Pubblichiamo le relazioni curate da Riccarda de Eccher – che ringraziamo – relative al convegno “Alpiniste, genitorialità e rischio”, tenuto il 2 maggio 2023 nell’ambito del Trento Film Festival e promosso da “Laboratorio Donne” in collaborazione con il Centro Studi Interdisciplinari di Genere, Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento.
Alpiniste, genitorialità e rischio
a cura di Riccarda de Eccher
(già pubblicato su Le Alpi Venete, autunno-inverno 2023-2024)
Doppio standard: il genere, lo sport, il corpo, il rischio
di Alessia Tuselli, sociologa
Per parlare dell’intreccio fra alpiniste, genitorialità e rischio è necessario fare una premessa, ampliare la prospettiva. Dobbiamo fare un passo indietro e osservare quel grande spazio che è lo sport e che spesso tiene insieme movimento, pratiche, stili di vita. Senza voler forzatamente includere l’alpinismo all’interno della cornice sportiva, dobbiamo considerare che le attività che riguardano la montagna hanno dei tratti comuni con altre pratiche di movimento. Prima di tutto, il corpo, che è soggetto, oggetto e strumento nello spazio sportivo; dal corpo partono e al corpo ritornano altri elementi fondanti: competizione, fatica, agonismo, impresa, rischio.
Fanny Bullock-Workman, moglie e madre dì una figlia, esibisce il manifesto “Votes for Women” al Silver-Throne Plateau, in Karakorum(1911)
Queste sono solo alcune caratteristiche delle pratiche sportive. Sono fondamenti, su cui lo sport nasce e si costruisce. Fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, infatti, gli spazi di movimento si strutturano con dei significati precisi: da un lato come simbolo della società industriale; dall’altro un mezzo per educare corpi efficienti, controllati, adeguati al proprio ruolo sociale. Questo processo emerge ancor più chiaramente se lo guardiamo attraverso una lente precisa, quella del genere.
Il genere è un concetto che nasce e si sviluppa all’interno del dibattito delle scienze sociali a partire dagli anni Settanta del Novecento per rendere visibili le disuguaglianze presenti nella società tra donne e uomini, ponendosi l’obiettivo di superarle. Adottare questa prospettiva vuli dire mettere in luce certi squilibri, sottolineando come non siano riconducibili a fattori “naturali” ma siano frutto di processi socioculturali precisi. Collettivamente tendiamo ad avere aspettative precise su uomini e donne, associamo attitudini e capacità speculari alla maschilità e alla femminilità (per esempio: donne emotive / uomini razionali): si costruiscono, così, stereotipi (di genere) che contribuiscono a mantenere trattamenti diseguali e asimmetrie di potere nei vari ambiti del quotidiano. Lo sport non fa eccezione. Osservandolo da una prospettiva di genere, infatti, lo sport contemporaneo nasce come spazio per la costruzione di una certa maschilità, con determinate caratteristiche (forza, sacrificio, disciplina, agonismo). Le donne non vengono reputate idonee alla fatica e all’agonismo: ancorate alla maternità, sono tenute ai margini di diversi ambiti (lavoro, politica), tra cui lo sport. La biologia è stata la principale ragione che ha escluso le donne dall’universo sportivo. Quando le atlete fanno il loro ingresso nelle competizioni agonistiche, all’inizio del 1900, rappresentano dunque una sfida. Una delle risposte è la divisione in due categorie, quella maschile e quella femminile, in nome della giustizia competitiva. Le donne prendono parte alle competizioni in discipline definite idonee al loro corpo, dove il contatto fisico è assente e dove vengono richiamate caratteristiche “femminili”, come eleganza e grazia.
La tessera della Sezione di Torino del Club Alpino Italiano appartenuta a Carolina Palazzi-Lavaggi (1887)
La questione non può dirsi ancora risolta: questo modo di costruire le identità sportive continua a riflettersi in numeri e pratiche. Secondo l’ultimo studio del Comitato Olimpico Nazionale Italiano (CONI) sulla pratica sportiva in Italia, nel 2020 i tre sport maggiormente praticati dalle ragazze/donne sono: pallavolo, ginnastica ed equitazione; quelli praticati dai ragazzi/uomini sono: calcio, basket, tennis. Una divisione che è rimasta piuttosto costante nel tempo, il discrimine rimane il contatto fisico.
Beatrice Tomasson posa in abbigliamento da alpinista (foto studio, Innsbruck, 1883)
Certe rigide concezioni sul corpo e sulle identità sportive non si riflettono solo sull’accesso alle attività di movimento, le asimmetrie rispetto al genere sono infatti diverse anche se poco dibattute: il professionismo, la presenza nei ruoli di leadership, la retribuzione economica, la rappresentazione mediatica, la dimensione della genitorialità. Ci concentreremo proprio su questo ultimo aspetto per tornare al punto da cui ha preso avvio il nostro discorso: la genitorialità, il rischio, le alpiniste. Va considerato, infatti, che parlare di paternità e maternità nello sport vuoi dire parlare di cose differenti: nello sport agonistico, ad esempio, le atlete possono imbattersi nelle clausole anti-gravidanza che determinano la fine del contratto in caso di maternità. Una pratica per molti anni consolidata, nonostante le denunce e le testimonianze di diverse atlete. Solo nel 2007 è stato posto in essere il principio di tutela sportiva delle atlete in maternità che garantisce alle atlete in gravidanza o neo-madri il diritto al mantenimento del tesseramento, la salvaguardia del merito sportivo acquisito e la conservazione del punteggio maturato nelle classifiche. I trattamenti discriminatori verso le atlete in gravidanza però non sono finiti, come testimoniano le storie di Adriana Moisés Pinto (basket), Carli Lloyd (volley), Lara Lugli (volley), Nikoleta Stefanova (tennistavolo), per fare solo alcuni esempi.
Elizabeth Main con la sua guida Joseph Imboden a Zermatt, nel settembre 1896
Il tema è entrato solo recentemente nell’agenda politica italiana: tramite la Legge di Bilancio del 2018, infatti, è stato previsto un sostegno per le atlete in maternità. I criteri da rispettare per accedere al fondo sono cinque: svolgimento in forma esclusiva o prevalente di un’attività sportiva agonistica riconosciuta dal CONI; assenza di redditi derivanti da altre attività per importi superiori ai 10.000 euro lordi annui; mancata appartenenza a gruppi militari; mancato svolgimento di un’attività lavorativa che garantisca una forma di tutela della maternità; possesso della cittadinanza italiana o di un Paese dell’Unione Europea. In più le atlete devono aver gareggiato ad alti livelli internazionali e nazionali. Non è facile riuscire a rispettare contemporaneamente tutti questi criteri, questo rende difficile accedere al fondo. Un provvedimento di questo tipo arriva solamente nel 2018, a testimonianza dell’invisibilità delle problematiche connesse al binomio atlete/maternità in Italia. In uno spazio come quello di movimento, dove il corpo è centrale, la maternità è ancora considerata ostacolo, vincolo, impedimento per le atlete, le sportive, le praticanti. Non esiste un discorso simmetrico per gli atleti e la paternità, e aggiungiamo per fortuna. C’è quindi un doppio standard applicato alla genitorialità nei contesti di movimento? Sono diversi i criteri di valutazione, considerazione, i significati applicati a paternità e maternità in questo specifico contesto? E in quello dell’alpinismo? Questa ultima domanda diventa centrale per il dibattito che si vuole avviare in queste pagine. Una domanda a cui se ne collegano altre: quale rapporto c’è fra madri, montagna e rischio? È cambiato nel tempo? Quanto costruzioni sociali, stereotipi di genere, incidono sulla visione collettiva, sulla social evaluatìon delle alpiniste, il loro rapporto con la genitorialità e il rischio che decidono o meno di abbracciare?
L’obiettivo non sarà dare delle risposte, ma aprire un dibattito, dando voce alle protagoniste di ieri e di oggi, in un esercizio di autodeterminazione e autorappresentazione.
Cervinia. Casuale ma significativo il cartello “SOS” alle spalle di Bianca Di Beaco e Silvia Metzeltin: allarme sociale per un possibile accordo tra due donne autonome?
Madri o non madri? I figli invisibili delle prime alpiniste
di Linda Cottino e Ingrid Runggaldier, storiche dell’alpinismo
Il tema della genitorialità è un capitolo della storia dell’alpinismo femminile ancora ben poco studiato. In particolare, il periodo delle pioniere, attive dagli anni ’60 dell’Ottocento fino ai primi del Novecento, fu assai ricco di imprese di alto livello, ma è purtroppo ancora coperto da una nube di non-conoscenza, e rimanendo l’azione alpinistica delle donne per lo più nell’ombra, è comprensibile che ancor meno si abbiano notizie di eventuali figli. Sembra che averli o non averli non influenzasse molto le donne nella loro azione in montagna. Certo, le prime alpiniste, pare, non ne avessero avuti. Basti pensare a Henriette d’Angeville, soprannominata la “fidanzata del Monte Bianco”, che nel 1838, a quarant’anni e nubile, lo scalò come seconda donna.
Anna Torretta, guida alpina a Courmayeur dal 2005. Archivio: Anna Torretta.
L’alpinismo poteva comunque essere favorito dal contesto famigliare. Infatti, se padri, fratelli o mariti vanno in montagna, è assai probabile che i figli, e talvolta anche le figlie, vi si appassionino. E benché il protagonista assoluto sia sempre l’uomo, le donne comprimarie sono incoraggiate a svolgere l’attività praticata dai maschi di famiglia. Un esempio per tutti Lucy Walker, figlia di Frank, uno dei fondatori dell’Alpine Club di Londra, e sorella di Horace, nonché prima donna a salire il Cervino appena sei anni dopo la conquista di Whymper e Carrel. In altri casi, invece, fu proprio la mancanza di legami famigliari a lasciare alle donne la libertà di seguire le proprie inclinazioni; si pensi ad Amelia Edwards e a Beatrice Tomasson, prima assoluta sulla Sud della Marmolada, per le quali fu proprio la non presenza, ovvero la lontananza dei genitori da un lato e l’assenza di figli dall’altro, a permettere loro di seguire la passione per la montagna. Della scarsa influenza che l’esistenza dei figli esercitava sulle scelte delle prime alpiniste abbiamo ulteriori esempi.
Tre generazioni di alpiniste si confrontano: Loulou Boulaz, Silvia Metzeltin e Nicole Niquille, la prima donna a divenire guida alpina in Svizzera
Alessandra Boarelli, che nel 1864 salì il Monviso, era già madre di due figlie, che per l’intera durata della “spedizione”, otto giorni, vennero affidate in tutta naturalezza a un’amica. Un’altra fortissima, che svolse attività alpinistica di punta negli anni ’80-’90 del XIX secolo, fu Elizabeth Main ovvero Burnaby ovvero Aubrey Le Blond – dai tanti cognomi si evince l’esistenza di altrettanti mariti – ma di figli ne ebbe uno solo, tale Arthur, che non viene quasi mai menzionato. Prima ancora ci fu Jane Freshfield, scrittrice e alpinista, anche lei madre di un unico figlio che avviò alla montagna e divenne il noto Douglas William Freshfield. Non dimentichiamo poi Isabella Charlet Straton, autrice della prima invernale al Monte Bianco, che sulla cima più alta d’Europa portò i propri figli poco più che bambini.
