L’amico Lorenzo Merlo mi segnala questo articolo perduto nelle pieghe della rete. Mi sono chiesto: ma perché mai Lorenzo mi sottopone per un’eventuale pubblicazione questo pezzo? Ebbene, la risposta è facile, basta leggerlo.
Ve lo proponiamo integralmente e aggiungiamo che gira voce che venga cancellato dalla stessa editrice. Pur plaudendo a questa tardiva iniziativa, noi riteniamo invece che il pensiero di Sartori sia talmente deviato che per tutti valga la pena essere al corrente di quanta ignoranza ci sia nel mondo al riguardo dell’alpinismo e di quanta banale cattiveria sia intrisa di stupidità. Alla fine, come di consueto, le mie considerazioni.
Alpinismo prosecuzione del colonialismo?
di Gianni Sartori
(pubblicato su ariannaeditrice.it il 27 luglio 2019)
Lettura: spessore-weight(1), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(3)
Altre volte (distratto dalle innumerevoli tragedie che avvengono quotidianamente in questa Valle di lacrime) avevo lasciato perdere. Per esempio tre-quattro anni fa all’epoca del terremoto in Nepal. Quando, mentre migliaia di persone erano ancora sepolte sotto le macerie (e volontari e soldati cercavano di estrarle a mano – letteralmente – per carenza di attrezzature adeguate), qualche imprudente (e impudente) alpinista, anche vicentino, reclamava l’intervento urgente dell’elicottero per rientrare al campo base.
Perfino Messner ne aveva sottolineato la mancanza di buon gusto di fronte alle vere urgenze.
Visto che comunque erano ben riforniti di vivande, fornelli, tende, sacchi a pelo e quant’altro, potevano attendere in quota o rientrare con mezzi propri (le gambe).
Per non parlare di alcuni “torrentisti” (si dice così?) rimasti intrappolati in qualche forra – sempre nel Nepal a causa del terremoto – che pretendevano assistenza e si giustificavano in quanto erano alla ricerca di erbe e piante rare, magari ancora sconosciute, per eventuali usi medici. Così, senza permesso. A casa mia si chiama biopirateria.
Poi quest’anno il caso di quelli (ancora vicentini, sotto copertura umanitaria) che si son visti “collassare addosso la montagna” (vado a memoria…). E, come si sa, un pakistano (“guida” o portatore?) ci ha rimesso la pelle.
L’evento è stato definito come qualcosa che “non prevedi né si può prevedere” da benevoli commentatori. Ma scusa. Li leggete i giornali qualche volta? Ormai gli eventi “imprevisti e imprevedibili” (imprevedibili una volta, al bel tempo che fu) dovuti al surriscaldamento sono pane quotidiano. Ovviamente qui – nella Padania felix soffocata da capannoni, basi militari e pedemontane – ci si deve accontentare di qualche alluvione, tromba d’aria e “bomba d’acqua”.
Nel frattempo – nonostante qualche tardiva nevicata di maggio – i residui ghiacciai e nevai alpini colano come gelati al sole (perfino in grotta, verificato), il permafrost siberiano si squaglia, scoppiano incendi nella taiga e i Poli si frantumano in iceberg grandi come la Sicilia. Il minimo che può capitare sull’Indukush è che vengano giù seracchi e ghiacciai pensili. A manetta.
Va aggiunta quella che – a mio parere – costituiva un’aggravante. Intenzione della spedizione era la “conquista” (ancora?) di una vetta da dedicare – nientemeno – che a Melvin Jones, noto come fondatore del Lions Club (il “volto umano” del capitalismo?). Forse gli Dei delle Montagne si sono incazzati di tutto questo via-vai…
Altro episodio recente, quello di un paio di esaltati che (sempre sotto copertura umanitaria, ma senza – pare – aver preventivamente versato al governo pakistano la quota assicurativa obbligatoria) si sono lanciati dalla vetta con gli sci e, dopo l’incidente, piangevano miseria, chiamavano le famiglie (come bambini caduti dalla bicicletta) e insultavano le autorità locali (la “burocrazia”) per il non immediato invio di elicottero. Quasi una sceneggiata, di fatto almeno. Quello che in un primo momento “rischiava di morire” in realtà se la sarebbe poi cavata senza gravi conseguenze.
