

Angelo Dibona

Io reputo Angelo Dibona il Reinhold Messner della prima metà del secolo XX: faceva cose pazzesche, ha aperto vie mirabolanti con i clienti, con tecniche e materiali che dire primitivi è eufemistico. Dibona aveva invece una grande capacità di relazione con l’ambiente, non solo fiutava le vie, ma individuava la loro realizzazione quasi senza colpo ferire. Questa sua relazione era stupenda, gli è durata tutta la vita e ne ha fatto il mito che conosciamo (ma che non abbiamo ancora apprezzato nella sua totalità). E’ ammirevole che Dibona abbia conservato quel dono, perché è anche vero che quel dono qualche volta si perde, ci si lascia prendere da altre cose, la prima è l’ambizione del nostro Io, la sovrastima.

C’è anche chi crede che tutta questa tecnologia applicata sia una manna dal cielo, perché ci fa godere semplicemente di ciò che vediamo e facciamo senza porci tante domande. Più sicurezza e più facilitazioni = più benessere e più felicità. Perché non usare dunque la tecnologia? Certo, qui ognuno la pensa come vuole.

Io penso invece che la moltiplicazione tecnologica delle facilitazioni porta più facilmente alla noia. Mi sembra quasi di ripetermi, già una volta proprio in sede accademica avevo asserito che spesso, sulle vie interamente chiodate a spit, di mortale è rimasta solo la noia… Sto parlando della noia del bambino che si stufa del giocattolo e ne vuole un altro magari tecnologicamente più evoluto. Questo mi terrorizza, non vorrei mai che quello che ho fatto e sto facendo mi venisse a noia. Sarebbe grave, per me e per i miei familiari, diventerei insopportabile. Probabilmente lo sono già insopportabile, ma se fossi annoiato lo sarei anche di più. Io credo che le facilitazioni tecnologiche alla fine annoino, ma so che questa non può che essere una valutazione personale.

Sono invece assai più convinto di un’altra considerazione: le facilitazioni moltiplicate alla fine facilitano la sovrastima di noi stessi. Quindi maggiore facilità di sbagliare, propensione all’errore, attrazione verso situazioni adrenaliniche. Diciamo che si diventa più imprudenti se si crede di avere ogni cosa in mano, a portata di clic. Ci si sente onnipotenti, e questo è quanto di più sbagliato possa capitare.

C’è ancora un punto cui tengo. Ciò di cui ho appena parlato diventa particolarmente esplosivo se lo riferiamo alla “documentazione”.

Da quando c’è alpinismo, c’è documentazione. In un primo tempo con la parola, con gli scritti e con i disegni. Occorreva distinguere tra disegni di fantasia (la maggior parte) e disegni alla Whymper, che assomigliavano a delle fotografie. In un secondo tempo ecco irrompere la fotografia, poi la cinematografia; e oggi ecco la documentazione digitale in tempo reale.

Se una si porta dietro un po’ di tecnologia, si sa parecchio di lui e di cosa fa, se arriva in cima o se non arriva, quanto tempo impiega. La documentazione, se prima serviva a trasmettere un’esperienza, oggi è più importante dell’esperienza stessa. E’ più esaminata la documentazione che l’impresa alpinistica, cioè la “prova” è più importante del fatto. E qui c’è da ribellarsi a questa distorsione. Vale più la documentazione o l’ascensione?

La traccia GPS di Alex Txikon durante la prima invernale del Nanga Parbat

Ci sono degli effetti drammatici. Abbiamo visto Ueli Steck arrivare in cima alla Sud dell’Annapurna, lo abbiamo visto indagato sulla verità di ciò, lo abbiamo visto cadere in depressione. Non ne ha fatto un dramma pubblico, ma c’era il dramma privato. Ed è finita come è finita.

Un fatto grave. Certo, ai tempi della parola, dello scritto e del disegno, non è che non si mentisse. Menzogne ce ne sono sempre state. Sono state smascherate perfino conquiste del polo Nord che per decine d’anni erano state tramandate nei libri di scuola!

Sappiamo tutti che ci sono casi assai controversi, con fazioni da stadio, ma non voglio qui parlare di questo. A me preme dire che la menzogna c’è sempre stata, che forse sempre ci sarà e che non sarà la documentazione spinta a limitare questa tendenza. Per gli stessi motivi per cui sono convinto che non saranno leggi più severe e punitive a limitare quello che è la delinquenza e la criminalità. Ma anche qui ognuno la pensa come vuole.

Io vedo Ueli Steck, ma vedo anche il ragazzino americano (ma pure europeo) che si butta giù da pazzeschi canali di neve e misto con lo snowboard o con gli sci. Lo vedo farsi prima il selfie, cinquecento, mille amici che gli digitano un immediato “vai, vai, vai!”, “dai che sei un mito!”… e questo si butta! Potremmo dire che si “butta via”. Dove è l’esperienza personale, dove è stato confinato l’intuito, dove sarà mai la relazione con l’ambiente e con lui stesso?