La prima domanda che emerge in questo contesto è come mai nei resoconti e nei frammenti di storia dell’alpinismo che riguardano le pioniere non si fa cenno alla maternità. Una risposta potrebbe essere inquadrata nel rapporto tra genitori e figli: all’epoca adulti e bambini abitavano mondi separati, che poco o nulla comunicavano tra loro; in particolare, le classi agiate che praticavano l’alpinismo usavano mandare i propri figli in collegio oppure li lasciavano alle cure di governanti e precettori.
Anna Torretta in azione. Archivio: Anna Torretta.
Un secondo aspetto concerne la percezione del pericolo e del rischio che nell’Ottocento era molto diversa rispetto alla società securitaria di oggi. Era normale essere sorpresi dal buio o dal maltempo e bivaccare senza alcun riparo, rimanere a lungo senza cibo, sobbarcarsi lunghi avvicinamenti a piedi, e così via. E chi praticava l’alpinismo ne era perfettamente consapevole, incluse le “signore”, alle quali sulle riviste e nei manuali di alpinismo, l’andare in montagna veniva puntualmente sconsigliato perché, a dire dei vari medici, le camminate troppo lunghe e faticose avrebbero rovinato la sana costituzione e la salute delle ragazze di buona famiglia, fino al punto da renderle addirittura sterili o incapaci di portare a termine una gravidanza.
Da quel che si evince dagli archivi, il tema in generale non veniva trattato né dalle alpiniste medesime, né da chi scriveva delle loro ascensioni, solitamente altre alpiniste che si interessavano a chi le aveva precedute. Le donne, alpiniste e non, di solito non pubblicavano ciò che scrivevano di sé, dei propri pensieri nonché delle proprie emozioni e imprese e, se lo facevano, la cosa non solo non era vista di buon occhio, ma arrecava addirittura scandalo, poiché in epoca di rigida suddivisione dei ruoli ciascuno doveva rispettare il proprio; nel loro caso quello di angelo del focolare. Non ultimo, il corpo era un supremo tabù, non se ne parlava, men che meno in relazione alla maternità e al parto: non erano argomenti che potessero essere discussi in pubblico.
Federica Mingolla. Foto: Evi Garbolino.
Una delle prime alpiniste a farlo fu la socia del CAI Torino Carolina Palazzi-Lavaggi, in una conferenza tenuta nel 1882. Palazzi-Lavaggi, che di figli ne aveva ben sei, tutti già avviati da lei alla montagna, volle insistere sulla necessità per le donne di acquisire il controllo del proprio corpo: solo rinvigorendolo nell’aria salubre dell’alta quota avrebbero potuto esprimere quell’energia fisica e morale – «che di certo non manca alle donne» – necessaria a praticare l’alpinismo. La montagna per se stesse, ma anche per distogliere figli e figlie da una vita troppo sedentaria, nociva alla salute. Le considerazioni di Carolina Palazzi-Lavaggi sono da intendersi come il tentativo di opporsi alle opinioni correnti sulla salute delle ragazze che, per quanto diffuse, erano del tutto prive di fondamento scientifico. Come verrà ampiamente dimostrato.
Rimane il fatto che il compito primario della donna era quello di sposarsi e avere figli. Ed è la prima ragione per cui le loro carriere erano più brevi di quelle degli uomini: al momento del matrimonio molte cordate si scioglievano. Il sodalizio delle tre sorelle Anna, Giacoma e Angelina Grassi di Tolmezzo, per esempio, durò finché due di loro si sposarono e la più giovane proseguì per un certo tempo da sola rinunciando al matrimonio; lo stesso accadde alle inglesi Pigeon, le sorelle Anne ed Ellen, così come a Isabella Straton e Emmeline Lewis Lloyd.
Palma Baldo con la figlia Silvia, di ritorno dell’Half Dome. Archivio: Palma Baldo.
Non stupisce quindi che le alpiniste attive nonostante i figli non si soffermassero, le rare volte in cui scrivevano delle loro imprese, sul tema della maternità: per le più emancipate, infatti, sarebbe equivalso a ridurre se stesse al ruolo di madri, un ruolo da cui cercavano piuttosto di evadere; inoltre volevano evitare che il parlarne le esponesse a critiche che le avrebbero richiamate al loro posto. Dichiararsi madri, infine, poteva contribuire a sminuirle da un lato in quanto alpiniste rispetto agli uomini, e dall’altro in quanto donne rispetto alla società patriarcale.
Chiudiamo con una considerazione finale. Al contrario di quel che accade oggi, con il dominio della specializzazione e l’ossessiva suddivisione in categorie, l’epoca delle pioniere accettava l’esistenza di contesti dai contorni sfumati. Benché le donne fossero escluse da molte attività e confinate in ruoli predefiniti, i ceti sociali più elevati potevano decidere in libertà infischiandosene delle convenzioni. Un privilegio che imponeva in ogni caso di non sovvertire apertamente le regole.
Federica Mingolla su Itaca nel Sole, Valle dell’Orco. Foto: Federico Ravassard.
Madri che scalano montagne
di Riccarda de Eccher, artista e alpinista
Il 13 maggio del 1995 Alison Hargreaves è la prima donna e la seconda persona al mondo a salire l’Everest senza uso di ossigeno e portatori di alta quota. L’Inghilterra si appropria della sua impresa che decanta in termini di orgoglio nazionale e riferito a lei ricorre il termine “eroina”.
Sara Avoscan su Alpenliebe, Cima Ovest di Lavaredo, parete nord. Foto: Manrico Dell’Agnola.
Hargreaves si trattiene in Inghilterra solo poche settimane e riparte per il K2. Il 13 agosto 1995, a tre mesi esatti dalla salita all’Everest, scendendo dalla cima un vento fortissimo la spazza letteralmente dalla montagna. Con lei perdono la vita altri sei alpinisti. I giornali riportano la fotografia di Hargreaves con i suoi figli e il suo ruolo di madre-alpinista infiamma l’immaginario degli inglesi. Giornalisti, opinionisti e persine gente comune sente la necessità di commentare e giudicare. Le sue imprese vengono descritte come consumate dall’attenzione per se stessa, dall’egoismo e dall’ossessione. La persona Alison diventa irrilevante e si trasforma in un simbolo, un’icona.
«La coraggiosa Alison era una madre responsabile?», «Le madri devono scalare montagne?», «Il K2 non è per madri», sono solo alcuni titoli.
Ancora prima della sua morte, Nigella Lawson scrive su The Times: «Nobile impulso o solo nevrosi?», «Ci sono persone che si sentono vive solo se rischiano la vita. C’è qualche cosa di sbagliato in chi ha la patologica necessità di sfuggire alla vita di tutti i giorni. Non ho tempo da perdere con persone che rischiano la vita in un vanaglorioso tentativo di essere lodati per il loro coraggio. Ci sono ovunque persone in reale pericolo di vita, che non vivranno a lungo e soffrono la fame, o malate di cancro in fase terminale, o in guerra. Se le Alison Hargreaves di questo mondo danno così poco valore alla vita, non dobbiamo preoccuparci per loro neanche se e quando la vita la perdono».
Eliza Kubarska, alpinista e regista. Foto: David Kaszlikowski.
Si giunge persino a insinuare che abbia una personalità disturbata e che il suo amore per il rischio sia paragonabile all’uso di droga.
Nessun giornalista si chiede se tra i sei alpinisti che con lei perdono la vita ci siano dei padri. Evidentemente non è importante. E non c’è alcun cenno al fatto che i bambini di Hargreaves non erano abbandonati, ma affidati all’amorosa cura del padre. Sarebbe stato vero l’inverso?
La stampa spoglia Alison Hargreaves del ruolo di eroina che in Inghilterra, declinato al femminile, è associato a figure dedite alla cura degli altri, all’istinto materno, alla gentilezza. L’eroismo di Hargreaves non aderisce a quel modello; viene letto come egoismo a come sfida allo spazio della mascolinità. Anche in Italia il dizionario enciclopedico della Treccani definisce: Eroe: Essere semidivino, al quale si attribuiscono gesta prodigiose a favore del gruppo che lo riconosce come tale.
Eroina: Donna di grande valore, specialmente come protagonista di opere letterarie o di fantasia (anche con il significato attenuato che ha talora eroe). Due figure, dunque, molto diverse.
Alison Hargreaves con i figli Tom e Kate al campo base del K2. Per gentile concessione: montagna.org.
La morte di Alison Hargreaves va contestualizzata in un’Inghilterra che esce da un decennio dominato dal pensiero di Margaret Thatcher. La prima ministra incolpava il permissivismo degli anni ’60 e ’70 di aver intaccato il ruolo stesso della famiglia (naturalmente pensata in termini di coppia bianca, unita in matrimonio, eterosessuale e di genitori biologici). La Thatcher vuole ristabilirne i ruoli e le madri lavoratrici sono percepite come traditrici della responsabilità parentale. Dopo la sua morte, il tono cambia persino nell’ambiente alpinistico. Hargreaves viene accusata di avere avuto “la febbre della cima”. L’idea è di Peter Hillary, figlio di Edmund Hillary, primo salitore dell’Everest, che si trova al campo base del K2. Insinua che Hargreaves avesse perso la capacità di decidere perché accecata dall’ambizione e che sia stata lei a incitare gli altri sei a tentare la vetta, che i sei morti di quella triste giornata fossero una sua diretta responsabilità. Ma dov’è il limite tra la spinta e la determinazione necessarie ad affrontare una cima di quel calibro e la “summit fever”? Se Hargreaves fosse scesa viva dal K2 sarebbe stata osannata e tutti ne avrebbero lodato le capacità e il coraggio. Rob Slatter, suo capo spedizione, in un’intervista a Climbing Magazine dichiara: «Raggiungere la cima o morire, per me, in entrambi i casi, è una vittoria». Perché la “summit fever” non viene attribuita a lui? La norma sociale vede la donna che nutre e l’uomo che rischia ed è più semplice attribuire un agire sbagliato a chi diverso, in quel mondo, lo è per definizione!
I suoi successi sono sepolti da una coltre di critiche e fanno dimenticare che Alison Hargreaves aveva dimostrato che le donne, in alta quota, sono in grado di fare esattamente quello che fanno gli uomini. Alison Hargreaves e la sua memoria sono sole in un mondo completamente dominato da una narrativa maschile. A 27 anni di distanza un altro tragico evento cattura l’attenzione della stampa. Hilaree Nelson perde la vita a 49 anni scendendo con gli sci dal Manaslu. Lascia due figli di 15 e 13 anni. Nelson è un’alpinista di rango: è la prima donna al mondo a salire due Ottomila, Everest e Lhotse, in sole ventiquattrore; viene nominata capitana del “North Face Athlete Team” e riceve il prestigioso titolo di Adventurer of the year dal National Geographic. È la voce della campagna Move Mountains che vuole ispirare le donne a intraprendere esplorazioni e avventure, a essere più visibili e più rappresentate. Con Jim Morrison, scende con gli sci dalla cima del Lhotse. Le sue gravidanze sono trattate dagli sponsor come un infortunio e alla nascita del primo figlio è costretta ad accettare un appannaggio inferiore. Per dimostrare che la maternità non interferisce con le sue prestazioni va in spedizione incinta di sei mesi e ci torna (al Cho Oyu, un Ottomila che scende con gli sci) quando il suo bambino, di mesi, ne ha solo dieci.