Buon per lui, naturalmente. Ma d’altra parte: la volevi l’avventura?
Come ho detto, entrambe le spedizioni si coniugavano (o meglio: si auto-rappresentavano) con intenti caritatevoli. Nel primo caso, la sostituzione di un ponte in legno con uno in ferro; nell’altro la consegna di qualche scatola di medicinali. “Regalati”, sottolineavano pelosamente.
Qualche dubbio e perplessità sulla buona fede di questi benefattori fai da te. Non è che il nuovo ponte dalla portata di 17 tonnellate – quello preesistente, in legno, veniva irrispettosamente definito “decrepito” – servirà più che altro a far transitare i fuoristrada delle spedizioni? Sembra che porti a un nuovo rifugio costruito da e per gli alpinisti occidentali.
Magari qualcuno sta pensando di sistemarsi qui come gestore per quando va in pensione…
Tornando allo sciatore estremo caduto sul Gasherbrum VII, riporto il messaggio apparso sul web appena giunti in vetta.
“Cima! Cala è riuscito a salire l’inviolato”. Per poi passare, dopo la caduta (leggevo su Il Messaggero) dal “tripudio” a “un incubo di sofferenza, angoscia, rabbia e frustrazione”. Questo perché “nessun elicottero pakistano, nonostante le richieste, le suppliche, gli interventi della Farnesina e gli appelli dei familiari dall’Italia (sempre da Il Messaggero, NdA) è andato su a recuperarlo”.
Sia per comprensibili ragioni di sicurezza (la quota era piuttosto
alta), sia perché contemporaneamente c’erano almeno 8 (otto! Ma ‘sta
gente non ha altro da fare?) interventi di salvataggio su altre pareti.
Io mi sarei vergognato, sinceramente. Magari un po’ più di dignità non
guastava.
E che dire di quelle
quattro scatole di medicinali (“regalati” hanno sottolineato)
vergognosamente esibite prima di lanciarsi con gli sci giù dalla vetta
dell’Himalaya (fino al giorno prima inviolata, non de-sacralizzata:
magari gli Dei permalosi si saranno incazzati anche qui…)?
Un’ostentazione
che nemmeno i missionari del secolo scorso; sicuramente paternalisti e
veicolo di omologazione, ma comunque con più stile.
L’impressione
è che l’alpinismo occidentale stia emettendo – magari inconsapevolmente
– qualche tardivo rigurgito di nostalgia coloniale, anche se fuori
tempo massimo.
Coincidenza (o forse
no). Negli stessi giorni (luglio 2019) arrivava l’ennesima notizia di un
episodio comunque definibile di “malasanità”. Frutto – presumibilmente –
delle politiche di tagli e di privatizzazione dei servizi sanitari. A
Marina di Carrara un anziano malato oncologico, in ospedale per
un’ecografia, ha potuto rientrare a casa soltanto dopo sette ore. Sei
delle quali trascorse in un corridoio del pronto soccorso, esposto
all’aria condizionata e senza che i parenti potessero entrare per
assisterlo. In attesa di un’autoambulanza disponibile. Come conseguenza,
per ora, vomito e tosse insistente.
Inevitabile
chiedersi quante richieste per interventi d’urgenza ci saranno state
nella stessa giornata da parte di alpinisti-escursionisti-speleologi
(ricordate quella che l’anno scorso, dopo essere stata recuperata in
grotta e portata all’ospedale, cinguettava di essersi “fatta anche un
giro in elicottero”?).
Più o meno
scanzonati o incoscienti. Quelli – per capirci – che chiamano il
Soccorso alpino anche per una storta. Forse sarebbe il caso di stabilire
qualche priorità. Sia qui da noi che sulle montagne himalayane.
E in qualche caso (a scopo educativo) si potrebbe anche lasciarli lì…
Considerazioni
Vediamo dunque punto per punto.