E’ un fenomeno gravissimo, al di là del pericolo che il ragazzino vive, al di là dell’incidente anche mortale. Perché nessuno se ne accorge? Perché trasformare sci e alpinismo in esperienze adrenaliniche come quella del Wingsuit Base Jump, dove la documentazione è da sempre più importante del volo stesso?

Dobbiamo evitare che alpinismo e sci estremo vadano per questa strada. La tecnologia sta favorendo questo processo con molta forza. Ecco perché dico di riflettere. Cerco di dimostrare che più noi documentiamo meno viviamo, più informazioni abbiamo meno siamo cosa unica con l’ambiente. Una specie di equazione.

Franco Michieli nella traversata dell’Islanda

C’è anche chi ha provato strade diverse, vediamo un personaggio come Franco Michieli che già parecchi anni fa si è chiesto se era possibile attraversare intere aree geografiche selvagge senza alcun supporto tecnologico, neppure le cartine e la bussola. E lo ha fatto, più volte, in traversate di settimane. Questo è un esempio che siamo liberi di seguire o no.

Anche l’alpinismo ha di questi episodi. Con il free solo si è su questa strada. Pur con la disponibilità di una grande messe di informazioni e di esperienza individuale, il free solo è una rinuncia volontaria e quasi totale a qualunque genere di tecnologia e anche di materiale (neppure l’imbrago hanno!).

Certo, non tutti siamo portati al free solo e non dico affatto che debba essere una soluzione. Per evitare la strada cui conduce la tecnologia ci sono soluzioni assai meno radicali del free solo e ugualmente valide. Questo è facilmente intuibile. Andare con i compagni, andare utilizzando le normali tecniche di assicurazione, ma fare in modo che il tasso di tecnologia sia a livello di guardia, evitando le esagerazioni odierne.

Non stabilire regole, la libertà prima di tutto. Se cominciamo a dire qui questo si può fare, là no, è già finita in partenza. Meno male che la comunità alpinistica è sempre stata abbastanza restia ad accettare decaloghi e codici vari. Ma con l’aumento della tecnologia anche questa difesa naturale potrebbe essere azzerata.

Sì al favorire la verità dell’informazione, impegnarsi nell’azione, ma anche tenere basso il livello di tecnologia e non pensare che le cosiddette “prove” del fatto siano più importanti del fatto stesso.

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Alpinismo e tecnologia ultima modifica: 2017-12-04T05:34:25+01:00 da GognaBlog

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3 pensieri su “Alpinismo e tecnologia”

  1. Certo d’accordo ad un uso equilibrato e di servizio integrato a conoscenze dirette sul campo e NON SOSTITUITIVO, della tecnologia, e ciò non solo in alpinismo ma sarebbe auspicabile per tutta l’attività umana. Forse la difficoltà, è aprire gli occhi e la mente, al reale e ciò che immediatamente ci stà intorno, a chi nasce e ci è nato in un mondo tecnologico, possiamo e dobbiamo farlo noi, che invece abbiamo conosciuto la vita con meno tecnologia. E ancora più d’accordo nel non dare importanza alle prove del fatto, più che al fatto stesso,ponendosi e facendo porre invece, domande sulle motivazioni degli episodi,far riflettere confrontarli e confrontarsi

  2. Temevo di esser orami l’unico a pensarla così sui negativi condizionamenti della tecnologia… in giro vedo solo errori umani altrimenti inspiegabili se non inseriti nella sensazione (erronea) di assoluta sicurezza conseguente all’essersi “tappezzati” di ogni gadgeg tecnologico… e quando faccio notare, li vedo ridermi in faccia. E’ ormai da un po’ che sto maturando l’idea che sia necessaria una campagna per il recupero di un modo più “naturale” e più “umano” nell’affrontare la montagna, anche e sopratutto nell’approccio dell’alpinista/scialpinista medio. Più cervello e più cuore e meno patacche (tecnologiche) addosso.

  3. Riguardo alla libertà in Alpinismo, ritengo che l’assenza di regole non sia la condizione necessaria e comunque possa valere solo per persone mature e dotate di notevole saggezza; senza regole o con regole irrazionali, come si può spesso osservare, la libertà di molti è limitata o ostacolata. Molte delle strutture ed attività che sono nate con il progresso tecnologico(strade, piste, cemento, antenne, ecc.), nate e sviluppatesi senza regole o con regole asservite al potere($) hanno completamente trasformato la Montagna, i Boschi, le Rocce, che sono il terreno di gioco dell’Alpinismo.

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