Nelson è una donna nuova nel mondo dell’alpinismo e sono soprattutto le donne, da quando lei ci ha lasciati, a dare voce al cambiamento. A riconoscere in lei un nuovo modello di donna.
Antonella Giacomini, esploratrice e alpinista
Alison Osious, unica donna presidente dell’American Alpine Club, ne racconta su Outside magazine con un articolo dal titolo: «In difesa di madri avventurose». Sulla sua pagina Instagram Emily Harrington, amica e compagna di cordata, dice: «Hilaree non va ricordata per l’incidente che l’ha portata via, per le montagne che ha scalato e per quelle che con grande perizia ha sceso con gli sci. Va ricordata per avere inequivocabilmente aperto alle alpiniste la possibilità di essere tutto quello che desiderano. Ha creato qualcosa di completamente nuovo. Ha rotto pregiudizi con quell’unica combinazione di grazia e coraggio che appartengono solo ai veri leader». A differenza di Alison Hargreaves, Hilaree Nelson non è sola. Attorno a sé ha una comunità di alpinisti e alpiniste che la stimano e ne riconoscono le qualità: la bravura, l’umanità, il carisma. Hilaree Nelson non invade uno spazio maschile, ma contribuisce a crearne uno per le donne e a far crescere quella che in inglese si chiama “sisterhood“, sorellanza. E la sorellanza, dice Toni Cade Bambara, è un verbo.
Hilaree Nelson con i suoi figli Graydon e Quinn
Testimonianze
di Elena Goatelli, sceneggiatrice e regista
Per riflettere sul tema “Alpiniste, genitorialità e rischio” abbiamo pensato di coinvolgere cinque alpiniste italiane con vite, età ed esperienze diverse. Le interviste registrate online e in video vengono di seguito riportate mantenendo il loro tono colloquiale.
Alla domanda sulla valutazione del rischio nella scelta di diventare genitore, Anna Torretta, guida alpina e madre di due figlie, racconta che «cambia sicuramente la percezione del pericolo con i bambini, l’ho sempre negato per tanti anni, però in realtà vai sempre in giro un pochino con il freno tirato, sei molto più prudente, ti preoccupi di sapere esattamente le condizioni in quel posto e magari dici: no, lì non passo e vado da un’altra parte che sono sicura che non mi capita niente». Anche la distanza si vive in modo diverso e, specialmente in una spedizione in Cile durata un mese, per la prima volta Anna dice di aver sentito la forte mancanza della figlia di due anni. Ricorda che, incinta della primogenita, durante una conferenza le dissero: «Ah, vedrai che adesso non vai più in montagna» e lei rispose con una tranquillità disarmante: «Basta organizzarsi».
Federica Mingolla, atleta professionista e alpinista, non ha figli al momento, ma secondo lei «diventare madre ed essere guida alpina sono due cose che possono andare a braccetto». Pensa comunque che se dovesse diventare madre le cose cambierebbero: «Ovviamente il modo in cui approccerò la montagna sarà leggermente diverso da come lo faccio adesso. Non è che adesso vado a rischiare la vita, ma probabilmente nel momento in cui deciderò di diventare madre dovrò sicuramente abbassare l’asticella». Reputa comunque che la questione vada affrontata sia dalle madri che dai padri: «Vedo che sono più gli uomini che tendono non a fregarsene, però semplicemente a continuare ad avere l’esatto stile di vita di prima nonostante siano diventati padri. Ma non è giusta o sbagliata, è semplicemente strana, perché comunque, nel momento in cui dai alla luce un altro essere vivente, di cui tu sei responsabile, in teoria dovresti cercare di rimanere in vita, o comunque di cercare di limitare la tua esposizione al rischio».
Per Federica Mingolla la biologia femminile non lascia scampo: «Durante la gravidanza hai comunque delle responsabilità in più. Questo è innegabile, perché come donna il figlio lo stai crescendo tu nella pancia. Questo non possiamo cambiarlo, non possiamo invertire chi fa la gestazione, è una cosa che non possiamo cambiare».
Palma Baldo, prima guida alpina donna del Trentino, con una figlia ormai grande, confida che «per un po’ sono riuscita a gestire l’emotività di avere la bambina distante, mentre io e mio marito eravamo su pareti difficili; finché, a un certo punto, non riuscii più ad avere la giusta concentrazione nelle grandi salite. Quando mi sono trovata distante per più giorni, sulle pareti del Capitan o nei Bugaboos, la notte era un tormento, anche se sapevo che lei era al sicuro. Quello è stato il momento che mi ha fatto dire: “fino a un certo punto può esserci la scalata, però io al massimo dopo due giorni la devo sentire”». Palma si rende conto solo adesso, mentre parla con me, che quando era incinta di sua figlia all’ottavo mese cercava sempre luoghi isolati per evitare di sentire la gente commentare il fatto che arrampicasse con il pancione: «Sembrerà assurdo, ma io ho arrampicato fino all’ottavo mese… E stavo di un bene incredibile. Sono stata anche fortunata, nel senso che non ho avuti problemi né durante la gravidanza né dopo».
Sara Avoscan è un’alpinista che al momento dell’intervista è incinta del suo primo figlio. «Io diventerò mamma a settembre. Abbiamo scelto in due, io e il mio compagno; non è stata una mia scelta, ne abbiamo parlato insieme. La vita di tutti i giorni la viviamo in due, il nostro è un rapporto paritario». Pensa che la visione della donna sia cambiata negli ultimi anni; prima sembrava che per forza bisognasse avere figli per realizzarsi, invece adesso essere madri è una parte importante della vita, ma non è l’unica che conta. «Io non posso essere solo mamma, devo essere anche Sara e devo riuscire a portare avanti dei miei obiettivi». Le reazioni esterne sono sempre le più difficili da accettare: «Non è facile per una coppia sportiva vivere questo momento, perché inevitabilmente tutte le persone che ti circondano la prima cosa che ti dicono è: “ah, adesso avete finito di arrampicare” ed è la cosa più brutta che ti possono dire. Quando sanno che io arrampico, iniziano: “eh, ma sei matta, ti rendi conto di quello che fai?”. Rimangono ancora tutte queste pressioni della società. .. ti mettono davanti solo gli ostacoli che incontrerai, quasi mettendo in secondo piano la scelta importante che hai fatto, no?! Come se fosse una cosa venuta così, senza pensarci».
Silvia Metzeltin, alpinista senza figli. La sua connessione internet e un tablet ribelle regalano nove minuti ininterrotti di un discorso lucido sulla questione “alpiniste, rischio e genitorialità”: «Io sono una sopravvissuta di quello che si chiamava alpinismo classico, un alpinismo che è stato determinante nella mia vita. Il rischio in montagna a me sembrava assolutamente irrisorio rispetto al rischio di finire a fare una vita da casalinga con dei bambini. Io non volevo quella vita e basta! Ho goduto di una sola vita di coppia, felice, lunga 40 anni, che è stata alpinistica fino all’ultimo giorno di vita del mio compagno-marito. Lui mi ha lasciato libera la scelta della maternità che, però, in fondo per me, era già un rifiuto in partenza».
E ancora: «I giudizi dell’ambiente sociale mi hanno condizionato poco a dir la verità, non li ricordo nemmeno. Invece, quelli del mondo alpinistico… quelli sì, quelli mi hanno ferito e provocato. Devo dire che i commenti sprezzanti sulle gravidanze che avrebbero posto termine al mio alpinismo, alla mia passione… quelli non li ho dimenticati».
La regista e alpinista polacca Eliza Kubarska e l’esploratrice Antonella Giacomini sono invece presenti in sala. Quest’ultima, madre e alpinista, racconta al pubblico di quando ricevette una lettera anonima che le consigliava di rimanere a casa a pulire il bagno invece di andare al Polo Nord (!). Pochi anni dopo, successe un episodio gravissimo: durante una spedizione in Patagonia, venne denunciata anonimamente ai servizi sociali per abbandono di minore.
Eliza Kubarska parla del suo film K2, touching the sky inerente a figli e figlie di alpinisti scomparsi sul K2. La domanda essenziale che si pone nel film è se i genitori, sia madri che padri, avessero il diritto di rischiare la loro vita in spedizioni estreme quando ci fossero figli ad aspettarli a casa. Poneva la domanda anche a se stessa, come alpinista e come donna che desiderava diventare madre. Mentre racconta ciò che le ha fatto decidere di non rinunciare ad entrambe le cose, il figlio di otto anni la scruta impaziente dalle poltrone della sala: l’evento è durato troppo ed è tempo di giocare.
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La recente spedizione sul K2 tutta al femminile, in cui la Loreggian e la Mingolla hanno rinunciato alla vetta, conquistata dalla guida, ha visto degli strascichi con le protagoniste affidare alle piattaforme online alcuni sfoghi riguardo a commenti espressi da osservatori. Qualcuno ne sa qualcosa in merito? Si tratta di messaggi inviati da perfetti sconosciuti tramite le medesime piattaforme o personalità più o meno note nell’ambiente?
È indubbio che ricevere critiche, ancorché insulse, sia demotivante, ma le medesime critiche insulse vengono rivolte a tutti i personaggi sovraesposti mediaticamente. Mi ha sorpreso che la frustrazione delle alpiniste abbia raggiunto un punto tale da tradursi in uno sfogo, il che mi ha fatto pensare che non fossero delle voci totalmente anonime.
Ho paura che il sempre maggior coinvolgimento delle donne nella pratica alpinistica possa portare a far ricardere simili episodi all’interno di uno scontro di genere e banalizzare in tali occasioni argomenti, secondo me, ben più concreti. Argomenti come gli obiettivi che si deve prefiggere una spedizione hymalayana nel 21esimo secolo o l’opportunità della stessa ad esempio.
Effettivamente non è la semplice partecipazione ad un unico corso CAI che monda la scriteriatezza di base di una persona: ci vuole ben di più di 4-5 uscite e basta. Altrettanto vale in direzione opposta: se uno “ragiona” già di suo, non ha necessità di partecipare ai corsi. L’importante è avere la testa sul collo e, se uno ce l’ha di suo, può fare a meno di ogni insegnamento didattico, CAI o non CAI. io sono un esponente del modello didattico del CAI e quindi faccio riferimento a quello, ma esistono anche altre proposte alternative: ognuno puà trovare il contesto a lui più congeniale.
Tra l’altro approfitto per una precisazione metodologica: quando io parlo di effetto educativo del modello didattico CAI (ma vale anche per il mondo NON CAI), do per scontato che si parli di un ciclo didattico completo, che in genere si estende almeno per due-tre stagioni consecutive (per allievi “capoccioni” possono esser necessari anche più stagioni consecutive) , passando attraverso TUTTE le fasi, dall’introduzione al perfezionamento, fino al raggiungimento dell’autonomia più competa, concetto che coincide, guarda caso, col fare le cose con la testa sul collo!.