– Anzitutto gli alpinisti (anche un vicentino…) che hanno chiamato l’elicottero mentre era in pieno svolgimento la catastrofe del terremoto del Nepal: questo non è giornalismo. Dare notizie così, “vado a memoria” (non poi così lucida, viene da dire), di fatti che non si sono accertati e dei quali non si sa assolutamente nulla, non è professionale e suggerisce solo il disprezzo che si ha per i lettori. Cosa ne sa Sartori delle motivazioni reali che hanno spinto gli interessati a chiamare l’elicottero? E se ne sa, perché si è limitato all’invettiva?
– Cosa ne sa Sartori se i torrentisti sorpresi dallo stesso terremoto avevano o no i permessi per la raccolta di erbe e piante rare? Come si può accusarli di biopirateria senza neppure citarne i nomi, buttando fango a casaccio?
– Reinhold Messner viene messo in ballo, nel giudizio sulle chiamate di soccorso post-terremoto, in quanto “persino lui” aveva condannato la mancanza di “buon gusto” di quelle richieste. L’aver scritto “persino” (poteva scrivere “anche”) ci induce a capire che Messner sia per Sartori un grande esempio di “cattivo gusto” (così, tanto per sparacchiare un po’ anche su di lui).
– Sartori se la prende con altri alpinisti vicentini (riteniamo sia il gruppo di Tarcisio Bellò colpito in giugno dalla caduta di un seracco e dalla morte della guida pakistana Imtiyaz Ahmmad) che secondo lui dovevano sapere che “con questo riscaldamento globale i seracchi in Hindukush crollano a manetta” e dunque per lui non sono autorizzati a parlare di “qualcosa che non si può prevedere”. Sartori fa un excursus (divertente, devo dire) sui guai climatici di cui soffriamo anche qui da noi, ma solo per dimostrare a suo modo quanto sprovveduto e irresponsabile sia stato il gruppo Bellò. E’ evidente che Sartori sta scaldando i motori in queste schermaglie che non sono il suo vero obiettivo, ma già la dicono lunga sullo spirito che ne guida il “pensiero”. Si fa strada l’impressione spiacevole ch’egli goda in modo particolare a condannare deridendo, senza alcun appello. L’intima soddisfazione che prova nel fustigare pretese stupidità gli impedisce di essere divertente, l’egoica sicurezza con cui si esprime lo appesantisce. Insomma, non è capace neppure di fare satira.
– Che il suo abbia l’ambizione però d’essere un “pensiero” lo si evince dalla sarcastica battuta secondo la quale il Peak 5853 m non poteva essere dedicato a Melvin Jones (noto fondatore del Lions Club), un capitalista doc, sia pure “dal volto umano”. Qui ci avviciniamo infatti al tema del titolo, il colonialismo (evidentemente per Sartori figlio del capitalismo).
– Sartori passa poi ai due “esaltati” (senza però citarne i nomi, chissà perché, visto che qui non può dire di “andare a memoria”). Carlo Alberto Cala Cimenti e Francesco Cassardo, la cui avventura ha fatto rumore nella seconda metà di luglio scorso, sono visti da Sartori come pusillanimi, istrioni, bugiardi. Senza nulla riferire della loro preparazione, senza sapere cosa è il Gasherbrum VII 6955 m o cosa voglia dire scendere con gli sci a quelle quote, Sartori insiste sulla loro arrogante irresponsabilità, visto che “pare” fossero privi della necessaria copertura assicurativa (che invece è ben provata da questo documento che ci siamo procurati). Visto che Cassardo è sopravvissuto senza grossi danni, a sentire il nostro Sartori l’incidente non è stato poi nulla di grave (cosa volete che sia precipitare per quasi 500 metri a quella quota e bivaccare seminudo e ferito sul ghiacciaio? Chi è che ha il “cattivo gusto” di piagnucolare almeno un po’? Come si osa “pretendere” il recupero con l’elicottero? Come si osa spazientirsi?). L’infortunato se l’è cavata. “Buon per lui”, consente Sartori, ma chiunque è in grado di leggere tra le righe: solo la morte o l’invalidità permanente avrebbero potuto riscattarne la stupidità.