Ma tu che cazzo ne sai di come è morto Steck , e del fatto che “fosse una situazione a rischio zero”?.Sono tutte cazzate in libertà , come il fatto che combattere l’idiozia e la sottovalutazione in montagna sia una prerogativa solo caiana…
io non ho parlato di soling sul 7a, ho parlato di situazioni a bassa difficoltà e fattore di rischio prossimo allo zero, specie in rapporto alla capacità del soggetto (pare che steck sia morto su un pendio privo di alcuna difficoltà tecnica, ma può non essere l’esempio migliore visto che era in altissima montagna, certamente sono morti in luoghi a rischio zero gli altri che ho nominato).
Se non sei l’alter ego virtuale di Crovella, certamente sei suo parente stretto quanto a cubicità neuronale.
Quanto alla coglioneria dei tempi, direi che tu e l’emerito formate una coppia imbattibile
Se però siete contenti a sentirvi dire che la didattica caiana salverà solo gli eletti che seguono il precetto, e che l’elicottero si alza solo per i miscredenti, va bene così (io su quell’elicottero ho volato 24 anni e ho visto cose diverse, tu?) .
anche per oggi direi che il tempo dedicato al cazzeggio per quanto mi riguarda può considerarsi concluso (e il tema del giorno definitivamente andato in culo…)
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E stai sicuro che era più sicuro steck dove è morto che Crovella sul rocciamelone, ma gli ha detto male.
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Questa secondo me e’ una grossa cazzata , ma e’ segno della coglioneria dei tempi.
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Steck e tanti altri stavano facendo cose ad alto rischio , e se tu le fai per una vita alla fine “ti puo’ facilmente dire male” , non e’ difficile.
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Quando un Honnold dovesse cadere soloing un 7a qualsiasi lasciandoci la ghirba , le stesse persone parleranno di un rischio soggettivo inferiore al Rocciamelone , ma sempre una cazzata rimane…
@61 Segui il ragionamento: comprimere il rischio fino a quello, convenzionalmente ineliminabile del 5%, è l’obiettivo OTTIMALE, può darsi che non lo si raggiunga, ma che c’entra? Anche se ti fermi al 10% (5%+ un 5% “soggettivo”) o con allievi più capoccioni al 15% (5%+ un 10% soggettivo) in ogni caso vai in montagna con un approccio molto diverso da quello di chi va “alla C.”. Cmq, quando vado a fare uscite private, sia con sci che estive, io mi guardo sempre intorno e da come gli individui si muovono, ragionano, a che ora son partiti, come sono vestiti ecc, capisco facilmente se hanno ricevuto una sana impostazione didattica oppure sono dei cannibali completi. Per cui i segni dell’attività didattica si “vedono” nelle persone, anche se non si arriva all’obiettivo OTTIMALE. Certo le scuole d’Italia possono esser diverse fra di loro e da tempo si sta lavorando per omogeneizzarle tutte. Avendo a che fare con dei volontari e non con degli istruttori professionisti pagati (cui puoi impartire disposizioni dall’alto a fronte del corrispettivo), ovviamente l’azione è morbida e mutevole da luogo a luogo. Ma, generazione dopo generazione (di istruttori), chi è dentro da decenni registra ben chiari i segnali che ci si è gi mossi molto verso l’omogeneizzazione generale.
expo, manco meritio risposta.
PAre che tu e l’emerito non abbiate mai visto una montagna o parliate di cose che non conoscete.
Il tema era l’erroe e l’impoderabile che accade a chiunque e dovunque, bravo o meno che sia.
Il fattore rischio si riduce con procedure standardizzate, come sa bene chi va sottacqua che segue routine consolidate se non vuol rimanere senza respiro a 40 metri.
MA nessuno routine, purtroppo, elimina quello che dalle mie parti viene chiamato il momento del belinone oppure la sfiga oppure l’imponderabile (che magari appartengono alo stesso genus) .
E’ la vita. anche se quelli come te e Crovella paiono voler sempre tracciare discrimini. E stai sicuro che era più sicuro steck dove è morto che Crovella sul rocciamelone, ma gli ha detto male.
Questo è uno dei profili. L’altro è che in base alle proprie bizzarre condizioni si pretenda di insultare post mortem colui al quale ha detto male (Anche se ha compiuto un errore)
questo secondo profilo lo troverei degno di quale patone. non virtuale.
63 Placido – Sbagli (e probabilmente sbaglia anche gabarrou): se segui il papello caiano e le rigide indicazioni del gruppo caiano piemontese il fattore rischio è fisso al 5%, non può mai accaderti nulla e il fattore C diviene irrilevante.
In tal modo generazioni su generazioni di caiani si perpetuano facendo raid e vie anche impegnative in tutta sicurezza, presentando i rispettivi figli che accoppiandosi fra loro (una sola volta o comunque, se reiterano, rigorosamente con la sola e unica donna della vita, poichè le sirene del sesso sono bandite nel gruppo amishsabaudo) genereranno discendenti ancor più accorti e caiani che rifuggiranno i pochi kamikaze alla gabarrou e frequenteranno i monti sino alla fine dei giorni in totale serenità, sicurezza ed ecumenismo diffondendo moralità, certezze e sicurezza nel mondo immorale dei frequentatori kamikaze dell’alpe .
PAre che i cuccioli di quella specie nascano già con un piccolo pile rosso munito di aquila stellata e una piccola aureola che ne testimonia la moralità e la linearità di condotta con il precetto esistenziale che il primigenio fondatore della setta, un emerito scialpinistotto torinese ha dettato loro sin dai primi anni settanta del secolo scorso.
E con tali ultime conclusioni possiamo tranquillamente considerare terminata l’ipotesi di un qualunque confronto costruttivo e interessante sul tema del giorno (e su qualunque altro).
@ 60 Untantoalchilo
Che la vita sia un’esperienza complessa e imprevedibile ok , che morire in bicicletta mentre si fa’ il giro dell’idroscalo di Milano , avvenga con la stessa probabilita’ che sulla N dell’Eiger o su una via nuova al Nanga fra due perturbazioni vicine , direi di no.
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L’imponderabilita’ della vita spesso viene chiamata in causa quando qualcuno vuole sminuire una cazzata…
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Proprio ieri un amico da tre pacchetti al giorno mi diceva : ” E metti anche che smetta , magari poi muoio perche’ mi investe un’auto…”.
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No , sono cazzate che ci raccontiamo…
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Salvaterra , a cui io non posso insegnare niente , e’ morto sbattendo su una cengia dopo che gli era rimasto in mano qualcosa su una via di quarto , ma non era certo un “rischio zero” essere li…
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Loretan e’ morto mentre procedeva in conserva trascinato in una caduta dalla compagna.
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Uli Steck , checche’ ne diciamo , non e’ certo morto in una situazione di shopping sul marciapiede di Corso Vinzeglio.
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Possiamo chiamarci come vogliamo , ma quando andiamo a “giocare” in montagna , le “noiose” procedure di Crovella hanno un peso nel salvarci la pelle , e hanno attaccato un numerino di probabilita’ che e’ 1000 volte superiore a quella che ci si rompano i freni all’auto.
Chiedo scusa se vado fuori tema, ma non sono certo il primo e, anzi, ormai il tema principale è un vago ricordo… Gabarrou avrebbe anche qualcosa da dire anche sul “fattore C” (che lui chiama “divine providence”), col quale tutti abbiamo avuto -chi più chi meno- a che fare, e che dimostra che, anche quando si prendono tutte le precauzioni, “shit may happen”.
Circa il tema del rischio e del significato per ogni alpinista, credo che qualcosa di interessante lo possa dire e lo ha detto Patrick Gabarrou, tra l’altro autore di una ulteriore nuova via sul Bianco, sembrerebbe anche la sua ultima volta sul Bianco. Forse sarebbe interessante pubblicare qualcosa.
“L’obiettivo del modello didattico è insegnare agli allievi nozioni, prassi e procedure affinché vadano a comprimere il rischio fino al livello non ulteriormente incomprimibile, cioè fino al 5% di “fatalità”. In altre parole, andare in montagna con la testa sul collo significa adottare tutti quesi comportamenti che cancellano il 95% del rischio.”
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C’è un evidente e clamoroso errore in questa “sottrazione ” aritmetica, dovuta all’idea che il 5% è il rischio incomprimibile dovuto al fato. Ma dato che quello relativo al fato voi lo, per così dire, considerate ineliminabile, allora significa che siete convinti di elminare TUTTO il restante rischio, che corrisponde al 100% di tutte le restanti azioni. Un pò pretenzioso mi pare! Avessi scritto che il 5% si somma ad un altro 5% dovuto ad un insieme di altri parametri (eventi imprevedibili non attribuibili al fato) avrebbe un senso più logico, ma così pare che gli allievi che escono dal vostro corso debbano solo fare attenzione al fato, che alla fine si riduce nella sfiga di una pietra che cade dall’alto, o dal tuo socio che perde il martello e ti cade in testa. In sostanza escono convinti di poter dominare il 100% del rischio dovuto a proprie azioni indipendenti dal fato. Bravi davvero!
grazie per la risposta Balsamo, apprezzo la tua analisi.
Trovo questa serie di riflessioni e giudizi sulle vite altrui, che ammorbano il blog da alcuni giorni, espresse con quella che l’interessato qualifica come spietatezza e che io identifico invece come mera stupida beceraggine, semplicemente imbarazzanti.
Soprattutto mi chiedo come in una vicenda complessa e imponderabile e imprevedibile come la vita, si possa pretendere di stabilire un a cazzo oggettivo, che sia secondo il papello caiano o secondo criteri paranoici sabaudi.
E’ evidente che se vado a fare la walker scalzo, slegato, da solo e d’inverno, il margine di rischio appare facilmente intuibile a chiunque (mi verrebbe comunque da dire, ma saranno cazzi miei quale che sia il mio stato di famiglia?, senza che il primo emeritoistrutoreriposo che passa per strada si senta in dovere di pontificare?).
MA se vogliamo fare accademia, a me pare proprio folle l’idea di parametrare il rischio e fare categorie definite da epiteti più o meno ingiuriosi, in una dinamica esistenziale in cui non vi è alcuna certezza nella vita quotidiana, che sia alpinistica o meno.
Alcuni grandi alpinisti (terray, berhault, loretan, steck solo per citarne alcuni) sono morti in situazioni in cui il rischio oggettivo era prossimo allo zero, ma hanno compiuto un errore banale.
Allora è un immorale immondo anche quello che inciampa sul sentiero delle cinque terre e cade per 200 metri nel dirupo sottostante, lo stesso crovella che domani dovesse inciampare in corso vinzaglio e morire perché sbatte una solenne craniata sullo spigolo del marciapede è uno stronzo che mette a repentaglio l’incolumità emotiva ed economica dei suoi famigli?
Oppure quello che si strafoga di barbecue e gli viene un cancro al colon, o si beve tre neuroni a settimana e schiocca di cirrosi…
Vogliamo stabilire anche una papello caiano sul margine di rischio per le bistecche, l’alcol il fumo, i pasticcini , i limiti di velocità, la guida in montainbike?
MA ci rendiamo conto è che è una discussione allucinogena?