– Sartori è particolarmente insistente nel denunciare gli “intenti caritatevoli” di entrambe le spedizioni, criticando perfino il fatto che la consegna “di qualche scatola di medicinali” fosse citata come “regalo” nei comunicati stampa. Insinua che non ci fosse buona fede e che quelle iniziative fossero coperture per il reale scopo, cioè la banale esibizione delle proprie capacità di impegnarsi nelle avventure da baraccone. Sostiene che la costruzione del nuovo ponte (obiettivo umanitario della spedizione Bellò) servirà soprattutto al passaggio dei fuoristrada delle spedizioni: ma forse Sartori è ipnotizzato dalle vecchie passerelle di legno che per lui dovrebbero rimanere tali in tutto il mondo.
– Per lui la dignità è non chiedere soccorso, anzi si meraviglia che nella zona ci fossero, a suo dire, altre otto operazioni di salvataggio per altrettanti alpinisti pusillanimi. Sartori fa l’equazione “soccorso riuscito=codardia garantita”, con tutto il contorno di derisione gravida di pesantezza, quell’ostilità di fondo che rende la lettura dell’articolo un’operazione assai penosa, nauseante.
– Confonde poi il Karakorum con l’Himalaya, e parla di de-sacralizzazione della montagna: in tutte queste parole a vanvera, fa capolino il concetto che “perfino i missionari del secolo scorso, paternalisti e omologanti, avrebbero avuto più stile degli odierni alpinisti, responsabili “magari inconsapevolmente” di “tardivi rigurgiti di nostalgia coloniale, anche se fuori tempo massimo”.
– Le ultime note raffigurano un insolito paragone: un anziano paziente oncologico alle prese con le gravi inefficienze del pronto soccorso di Carrara è posto sullo stesso piano di chiunque, alpinista, escursionista, speleologo, chieda e ottenga immediato soccorso. E qui davvero l’alzo zero di Sartori non riesce più a reggere se stesso e si ritrova bersaglio delle proprie bordate e del proprio delirio: gli infortunati o i pericolanti “in qualche caso (a scopo educativo) si potrebbe anche lasciarli lì…”.
Per me l’unico vago accenno di realtà in questo articolo è nel titolo, il suggerimento che l’alpinismo possa essere paragonato, in qualche modo e con i dovuti distinguo, a una forma più evoluta di colonialismo. Ma di questo avremo modo di parlare tra qualche tempo.
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Non condivido alcune cose dell’articolo di Sartori, ma, in generale, non trovo niente di scandaloso in quella che mi sembra una critica sensata.
In linea con Claudia Chee.
Tempo fa, al rientro da un viaggio in macchina in Afghanistan, scrissi queste righe in risposta all’esaltazioni di certi giornalisti e non sul valore del viaggiare.
C’è una posizione che potremmo connotare affine all’ecologia profonda che rifletto sul diritto al turismo, in particolare quello gratuito.
Viaggiare ripensato
Sono contro i viaggi come valore opulento e inquinante. Se noi andiamo là con spirito di scoperta, cioè con un motivo ed un´esigenza del tutto, per noi, sostenibile, così fanno le politiche estere, gli eserciti, le multinazionali, gli imperialismi e i colonialismi.
Perché esordire così per parlare di Da qui a là – Viaggio verso l´Afghanistan [era il nome del viaggio. ndr]? Perché è proprio in queste occasioni, quelle quando la nostra attenzione è già vogliosa ed opportunamente orientata che si rischia di creare comunicazione. Per dire che, chi si appresta alla lettura di queste poche righe, ansioso e in cerca di qualche soddisfazione intellettuale ed emozionale, perché sa che si parlerà di terre, di culture, di uomini, di Asia, di Afghanistan, è proprio la persona che meglio può prendere in considerazione un aggiornamento dei valori. È proprio lei che può avviare la ricerca per rispondere ad una “nuova” domanda sulla bontà o meglio innocuità del viaggiare. Ora.
Viaggiare, diritto, turismo, economia, in tempo di decrescita non sono più valori assoluti. sono valori da mettere in discussione. E quando lo facciamo, possiamo anche cogliere che così facendo il miglioramento dello status quo non lo possiamo più delegare ai politici. Dobbiamo farlo noi… un viaggio in meno… una sensibilizzazione in più.
Da qui a là – Viaggio verso l´Afghanistan aveva tra i suoi scopi anche quello di un´esportazione di un Afghanistan che raramente e solo a piccole dosi arriva davanti ai nostri divani, ai ripiani delle nostre librerie, a occupare spazio nei nostri discorsi, pensieri e immagini.