Se posso concludere con un esortazione, direi all’emerito (e non solo) “scala, divertiti , tromba (se bona… 🙂 ), magna, stai accorti quanto basta e goditi la vita, che è comunque breve. o come, diceva Nietzsche, siedi sulla soglia dell’attimo.”
@51 “Presumo che tu non abbia contatti né mescolanza con il modello didattico del CAI […]”
Presumi male, ma pazienza.
Certo che quanto è insegnato nei corsi CAI è fondamentale, ma è altrettanto importante riconoscere che l’alpinismo implica una componente di rischio non completamente gestibile attraverso una didattica standardizzata, perché le situazioni in cui ci si può trovare sono infinite e non totalmente riconducibili a casi standard.
Per questo motivo trovo molto grave la tua affermazione che “andare in montagna con la testa sul collo significa adottare tutti quesi comportamenti che cancellano il 95% del rischio“.
In pratica stai dicendo che, seguendo pedissequamente rigide e predeterminate “nozioni, prassi e procedure“, il rischio può essere ridotto a una quantità nota a prescindere dal contesto (ambientale e personale).
Sei proprio sicuro di stare parlando di alpinismo ?
P.S. Il rapporto etico fra l’andare in montagna e le proprie responsabilità verso altri è cosa strettamente personale e complessa, per me difficile da comprimere nelle poche parole dedicate a un commento.
Certamente va oltre e meriterebbe riflessioni più complesse rispetto all’attribuire nei confronti altrui e in modo totalmente generalizzato espressioni sprezzanti come “comportamento immorale“, “andare in montagna alla cazzo“, “cretino irrecuperabile” e “due volte cretino“.
@50 “qual è il metro oggettivo di quel “a cazzo”?”
Dubito che esista un criterio oggettivo per misurare l’acazzismo nell’andare in montagna, untantoalchilo. Ma, se ci fosse, il CAI avrebbe già provveduto a codificarlo in qualche manuale (con foglio di calcolo allegato) 🙂
Probabilmente ci sono comportamenti che ci troveremmo tutti d’accordo nel considerarli come “andare a cazzo” (qualche esempio – estremo – l’ha fatto Expo), ma nella quasi totalità dei casi la questione è ben più indefinita.
Proprio per questo, e perché cosa passa per la testa delle persone nel momentoin cui prendono delle decisioni lo sanno solo i diretti interessati, credo che dare giudizi morali sugli altrui comportamenti (con l’aggravante del senno di poi) sia inopportuno.
Diverso è invece (provare a) capire che cosa è andato storto, dato che può capitare a tutti di prendere decisioni sbagliate o commettere errori di valutazione.
Io, in montagna, mi accorgo di aver sbagliato qualcosa quando smetto di divertirmi.
La menata sul CAI è la risposta alla solita menata che “ci sono milioni di persone che criticano il CAI”: controllate è scritta pochi commenti prima. Anche in questo c’è reciprocità: non vi sfiora l’anticamera del cervello che possiate aver rotto la minchia (uso espressioni usate da altri) con ‘ste presunte critiche alle colpe del CAI? E soprattutto non riuscite a capire che ai caiani NON glene frega un belino di cambiare il CAI?
Che vantaggio avrebbero i caiani (cioè coloro che si trovano bene ne CAI) a cambiarlo? Se il CAI, cambiando, diventasse il luogo ideale per gli attuali detrattori del CAI, i caiani si troverebbero tutti malissimo nel CAI 2.0 e se ne andrebbero tutti. Perché dobbiamo fare tutto ciò? Per cui: oggi che interesse abbiamo, noi caiani, a cambiare il CAI? Nessuno. Fatevene una ragione
ma… certo che non mi piacerebbe esser catalogato come hai detto tu, ma sono convinto che chi mi conosce non cadrebbe in tali errori. e’ vero non conosco quelle persone se non per gli articoli di cronaca, a incidente avvenuto, e per una rapidissima spolverata su Facebook (che io non frequento quasi mai9 con rapida visione dei solito selfie smaglianti, tipici di una certa mentalità “iper” dominante nei giorni nostri (fattore che ritengo sia una delle cause del problema generico) e di alcuni rapidissime annotazioni, fra cui, mi ha colpito quella di qualche gg prima, in cui in discesa dal Cervino erano stati colti dal maltempo con una “solita grandinata”,. non ho tempo nè voglia di approfondire ulteriormente, per me il problema NON sono questi due singoli individui che dovranno render conto ai loro congiunti e non a me, il problema è generale di un accesso alla montagna facilone e superficiale, paradossalmemnte tanto più è pericoloso quanto più i singoli sono esperti ed allenati. confesso che quella dicitura (“solita grandinata”) mi ha spinto a considerare che la prassi di strappare le ascensioni facendo lo slalom fra le tempeste non fosse un unicum… pregiudizio, il mio? ma può darsi, per ò l’impresisone è quello.
“inscatolare”? sì certo, io inscatolo la realtà, è vero, lo faccio nel lavoro, nei rapporti umani, in politica e, perché no?, anche in montagna. inserisco gli individui in categorie, pur sapendo che all’interno delle stesse c’è ampia flessibilità. esempio: i tifosi dell’Inter sono interisti. Lo puoi discutere? direi di no. quando parlo non posso stare a disquisire fra i milioni di tifosi dell’Inter, quello che ammazza per soldi (cronaca recente), quello che non va neppure allo stadio, quello che è competente, quello che in realtà del calcio non gliene frega niente e va allo stadio solo per menare… Prassi discutibile la mia? Ma perché no, la accetto, però a me piace vivere così e in 60 anni i feedback, dal lavoro alla politica, dallo sport alla montagna mi ha confermato che, nonostante alcuni difetti, questo modus operandi funziona bene… (in ogni caso non lo cambio cerco a 60 anni…)
Crovella,
ho capito il tuo punto di vista e, nell’analisi razionale di quello che può essere accaduto, posso concordare. Ma non è questo il punto su cui in precedenza ho scritto qualcosa. Si tratta di catalogare le persone (in questo caso le due vittime del Bianco) in contenitori predefiniti, in senso molto critico se non dispregiativo, quando si sa poco e nulla delle persone e quando l’evento accaduto potrebbe non essere stato, nelle loro vite, la costante dei loro comportamenti precedenti ma solamente un errore che può capitare a tutti. Nessuno è infallibile. Sono certo che nel caso tu commettessi un errore o facessi una valutazione errata, desidereresti non essere preso per un arruffone che improvvisa ma considerato anche in base a quello che hai fatto nei 40 anni precedenti.
Passo e chiudo
a crovè, e basta con sti doveri morali, cretini et similia. Sono schemi tuoi, non sono universali. Ti piace vivere così, fallo. Non scassare i cabasisi agli altri però, che manco i preti.
Leggiti Yvon Chouinard,m non proprio un coglione nè in montagna ne in pianura: “let my peple go surfing”
MAdò che brutta vita hai visto 😀
E comunque hai pure rotto quello che negli ultimi post menzioni di continuo (freudiano?): il tema era “Alpiniste, genitorialità e rischio”.
La tua prolissa menata sui modelli didattici caiani e la tua vita adamantina non centra una beneamata minchia (e ce l’ha pure rotta).
Enri. A te che sei pacato e rispettoso delle opinioni altrui, anche convinto delle tue, mi sento di dire che potrei anche commettere dei errori nelle mie posizion i, ma sinceramente non li vedo. C’è una coerenza a cascata fra l’passiona di fondo (non andare in montagna alla cazzo) e le varie conseguenze, nonché i giudizi connessi. prima di tutto ho preso spunto del fatto di cronaca di questi giorni, ma non mi scaglio necessariamente solo contro queaste persone: sono 40 anni che affermo anche pubblicamente queste tesi e che insegno, a chi ha piacere, di seguire una filosofia ddi asoluto controllo di quello che stai facendo. Secondo Bonatti oltre che un “professionista” (ho detto non ricordo più dove che i due sottoinsiemi vanno tenuti profondamente separati), agì 60 anni fa, con la quasi assoluta assenza della tecnologia previsiva (meteo) che invece caratterizza i nostri giorni. Terzo la parte alta del versante italiano del Bianco è ofuscata, dal corpo della montagna stessa, rispetto alla vista delle perturbazioni che giungono da nord-ovest: quando te ne accorgi ci sei dentro irrimediabilmente. Discorso molto diverso se percorri la cresta di confine o se sali dal versante francese: oltre il Bianco, a nord ovest, di fatto c’è quasi solo “pianura” (o cmq altire molto più basse), quindi il brutto lo “vedi” arrivare. Cosa significa andare alla cazzo? Che se parti, già fra finestre meteo molto aleatorie (cosa che ti dovrebbe disincentivare in merito), per la salita dei Trois Mont e, nonostante i segnali all’orizzonte di peggioramento o cmq una certa incertezza meteo complessiva, persisti ad andare aventi, invece di tornare per esempio dopo la vetta del Tacul, non è un atto lucido e sensato, ma è la conseguenza della frenesia che annulla la lucidità (hai in testa che “devi” fare le tre cime, costi quel che costi, e inoltre hai una certa Ubris che ti fa sentire più forte della natura…). Preciso ancora una volta che nessuno di questi signori (non solo le recenti vittime) deve venire a chiedermi il permesso né deve rendere conto a me delle decisioni prese. E’ chiaro che si tratta di scelte individuali. Tuttavia se tutti questi (non solo i tipi del Bianco, ma tutti) hanno la libertà di prendere le loro decisioni, io rivendico la libertà di poterli giudicare, così come giudico chiunque in ogni risvolto dell’esistenza. Non si comprende perché tutti pretendano di giudicare cosa fa Sangiuiliano o cosa scrive Sallusti o casa dice qualsiasi Piripicchio e viceversa sia preclusa a Crovella la libertà di giudicare il comportamento degli altri in montagna. (Per la cronaca, io faccio così anche sul terreno: quando vedo un cannibale che fa una cazzata, lo dico a voce alta, non tanto per correggere il cannibale – di cui in genere non me ne frega niente – , ma per per illustrare a chi mi circonda, familiari, amici allievi, cosa NON si deve fare in montagna).
A chi non piace il CAI basta che se ne stia alla lontana dal CAI medesimo. Non c’è bisogno di criticarlo evidenziandone i divetti come se fossero una violazione costituzionale. Il CAI NON è la casa di tutti, il CAI è la casa dei caiani (cioè di chi ha una mentalità tale per cui si trova bene nel CAI) e in non caiani facciano la loro strada. dicevo queste cose già 40 anni fa, quando c’era nella realtà “solo” il CAi ed era quasi impossibile andare in montagna del tutto al di fuori del CAI: Figuratevi adesso che c’è una florida offerta di associazionismo alternativo (FASI, UISP ecc) e che inoltre è molto più semplice operativamente accedere alle montagne in modalità alternative alle associazioni, per esempio con amici, vicini di casa, guide ecc. per cui continuare a rompere le palle sulle “colpe” del CAI non ha nessuna esigenza reale se non quella, già sottolineata, di rovesciare fiele e rancore derivanti da faccende personali. Superate una buona volta tali conti aperti a titolo personale, tanto il CAI mica vi viene incontro, né cambia di un millimetro, né è interessato a recuperare che nel CAI non si trova bene.
@47 preciso solo eprché sei fuori via in senso ideologico. Presumo che tu non abbia contatti né mescolanza con il modello didattico del CAI perché questo tema è l’architrave basilare. la posizione è profondamente diversa dalla tua che consegue a ragionamenti logici, ma non connessi allla realtà. Chiarto che, in astratto, il rischio zero si ottiene cancellando totalmente l’andar in montagna. ma non è il punto. il modello didattico del CAI afferma epslicitamente (anzi c’è lì’OBBLIGO di dirlo alla prima serata di ogni corso) che la montabgna NON è a rischio zero. Convenzionalmente si quantifica il 5% come la misurazione probabilistica del rischio connesso alla “fatalità”. Non infiliamoci nella discussione parallela se tale misura del 5% sia adeguata o bassa o addirittura elevata. e’ stata assunta da illo tempore come valore e su questo si fanno i ragionamenti.
L’obiettivo del modello didattico è insegnare agli allievi nozioni, prassi e procedure affinché vadano a comprimere il rischio fino al livello non ulteriormente incomprimibile, cioè fino al 5% di “fatalità”. In altre parole, andare in montagna con la testa sul collo significa adottare tutti quesi comportamenti che cancellano il 95% del rischio. Al contrario, andare in montagna alla cazzo significa non seguire, in tutto o anche solo in parte, questo approccio. Ci sono i famosi cannibali che, strutturalmente vanno in montagna alla cazzo. ma neppure gli alpinisti esperti ne sono esenti ed è verso questi soggetti che sono particolarmente critico. Quando un alpinista anche esperto si fa prendere dalla “frenesia” (come io definisco la passione alpinistica quando diventa dominante e ottunde la lucidità dell’individuo), ecco che entra nel territorio dell’approccio alla cazzo. qui rileva pochissimo se sia o meno tecnicamente capace. Quando si entra in quel particolare “territorio” psicologico (“andare alla cazzo”) io li considero dei cretini totali. La cosa non riguarda solo la passione alpinistica, ma qualsiasi passione quando diventa dominante e ti rimbecillisce (il gossip estivo insegna).
Giusto eopr completare il discorso poi c’è un ulteriore step, cioè che se arsi va in montagna alla cazzo e in più hai congiunti (intesi come ho già descritto), questa cosa diventa un comportamento immorale, perché viola il dovere morale di mettere davanti i propri obblighi a qualsiasi soddisfacimento di piaceri ed esigenze egoistiche.
Crovella, proprio non ti fai capace che esistano milioni di persone che, senza necessità alcuna di diffide, volpi e uva trovano semplicemente il CAi una associazione obsoleta, elefantiaca, spesso animata da interessi che nulla hanno a che vedere con la montagna e prevalentemente popolata da persone che , come te, sono munite di estenuante prosopopea e, per quelle ragioni, decidano di strane lontano ed esercitino un legittimo diritto di critica verso un club che percepisce rilevanti sovvenzioni statali, fa roboanti dichiarazioni ma ha condotte contraddittorie e del tutto inefficaci ad esempio sul profilo della tutela dell’ambiente montano o alleva torme di buffi esseri monturati e pataccati che si credono il padreterno e talvolta sono in gamba ma più spesso son delle pippe (talvolta emerite)…
Quanto al resto e hai giochetti allegorici, oggi ho poco tempo, mi limito a rilevare che quanto e come scrivi è il miglior specchio di chi sei davvero
Sul tema dell’articolo(e collaterali) per continuare sulla tua deriva fondata sui francesismi (fa figo e l’istrutoreemerito che fa un pò di turpiloquio… brrrrr), quale è la misura del “cazzo”, ovvero chi è che decide quanto è a cazzo l’andare in montagna degli altri e qual è il metro oggettivo di quel “a cazzo”? (vale anche per Balsamo che è sempre attento al dato scientifico).
Oevvro come si fa a definire a cazzo l’andare per monti di qualcuno? l’andare “a cazzo” ha un parametro oggettivo di rilevazione?
Lo chiedo da settimane ma vedo che continuate a sbrodolare sui soliti tre concetti consunti ma nessuno ha stabilito criteri precisi.
Quanti pile è necessario avere addosso affinchè l’andare sul bianco non sia più a cazzo?
In sostanza non vi rendete conto che la manovra stupida (profondamente stupida quando i modi e i toni sono quelli crovelliani) è pretendere di giudicare l’altrui agire, vieppiù cercando di stabilire un discrimine fra cosa è a cazzo e cosa non lo é, in un territorio che è improntato a dinamiche sostanzialmente soggettive e insondabili?
E che anche laddove qualcuno abbia commesso una imprudenza, rilevato il dato oggettivo che può essere sotteso a quell’agire ed evidenziarlo come errore, rimane stupido (profondamente stupido) giudicare le persone.
@ 47 Balsamo.Tutto condivisibile..Forse Crovella ha esagerato definendo chi esagera nello sfidare pericoli oggettivi e soggettivi :”Un cretino irrecuperabile” , però in questo sento il “buon senso” di alcune cose che il Cai porta avanti nei corsi..Scalare il Monte Bianco in mutande per essere più leggeri e veloci , uscire a fare scialpinismo in un canale , con pericolo 4 o 5 , scalare una via di un grado sotto il tuo limite , nudo , senza imbrago e con la magnesite appesa allo scroto , per me non è “atletismo” , non è “figo” , è irresponsabile..Ovviamente ognuno ha la libertà di farlo e di farsi i suoi conti , ma nella mia testa preferisco essere un alpinista vivo , piuttosto che un eroe ( o un influencer spinto dalla compulsione a postare ) morto….Ovviamente ci sarà qualcuno che dice che :”Ce l’ho troppo piccolo per capire…” , ma io a mio figlio o a un amico non insegnerei ad andare in montagna così..Mi sembra un imbroglio , senza alcuna allusione religiosa , la vita merita di essere vissuta anche domani.
47) Balsamo.
Tutto è chiaro, umanamente logico, ponderato ed accettabile.
Ma Crovella lo capirà?
Non credo!
“se uno va in montagna alla cazzo (aumentando l’esposizione al rischio, anziché contrarla la minimo incomprimibile […] è un cretino irrecuperabile”
Crovella, il “minimo incomprimibile” di “esposizione al rischio” nell’andare in montagna è zero, ed è facilmente ottenibile non andandoci proprio, in montagna.
Secondo la tua logica, quindi, chiunque vada in montagna esponendosi al relativo rischio è da considerarsi “un cretino irrecuperabile“.
In realtà, fra il rischio zero (stare a casa) e il rischio massimo (certezza di farsi male), esiste tutta una gradazione di sfumature che possono rendere il rischio accettabile secondo il personale giudizio (e le personali capacità) di ognuno di noi.
Il punto, a mio parere, se proprio vogliamo dividere i frequentatori fra chi “va in montagna alla cazzo” e chi lo fa in modo responsabile, è la consapevolezza del rischio, non il livello di esposizione.
E cosa ritenere accettabile o inaccettabile è scelta del tutto personale e (quasi) insidacabile.
Crovella,
tu sbagli il passo finale del tuo ragionamento e cioè quando fai di tutta un’erba un fascio e pretendi di catalogare le intenzioni delle persone. Hai catalogato queste due povere persone morte sul Monte Bianco fra coloro che si fanno prendere dalla frenesia e vanno in montagna in un modo sbagliato (hai usato termini più coloriti). Puoi immaginare che sia data anche la possibilità che fossero persone non frenetiche, sinceramente appassionate di montagna, forse anche con una certa esperienza e che sia capitato loro di fare una valutazione sbagliata come può capitare a tutti? Faccio un esempio provocatorio per spiegarmi: Bonatti, Pilone del Freney, Luglio 61. A Bonatti potrebbe essere contestato che non avrebbe dovuto acettare di andare in 7 su una via simile, di apsettare 3 gg nella bufera a 4400 metri, ipotizzando che in mezza giornata di schiarita avrebbero fatto, sempre in 7, i rimanenti 6 tiri della Chandelle di cui i primi 3 estremi. Queste potrebbero essere lette come valutazioni sbagliate ed un modo di andare in montagna alla C….. E’ cosi o possiamo concludere che si trattava del più grande alpinista della storia ( o quasi), che tra l’altro fu anche in grado di salvare la vita in quella occasione di altre persone (sfortunatamente non tutte) e che il suo modo di andare in montagna e di vivere in genere ha ispirato generazioni di uomini?
I mie esercizi di fantasia possono avere corrispondenze reali: potrei costruirne a dozzine mettendo insieme esplicite diffide legali inviate dal CAI e mille altre persone “fatte correre” pur di togliersele dai piedi, da qui un rancore inguaribile degli “esclusi”, rancore che non può che sfogarsi in fiotti di fiele con tutto ciò che sa di CAI, di caiano e di istituzionale, anche indirettamente come sul tema in questione). siete stati, direttamente o indirettamente, ostracizzati dal mondo CAI, è ovvio che abbiate il dente avvelenato, ma ciò inquina le posizioni anche su temi che solo indirettamente hanno a che fare con quel mondo. Viceversa le vostre repliche si basano su informazioni errate o estremamente imprecise, sia in merito al curriculum, sia all’esperienza didattica, sia con riferimento ai contenuti editoriali, di cui evidentemente avete un’impressione superficiale solo relativa alla parte della narrativa e non su quella dell’analisi storica. Tra l’altro i libri, qui non c’entrano un belino: le idee le ho a prescindere dai libri e le dico papale papale senza peli sulla lingua, da che mi occupo di montagna. Peraltro dire le cose papale papale è mio costume in ogni risvolto della vita, dalla politica al lavoro alle relazioni umane. Quando il mio socio di cordata, non unico ma prevalente, si è fatto prendere dalla “frenesia” (la passione senza controllo), gli ho detto senza timori che quel modo di andare in montagna non era di mio gradimento e quindi che non volevo più che ci legassimo insieme. Non ho bisogno di fare panegirici democristiani, le dico le dico diritte e lo stesso faccio adesso. Solo che queste cose vi irritano, proprio perché vanno a toccare vostri nervi scoperti.
PS: volete che si torni strettamente al tema “genitorialità”? Non c’è problema. la mia posizione è: se uno va in montagna alla cazzo (aumentando l’esposizione al rischio, anziché contrarla la minimo incomprimibile – principio questo che è invece l’architrave ideologico del mondo didattico del CAI) è un cretino irrecuperabile. Se poi va in montagna alla cazzo, avendo in aggiunta anche dei figli, specie se piccoli/adolescenti/giovani adulti, è due volte cretino.
“Un altro dei tarli che obnubila le, peraltro quasi inesistenti, facoltà mentali di alcuni “fenomeni” che razzolano da queste parti è che sia abilitati a esprimersi solo in funzione di quanto si “sa”.”
E con questo abbiamo raggiunto il massimo: la giustificazione teorica della correttezza del parlare di ciò che non si conosce…
beh, almeno in questo caso Crovella non può essere accusato di mancanza di coerenza!
E niente, Crovella é riuscito a trasformare un dibattito sulla genitorialità delle donne alpiniste in un altro dei suoi pipponi da “io sono io e voi non siete un cazzo”.
oh possiamo ritornare all’argomento gravidanze & co.?