L´Afghanistan senza conflitto è “Arido, rupestre, desolante. Ancestrale, feudale, scenografico. Generoso, ospitale, accessibile. Monocromatico, variopinto, fotografico.” Così scrivevo nell´introduzione de Afghanistan – Fede Cuore Ragione nel tentativo, qui riproposto, di comunicare un Paese dove la frugalità e la forza che essa implica, si mostrano in modo inversamente proporzionale alle condizioni di relativa agiatezza di cui godono – irrinunciabilmente – gli occidentali. Dove subito si comprende quanto una geografia di montagne per l´80 per cento del territorio – giocoforza – obblighi le comunità a esistenze in grande misura isolate, un ottimo primo passo per scoprire un importante perché a proposito della loro storica mancanza di uno stato centrale, un ottimo primo passo per riconoscere che la biografia di quella cultura non è meno importante della nostra. E mancarle di rispetto allora, cercare, con trilioni di dollari, di “fargli capire come davvero devono stare le cose”. E lo è considerare l’Afghanistan e qualunque altro Paese come oggetto del diritto al consumo di turismo che – anche se non ci abbiamo mai riflettuto – crediamo di avere.
Dallo Zingarelli:
«Neocolonialismo: politica di predominio e intervento negli affari interni delle ex colonie e dei Paesi sottosviluppati in genere, da parte di antiche potenze coloniali e di altre grandi potenze, spec. tramite il controllo dell’economia».
Perché no? Al mare o in montagna, in pianura come in collina, l’uomo bianco europeo è quello che è ed è sempre stato. Curioso-esploratore colonizzatore. Ogni civiltà ha la propria indole. Quella europea non si scopre certo oggi. Noi questo siamo. Negarlo sarebbe ridicolo. Lati positivi e lati negativi. Vale per tutte le culture e civiltà. L’alpinismo, in primis, non poteva sfuggire a questa nostra natura poetica e rapace.
da facebook
Letto. Molto polemico. Ma, permettimi caro Alessandro, non lo liquiderei in toto. L’ attuale attacco alle grandi cime oggi é anche e forse soprattutto, una questione di soldi. Sicurezza compresa. Quindi come giustamente fai notare, il tema del neocolonialismo é interessante e merita di essere sviluppato.
Da Instagram
Gogna divide in frammenti il pezzo di Sartori e cerca di smontarlo analizzando le singole frasi perdendo così totalmente di vista il senso del discorso che è quanto mai condivisibile, anche nel riferimento a recenti spedizioni italiane. Una “avventura” come quella di Cala Cimenti sul Nanga Parbat con GoPro, navigatori Garmin, social-media in tempo reale e tutto il resto rischia di ridicolizzare l’alpinismo. Filippini, sulla Gazzetta, parlando dell’ultima impresa di Urubko sottolinea giustamente la scelta del silenzio evidenziando quanto sia distante (per fortuna) dai vari Cimenti e soci. Parlare di colonialismo potrá forse sembrare una forzatura ma l’immagine è assai efficace.
Cara Claudia Chee, hai perfettamente ragione, si rimane insoddisfatti per il tema non svolto. L’ho fatto apposta, in quanto il tema era già presente nell’articolo orginale di Sartori (come puoi vedere tramite il link sotto il titolo, se lo hanno ancora tenuto on line…). Nelle “considerazioni” è come se avessi fatto una promessa, prima o poi ne parleremo.
pessimo svolgimento del tema “viaggiamo colonialisticamente?” ma lasciamo perdere.
però ha senso porsi questa domanda. quanto meno, mi interesserebbe leggere opinioni su come viaggiamo noi che possiamo partire da UE o USA quando andiamo “fuori”. “Fuori” a fare imprese di ogni tipo: alpinistiche, certo. ma anche andare in catamarano in un arcipelago del Pacifico a vedere cetacei, o scegliere un trekking a piedi in un parco nazionale africano invece di andarci in jeep. avvicinarsi in battello al Perito Moreno. non fare nulla di tutto questo e piantarsi in un resort.
e cosa ne torna alle popolazioni locali.
il titolo dell’articolo mi aveva attivato altre (più alte) aspettative: un’analisi più lucida, focalizzata esclusivamente all’alpinismo ma applicabile ad altri ambiti del viaggiare.
ho appena finito “senza mai arrivare in cima”, per esempio. e per lavoro conosco un tizio ungherese che tesse le lodi di Orban, ed ora è in vacanza in Kenya. cosa c’entra? forse nulla, o forse invece c’è modo e modo di vivere le esperienze (qualcuno già ne accennava nei propri commenti).
ecco. questa era la materia di cui mi sarebbe piaciuto leggere sotto un titolo come quello.
buona giornata
Certo il tono satirico polemico di Sartori è a tratti eccessivo, ma in più di un punto occorre dargli ragione. Fa male, brucia, ma è così. Non entro in particolari, ma rileggendolo ci sono passaggi dive Sartori esprime con acume ciò che il 90% del mondo pensa
Paolo, poco preciso anche perché tutto si può dire ma non che la storia non stata seguita dai media e quindi nota. Le precisazioni erano sui fatti palesemente distorti e falsi. Comunque lo stesso Cala mi ha precisato con un msg, che la notte dopo l’incidente la hanno passata bivaccando a 6300 senza tenda…il giorno dopo dal basso sono saliti Urubko Bowie e i polacchi, insieme hanno trasportato Francesco al campo base con barella di fortuna, xchè non sarebbe sopravvissuto ad un’altra notte fuori. Arrivati al campo base è arrivato l”elicottero.
Enzo, non sei molto preciso: trasportato al CB ?, i polacchi sono andati avanti…
Ma ok, nel tuo discorso ci sta.
1) un paio di alpinisti esaltati sotto copertura umanitaria…faccio fatica a restare calmo, conoscendo personalmente i due ragazzi e avendo condiviso con Cala non solo esperienze alpinistiche, ma anche di lavoro e di vita. Nessuna copertura umanitaria, lo scopo della spedizione era chiaro e dichiarato: Cala ha salito e sceso con gli sci il Nanga Parbat con i russi Anton Pugovkin, e Vitaly Lazo, senza ossigeno e senza sherpa, autofinanziandosi per larga parte la spedizione, come fa da più di dieci anni. Francesco lo ha raggiunto successivamente per salire e scendere il GVII con lui, anche qui in completa autonomia e senza ossigeno Nel tragitto verso il campo base Francesco che è medico e Cala sono passati all’ospedale locale di Askole,cercando di rendere operativo l’ecografo portato in regalo lo scorso anno dall’alpinista polacco Adam Bielecki. “Oltre alla consegna dei farmaci – ci racconta Cala – Francesco è riuscito a fare un’ecografia a una donna spiegando meglio il funzionamento della macchina ai medici presenti”.Prima che il centro venisse aperto nella valle, durante gli inverni, morivano dai sessanta ai settanta bambini a causa di polmonite, diarrea e altre malattie ..“Questo ambulatorio è molto importante in quest’area del Pakistan” spiega ancora Cala. “Per questo ho intenzione di finanziare progetti che possano aiutare davvero questa gente, la giornata di oggi è solo un inizio”. (fonte montagna .tv) .Questo è quanto, poi ognuno giudichi nel merito.
2)richieste e suppliche di soccorso??!! forse sfugge che Francesco è stato portato al campo base del GVII dallo stesso Cala raggiunto via terra da Urubko, Bowie e due alpinisti polacchi dopo una notte in tenda a oltre 6000 metri. Certo hanno chiamato l’elicottero,…con un po di preoccupazione ed insistenza? Forse, ma intanto se la sono cavata da soli e grazie alla solidarietà, di antica memoria alpinistica, di Urubko, Bowie e due alpinisti polacchi.
3)Quello che in un primo momento “rischiava di morire” in realtà se la sarebbe poi cavata senza gravi conseguenze. ..ma cosa ne sai?? e qui mi fermo per rispetto della privacy di Francesco.
Non vado oltre, perchè comunque Gogna ha espresso le sue considerazioni che condivido, dico solo che le opinioni e le critiche hanno un loro valore se non sono falsate da pregiudizi o distorsione dei fatti. Per sollevare un problema come quello del titolo, di argomenti seri e circostanziati se ne trovano molti, senza dover costruire falsità e imprecisioni.