Se uno muove una critica al mondo caiano non credo proprio lo faccia spinto da frustrazione. Mi sembra più logico pensare che voglia far notare qualcosa che non gli va bene. Cosa che può accadere in altri Infiniti ambiti.
Caro Crovella, per favore non metterci l’esempio della volpe e l’uva perché è quello che da decenni incarni tu stesso. E te l’ho scritto più d’una volta, ma vista la tua scarsità d’argomenti, perché scrivi tanto ma i concetti sono banali superficiali e sempre gli stessi, addirittura prendi quelli degli altri per difendere la tua causa. Oltre che ridicolo sei veramente limitato d’intelletto. Non te ne accorgi da solo?
facciamone anche un altro esercizio in astratto.
ammettiamo che uno scialpinista men che mediocre trovi nella patacca caiana un emblema che lo certifica al mondo come bravo, come esperto, come conduttore pur essendo una emerita pippa alpina.
nella vita è uno scarso in tutto, nei rapporti umani, nel lavoro, nella attività in montagna.
Scrive libri modestissimi, che non vanno aldilà della fiera letteraria rionale, eppure, ormai anziano, con un curriculum risibile e una esperienza men che mediocre, il grande club di pongo lo rende merito, così che possa perpetuare la sua mediocrità con una patacca finché campa.
Nel frattempo quel giovane presidente di sezione , che giovane non è più, ha conosciuto nel cai grandi persone, ha fatto belle esperienze, ha vissuto emozioni intense, anche in ambito caiano, ma ad un certo punto ha compreso, per ragioni personali e professionali, che la grande palla di pongo caiana era un luogo più adatto, specie negli ultimi 25 anni, a vecchie e mediocri balene spiaggiate che a persone che hanno voglia di evolvere e che portano avanti battaglie concrete e non di mera facciata e ha trovato altrove interlocutori maggiormente operativi e in sintonia con le proprie vedute.
Quindi, grato per quello che ha imparato, anche a contrario, in ambito caiano, si è levato ogni patacca, ha ampliato gli orizzonti, salito un sacco di belle vie, conosciuto un sacco di belle persone, che recassero patacche o meno, e oggi campa felicemente girando i monti, seguendo unicamente il proprio sentire senza necessità di definirsi, in ogni confronto, titolato al solo fine di ammantare di una maggior consistenza(quale?) il proprio dire.
Detto ciò, cosa centra questa mediocre e banale tiratina con il tema di cui si discute?
detto cio, ti ho dedicato i venti minuti di divertimento quotidiano che riservo al cazzeggio, e ti lascio ai tuoi deliri. Anch’io, come PAsini, ho contingentato il tempo dedicato alla scemenza.
stammi bene
Utilizzo l’approssimarsi del finale di una giornata professionale, per dilettarmi con un esercizio in astratto. Poniamo che un giovine presidente di sezione CAI si rechi ad un’assemblea dei delegati, che, sempre in astratto, ipotizziamo si tenga a Bergamo. Poniamo ancora che il giovane presidente di sezione abbia elaborato una proposta di una qualsiasi riforma (il tema è irrilevante, visto la fine che farà) e che la illustri con foga in assemblea. Poniamo ancora, sempre all’interno di un esercizio in astratto, che a quel punto scatti la tradizionale “palla di pongo” del CAI, cioè che, in una primissima fase, l’assemblea avviluppi di melassa il suddetto personaggio, elogiandolo e forse addirittura invitandolo al tavolo della Presidenza. Continuiamo, sempre nel nostro esercizio in astratto, ipotizzando che ai saluti di fine assemblea si registrino grandi abbracci e sperticate promesse di risentirsi assiduamente. Però, pur continuando ancora nel nostro esercizio in astratto, dobbiamo mettere in conto che esiste la palla di pongo del CAI e che a quel punto produrrà i suoi effetti, per cui il baldo presidente di sezione, tornato al suo ridente borgo, nelle comunicazioni con la sede centrale inizia a percepire sempre maggior freddezza, i tempi di risposta si allungano fino a giungere al silenzio assoluto, cioè a un ostracismo senza recupero. Pur nell’ambito del nostro attuale esercizio in astratto, è inevitabile prevedere la conclusione: il CAI non cambia di un millimetro e il presidente di sezione, sentendosi ferito nell’animo, getta alle ortiche la tessera di socio CAI. E’ evidente che, sempre muovendosi nell’ipotesi in astratto, un siffatto individuo senta di avere un conto in sospeso a titolo personale con il CAI e quindi non faccia altro che sparare a zero su tutto ciò che, in qualche modo, si riferisce ai concetti di CAI, di caiano e di mentalità istituzionale e perbenista. Sempre proseguendo nel nostro esercizio in astratto, è facile credere che, se il suddetto personaggio si imbatte in un rappresentante dell’ideologia caiana o istituzionale, gli si avventi addosso, ma si tratta più che altro della conseguenza del “suo” conto in sospeso. Il messaggio finale di questo esercizio in astratto che i fiotti di fiele non hanno nessun valore se non quello di espressione di situazioni in stile la volpe e l’uva. Esercizi in astratto simili a questo se ne possono elaborare in numero abbastanza significativo, adattandoli a svariate fattispecie.
Si lo so, purtroppo.
” esistono anche mediocri escursionisti, magari perfino un po’ stupidotti di natura e addirittura provincialotti di abitudini (seppur nati e cresciuti in centri metropolitani) e tali caratteristiche non impediscono a questi “individui” di esprimersi anche su temi alpinistici. ”
curiosa tesi.
Immagino che costoro sappiano anche perfettamente valutare il tuffo della cagnotto senza mai essere saliti su un trampolino, indicando le tecniche più efficaci per farlo meglio o sappiano come mettere un friend sul terzo tiro di oceano irrazionale anche se l’unica via che hanno fatto è quella che porta alla basilica di superga e certamente possano dare degli immorali temerari a chi è morto di freddo sul mue de la cote, pur non avendo idea nè di come sia fatto ne di come ci si arrivi.
Ogni tanto l’idea di tacere e basta potrebbe non essere così balzana.
Venghino, siori, venghino…
Crovella, banalizzo e sintetizzo anch’io.
Uno che va in montagna da cinquant’anni e che ogni volta che qualcuno ci lascia la pelle si sente autorizzato a giudicare la sua vita personale e familiare senza neanche sapere di chi sta parlando IMHO è banalmente uno stupido cialtrone.
Lo è tre volte se i suoi stupidì giudizi non li tiene per se ma li sbandiera ai quattro venti, su blog dove potrebbe leggere persone che a quei morti sono legati (come già successo).
Che faccia il terzo i il tredicisimo grado.
Poi se sei contento a vivere come un automa, buon per te.
per altri la vita è una variabile infinita, nessuno pretende di convincerti del contrario. Non è nè questione politica, nè di testa calda nè di frenesia.
Si chiama semplicemente filosofia esistenziale, ognuno ha la prorpia.
Sarebbe sufficiente non scassare gli zebedei sostenendo ogni tre secondi che se non fate come io vedo il mondo siete di volta in volta, immorali, folli, frenetici, merde verso i vostri figli/coniugi/dipendenti etc.
I tuoi allievi ti salutano riconoscenti dopo 40 anni? evviva (poveracci)+
pensa che io invece ricordo con struggimento un grandissimo uomo e alpinista, che in un’occasione per me molto complessa mi ha insegnato una cosa bellissima sulla vita e sulla montagna e che dopo poche settimane è morto cadendo come uno scemo da tre metri slegato e da solo in una falesia (Allora erano palestre, benassi sa sicuramente di chi parlo).
Non mi sono neanche mai posto il problema se avesse fatto una cazzata o meno, è successo.
E’ straevidente che per un motivo o per l’altro, chi continua a sparare sul tema caiani, CAI, scuola inquadrata, camicia a scacchi ecc ecc ecc ha infelicità e frustrazioni che lo portano a scaricare in questo modo il fiele verso un mondo (quello istituzionale) che detesta. ma non è mica detto che la verità sia nel lato ribelle dell’emiciclo, anzi, numeri alla mano, direi che vale proprio il contrario e spesso questi fiott di fiele non sono altro che espressioni in stile la volpe e l’uva.
Chiedo venia a Bertoncelli, ma ancora una volta devo ripetere concetti che ho già esposto. Un altro dei tarli che obnubila le, peraltro quasi inesistenti, facoltà mentali di alcuni “fenomeni” che razzolano da queste parti è che sia abilitati a esprimersi solo in funzione di quanto si “sa”. Anzi spesso si fa pure un passo in più dando maggior speso specifico in funzione della capacità tecnica. Sintetizzo e semplifico: l’opinione di Tizio, che fa il IV, ha un certo peso specifico (basso), l’opinione di Caio, che fa il V, ha un peso specifico superiore, l’opinione di Sempronio, che fa il VI, ha un peso specifico ancora superiore, ecc ecc ecc. Se valesse il criterio che, sia in generale che qui sul Blog in particolare, potessero parlare solo gli alpinisti di alto livello, il 99,9% dei lettori/commentatori non sarebbe autorizzato a scrivere neppure mezza riga. Quindi ciascuno è autorizzato a esprimere le idee di cui è convinto e non c’è da scandalizzarsi se spesso non collimano con quelle degli altri. neppure il fatto se tali idee siano intelligenti o stupide è neppure un parametro che le possa cassare o meno.
Nel mare magun degli appassionati di montagna esistono anche mediocri escursionisti, magari perfino un po’ stupidotti di natura e addirittura provincialotti di abitudini (seppur nati e cresciuti in centri metropolitani) e tali caratteristiche non impediscono a questi “individui” di esprimersi anche su temi alpinistici. Ovviamente io non mi considero così e i feedback che mi tornano sono di segno completamente opposto, ma provocatoriamente affermo che, anche se io fossi davvero così, avrei cmq il diritto di esprimere le mie opinioni. Opinioni che, sulla montagna nel suo complesso e su questo argomento etico-ideologico-morale in particolare, non ho elaborato in fretta e furia ieri sera, ma costituiscono un tassello rappresentativo che mi contraddistingue praticamente da sempre. Chi mi conosce sa che sono così e non ho avuto esitazioni, circa 25 anni fa, a “separarmi” da un compagno di cordata che si era fatto prendere dalla “frenesia”, continuando la mia sistematica attività con altri soci. Per cui sono coerente con le mie idee e so anche prendere le decisioni del caso, spesso non semplici sul piano umano.