Guardate che, alpinisti che pur di organizzarsi la spedizioncella esotica, sono pronti a mostrarsi pieni di (falsi) nobili principi, c’è pieno! Non ce l’ho con nessuno in particolare ma mi domando come certi personaggi non si vergognino.
Io Sartori manco so chi è e neppure approfondirò, ma ha messo il dito in certe piaghe che bruciano a tanti e questo mi è piaciuto.
Se poi l’alpinismo è prosecuzione del colonialismo non cambia di certo il mio modo di andare in montagna. Ho sempre cercato di rispettare tutti quelli che incontravo ma non ho mai mascherato da opera di beneficenza il fatto che mi piacesse scalare una montagna o portarci qualcuno come guida e farmi quindi pagare!
Mi è anche parso di notare che questo Sartori (che sia iscritto all’ordine e che abbia fatto esami ecc ecc non mi importa perché è uno apparentemente libero che esprime opinioni, ecceccazzo ci vogliono i titoli anche per respirare…) ce l’ha con certi veneti arraffoni e penso che ne abbia ben da dire perché ne saprà.
Ricordo quelli che tramite i salesiani schiavizzavano i poveri Quechua peruviani per farsi le vacanze a scrocco spacciando il tutto come opera pia. Ma fatemi il piacere!
Mi sembra che tutto il giornalismo italiano sia SERVO di qualcuno o di qualcosa…. all’opposto mi vengono in mente Montanelli, o la “vituparata” Fallaci (ora però è santificata), o lo “stravagante tedesco” Terzani.
Per l’alpinismo vedo che l’informazione elogia in maniera eccezionale gli alpinisti non per quello che sanno fare, ma a seconda di chi li appoggia e fa lodi sperticate anche a chi fallisce, o non riesce minimamente a realizzare ciò che si proponeva di fare, o arriva fra gli ultimi: tutti dei grandi che fanno exploit.
Basta vedere le sequenze di pubblicazione, o come sono le priorità giornaliere.
Magari siamo diventati quasi tutti dei provincialotti, che si chiudono nel loro paesello, con varie scuse (anche questa qui), e non sappiamo confrontarci con tutti gli altri e li denigriamo con falsità appena possibile.
Ma così la massa incapace si sente orgogliosa se sale qualche normale (per inciso: ovviamente nessun piolèt, ma tante nomine di tutti i generi fatte da noi, non dagli altri)
Per dirne 2 raccontate dai media con pesi e misure ridicolmente diverse:
-gli 11 ottomila in tanti anni con incidenti e rinunce del buon sciatore valtellinese e gli 11 ottomila in tre mesi del gurka senza colpo ferire e salendo velocissimo dove tutti avevano rinunciato (tracciando e mettendo corde)
-in San Lucano la bella via lavorata 2018-2019 in prima pala (pubblicata), la lunga, dura e travagliata via in terza pala dei fortissimi belgi in 2 giorni (pubblicata), la gialla difficile e dura via in seconda pala dei due giovani in 2 giorni con portaledge e 15 chiodi (non pubblicata e salita per prima, ma sconosciuta)
0k , la verità sta semrl mezzo ma se anche l’articolo di Sartori finisse nel dimenticatoio, tutto sommato non ne sarei così preoccupata. Chi sa leggere e usa la propria testa non avrai mai problemi ! Buona giornata !
Ammetto l’ignoranza di non conoscere Sartori, autore di questo scritto, né -perdonatemi- la filosofia della casa editrice che lo accoglie, ma sento di dover dire una sola cosa. La libertà di opinione e parola è cosa sacrosanta, la libertà di distorcere, insinuare, giudicare superficialmente, denigrare e malaugurare no. Non lo è per una persona comune né per un giornalista. Se questo autore è iscritto all’Ordine dei giornalisti, mi chiedo se abbia sostenuto l’esame professionale e abbia studiato le prescrizioni deontologiche. Se non lo è, mi chiedo a quale titolo le sue osservazioni ottengano visibilità da parte di un editore. Cui prodest? A chi giova tutto questo? Solo al cattivo gusto di una società che cerca sempre e comunque lo scontro e la visibilità, soffocata dall’eccesso di parole inutili. E che non riesce più a risollevarsi nella direzione della bellezza morale, della verità e della comprensione dei fatti. Il consiglio che do a voi e a me stessa è questo: non fermatevi alla superficie. Buttate via l’inutile, come questo imbarazzante e incredibile scritto. Scremate. Davanti a questo eccesso, siate razionali, empirici, scientifici. Andate sempre al cuore delle cose. E darete gusto peso a tutto.
Complimenti ad Alessandro Gogna per la lucida lettura data su GognaBlog.
Rileggendo il mio commento, vorrei chiarire che il mio biasimo non si riferisce alle considerazioni, ma al contenuto dell’articolo. Chiedo scusa per l’ambiguità.
Io a Gianni Sartori risponderi con queste parole “Non dobbiamo smettere di esplorare perchè alla fine delle nostre esplorazioni arriveremo laddove siamo partiti e vedremo il luogo in cui viviamo come se fosse la prima volta”(T.S. Eliot)
…se non è completamente rimbecillito sa dove trovarle…
Insomma, io, anima ingenua, da anni partecipo beato e innocente a questo blog e solo ora scopro che siete tutti un’accozzaglia di sporchi colonialisti? Magari anche fascisti? Vergognatevi tutti!
A cominciare dal Capo, che, in quanto capo, è già di per sé un bieco fascista autoritario. 😂😂😂
Vorrei capire perché l’enunciazione del proprio punto di vista (discutibile) sulla natura dell’alpinismo extra-europeo debba immediatamente trascendere nell’insulto gratuito. Perché si debbano definire interventi comunque utili, come portare dei farmaci a chi non ha la possibilità di accedervi, come atti di carità pelosa. Si può non essere d’accordo, ed esprimerlo con toni civili. Ma, d’altra parte, ormai qualunque discussione, specialmente sui social, sfocia in litigio…
Questo articolo dimostra il livello di faziosità e falsità di molti degli articoli che compaiono sul sito ariannaeditrice.it.
Sarebbe bello discutere sul tema Alpinismo-colonialismo su basi più solide.
Su una cosa ha perfettamente ragione Sartori: che bisogno c’è di sbandierare intenti caritatevoli per giustificare queste spedizioni?
Lo trovo certamente di cattivo gusto!
PS (per Alessandro Gogna): la tua guida della Mesolcina e Valle Spluga per me è come la Bibbia. Un abbraccio da Chiavenna.
Perché no? Al mare o in montagna, in pianura come in collina, l’uomo bianco europeo è quello che è ed è sempre stato. Curioso-esploratore colonizzatore. Ogni civiltà ha la propria indole. Quella europea non si scopre certo oggi. Noi questo siamo. Negarlo sarebbe ridicolo. Lati positivi e lati negativi. Vale per tutte le culture e civiltà. L’alpinismo, in primis, non poteva sfuggire a questa nostra natura poetica e rapace.
Mi trovo del tutto d’accordo con Alessandro. L’articolo è sicuramente ben scritto, ma altrettanto sicuramente fazioso e “falsificante”.
Però il tema espresso nel titolo è reale e intrigante: di sicuro l’alpinismo è figlio e prosecutore del colonialismo o quantomeno della società e del momento storico che produssero il colonialismo e il colonialismo ne ha permeato la mentalità.
Credo che in effetti molto rimanga di mentalità colonialile nell’alpinismo, sia di punta che da “merenderos” come il mio, e sarebbe sicuramente un argomento molto interessante da sviscerare.
@Marcello Cominetti: il fatto che i Lion’s siano stati fondati da servi di una società capitalista, non significa automaticamente che sia un club di rivoluzionari, anzi.
Un membro del Rotary mi ha raccontato anni fa che il Lions Club è stato fondato dagli autisti dei membri del Rotary, appunto, mentre si annoiavano aspettando i loro datori di lavoro. Questa, allora?
Secondo me, l’eventuale “verità” sta a metà, tra il tono dell’articolo (che sinceramente non ho trovato così male) e il commento pre e post articolo.
Ciao