“Discorso diverso se uno è stato allievo dove ho esercitato come istruttore in 40 anni. Certo che lì gli faccio capire cosa ritengo che sia meglio”
Montalbano direbbe “minchia…”
Quelli allevati personalmente non devono sgarrare, i figli della lupa caiani sempre e solo sul quarto legati, casco, una settimana di bel tempo davanti, secondo chiodo necessariamente a due metri e 43 da terra, gps, oscilloscopio, vibrafono, arava, ombrello cosmico e via…
e guai confondersi con la gnocca!
mado’, che brutta vita che avete visto 😀
@30 Nel non voler giudicare ciò che passa nella testa degli altri entriamo in territori molto soggettivi. Io abitualmente analizzo, valuto e giudico quello che fanno, dicono e realizzano gli altri, tutti, nessuno escluso. Dal vicino di casa al collaboratore professionale, dal politico all’imprenditore che mi dà lavoro. mi sembra pazzesco che non si possa valutare e giudicare (nel senso di “dare un proprio giudizio) quello che fanno gli altri. Limitiamoci all’andar in montagna. Sbaglierei se pretendessi di imporre la mia concezione ad altri adulti maggiorenni e vaccinati, ma formarmi una mia idea di cosa fa ciascuno in montagna e ritenere legittimo esporla è sacrosanto. Però ribadisco: un conto sono le scelte in assoluto degli adulti (tipo: vuoi appender la pelle al bastone? ma prego fallo pure, io ti considero un cretino, ma non alzo un dito per impedirtelo), un altro conto sono le stesse scelte se ci sono delle pregresse responsabilità verso altri soggetti, in genere più fragili, la cui vita potrebbe esser profondamente segnata dalle scelte “egoistiche” degli adulti. Non parlo tanto di questioni economiche (che, cmq, in alcuni casi ci sono eccome), ma proprio di presenza emotiva e condivisione della crescita, step by step, dei figli. Ovviamente non mi riferisco a figli adulti, che lavorano e che magari hanno a loro volta una famiglia. Mi riferisco a figli piccoli, se non piccolissimi, e anche adolescenti, fino a circa i 20 anni. Ma anche in questo caso ho sempre precisato che mi limito a un diritto di critica, durissima, ma mi fermo lì: non voglio vietare ad un adulto di commettere un’azione che secondo i mie parametri è “immorale”. Dovrebbe scattare le sua coscienza a fermarlo/mitigarlo. Discorso diverso se uno è stato allievo dove ho esercitato come istruttore in 40 anni. Certo che lì gli faccio capire cosa ritengo che sia meglio. I feedback che mi sono tornati sono positivi e mi confermano la positività di tale azione didattica su temi ideologici (che io considero più importante che insegnare il nodino X o la procedura Y).
crovella, confondi spietatezza con stupidità.
entrambe iniziano per s, ma hanno connotazioni del tutto diverse.
due persone sono morte in montagna, avranno sbagliato, certamente, erano animate da una grande fuoco ed entusiasmo e non mi sembravano, per quel che si legge sui giornali e sui social due poco preparati.
allora esprimere giudizi morali su qualcuno che muore, dando a destra e a manca patenti in base ai tuoi personali criteri di giusto/ingiusto, morale /non morale è semplicemente e solamente stupido, non spietato.
Un modo stupido, becero, fuori luogo di parlare di qualcuno che non si conosceva e di una vicenda che non è nota nei suoi dettagli.
Non hai innalzato il livello di sicurezza sulle salite la bianco con la tua analisi, hai solo perso l’ennesima occasione per stare zitto e rispettare comunque la morte di due persone.
Qualunque disciplina che implica pericolo comporta il silenzio solidale quando qualcuno quel pericolo lo incrocia in maniera mortale. Avrà sbagliato certamente, accade di sbagliare al pilota da caccia quando vien già con il suo jet, accade all’alpinista, accade al velista solitario. servirà poi capire l’errore a fini preventivi.
ma uno che il giorno dopo spara giudizi sulla vita altrui dando patenti di immoralità allestente è semplicemente banalmente uno stupido. non uno spietato..
Ah, è parecchio stupido anche categorizzare la vita in scelte morali e non morali, in binari sicuri e non sicuri, in giusto e sbagliato. Quasi tutte le scelte che fanno avanzare l’umanità sono folli e immorali secondo i tuoi stupidi parametri, a partire da quelle dei fratelli whrigt.
immagino che anche chi se ne va un mese a orbitare sulla stazione spaziale e ha figli sia un coglione immorale…
(che poi sei un banale, mediocre ed emerito istruttore caiano di sci alpinismo a riposo, da quale vetta tu pretendi di sparare sempre i tuoi giudizi sarebbe carino capire. un grande da cui ho imparato molto in montagna quando avevo una ventina d’anni, per rintuzzare i crovelli dell’epoca era solito dire “ma stai bravo tu che la montagna più alta che hai visto è quella di m….a dietro casa tua”. Ecco, quando leggo le tue stupidaggini quel personaggio pittoresco mi ritorna in mente con una certa vividezza…)
“Dobbiamo esser oggettivi fino alla spietatezza e dire le cose come stanno”
Direi di no Crovella, direi proprio di no.
E’ meglio per te se non lo facciamo, fidati.
Crovella, premesso che spesso sono d’accordo sulle tesi che sostieni, mi stacco dal tuo pensiero quando dalle tesi pretendi di giudicare le intenzioni e l’animo umano. Possiamo guardare i fatti, ma non possiamo sapere i pensieri, le emozioni che hanno spinto certe persone a fare una salita e come poi siano andate le cose. Sulla base delle tue conclusioni sulla frenesia dovremmo portare Christophe Profit come massimo esempio negativo di cannibalismo e frenesia alpina. Proprio Profit ha commentato che sabato era nella stessa zona e che ha deciso di tornare indietro. E si è giustamente astenuto da dare giudizi, auspicando il silenzio per un dovuto rispetto. Tutto questo lo ha detto Profit. Ora o pensiamo che Profit in 50 anni di alpinismo sia stato sempre e solo mosso da cannibalismo di bassissimo livello oppure possiamo immaginare che sia un grande appassionato di montagna che ha frequentato in molti modi. Ad oggi ed alla sua età sembra invece anche una persona saggia, poteva sparare a zero sull’accaduto ed invece ha usato parole molto semplici ed adeguate al momento. Parole da cui si deduce che, anche secondo lui, malgrado sia doveroso provare a valutare e controllare tutto, d’altra parte l’errore è sempre dietro l’angolo, per chiunque. Conclusione: a mio avviso sempre sbagliato fare deduzioni su quello che passa nella testa e nel cuore delle persone solo sulla base di quello che si vede dall’esterno, tanto più quando si parla di passione per la montagna, le cui sfaccettature possono essere molteplici. Possiamo arrivare a scrivere un manuale di come si prepara una salita, ma non un manuale su come ci si dovrebbe apassionare alla montagna.
A parte il fatto che “provincialotti” si appare reciprocamente (non troppi giorni fa, ad una tua affermazione che vai alle tue serate anche con le infradito-o similari-ho raccontato di chi, nell’estate scorsa, si è presentato, ad una serata con un minimo di ufficialità, calzando sandali da trekking e ho detto che li ho trovati del “pacu” che in dialetto piemontese significa campagnolo, provincialotto… ), intervengo su questo tema ma non tiro fuori adesso cose mai dette, perché espongo idee che esprimo da decenni (dai primi anni ’80).
Non mando mai a dire le cose, le dico in faccia papale papale, a tutti. A un mio compagno di cordata (per un certo periodo), quando costui è stato preso dalla “frenesia”, che io considero immorale e un “disvalore”, gli ho detto che non volevo più fare cordata con lui. L’episodio risale a circa 25 anni fa. Gli ho spiegato il perché, molto preciso e lucido, e gli ho detto che da parte mia questo non incideva minimamente sul rapporto umano, cioè – per farmi capire – che non volevo “non farlo più amico”, semplicemente non condividevo il modo in cui si era fatto prendere dall’andar in montagna. Invece è stato lui, che, per reazione stizzita, si è decisamente allontanato anche sul piano umano. Il punto cardine di quando la passione prende il dominio e diventa “frenesia”, è che c’è una linea di pensiero, molto diffusa, che tende a esaltare questa passione esasperata: l’abitudine agli osanna fa sì che le persone prese dalla frenesia non capiscano più nulla neppure sul piano umano e le critiche puntuali e razionali le vivono quasi come degli attacchi personali. Chi ha sempre “bisogno” di partire, di andare, di muoversi, comunque e ovunque, ha un cancro esistenziale interno (a prescindere da eventuali incidenti), cioè non è baricentrato, non è in equilibrio. La montagna per essere “sana” deve inserirsi armonicamente nella vita degli individui e non essere una frenesia che fa perdere la testa. Seneca docet, l’ho già raccontato. Da sempre considero questo modo di approcciare la montagna (“frenesia”) come un “disvalore”. Io cerco insegno un approccio diametralmente opposto. A uomini e donne, indistintamente.
@25 Evidentemente ti sei persa un pezzo di conversazioni collegato a un altro articolo di qualche giorno fa in cui io ho detto esplicitamente che chi, una volta che si è assunto responsabilità verso altri (in particolare figli), se non modifica l’attività in montagna, mitigando l’esposizione al rischio, compie una scelta “immorale”. ho spiegato anche perché la definisco così. L’ho scritto chiaramente, senza girarci intorno. Tocca a te andare a informarti. In quella occasione si parlava in generale, ma io ho fatto molti riferimenti particolari ai “padri”. Qui ho dato per scontato quanto già esposto solo pochi giorni fa e mi sono concentrato esclusivamente sul risvolto che è più direttamente connesso al tema di questo articolo
Crovella, la tua incompetenza in alpinismo (cosa che ti ho fatto notare più di una volta) salta fuori periodicamente. Non basta essere pataccati e convinti di essere nel giusto sempre se prima non si sono provate sulla propria pellaccia certe situazioni. Umane, oggettive, collettiva, di relazione interpersonale e con l’ambiente. Dalle tue continue affermazioni scontate e superficiali (mentre tu sei convinto essere profonde ed esatte) si capisce che la tua esperienza è lunga ma non profonda abbastanza. Evidentemente ti sei sempre tenuto nei confini di un sistema codificato che con il vero alpinismo ha ben poco a che vedere.
Certo, la febbre del dover fare, le ferie da sfruttare, il consenso sui social e la poca competenza, siamo d’accordissimo che siano condizioni pericolose, ma voler sempre esprimere giudizi come mannaie ti mette in una luce patetica e che può essere ascoltata solo dal vivaio di imperiti nel quale sguazzi da oltre 40 anni, ecc, ecc.
Diverso è se ti confronti con alpinisti di discreto livello che hanno un po’ di esperienza onesta di montagna. Piantala lì, dai…
Ma dove l’hai letto che è un “valore” ?
E dove l’hai letto che è da “coltivare”?
Qualcuno qui ha scritto, ha invitato, ha insegnato, ad andare in montagna quando ci sono previsti temporali , tempeste e valanghe??
Ma falla finita.
Faccio notare che Crovella non ha esitato a esprimere il suo giudizio sulla ragazza (totalmente fuori luogo, ma insomma, é Crovella, che ci aspettiamo?), ma non ha fatto parola sull’uomo, che figli ne ha.
allora, Crove’, se devi essere fuori luogo fallo a 360 gradi, altrimenti non vale.
meglio sarebbe far silenzio, ma impossibile pretendere una cosa del genere da un soggetto come te
A prescindere dalla conclusione fatale, il modo di andar in montagna di chi deve sempre “partire”, non sa mai stare fermo, non ha un baricentro esistenziale ecc ecc ecc, non è un valore, non è una passione “bella”. E’ qualcosa che ha un sottofondo di malsana, di morboso, di malato. E’ una droga che, in determinate situazioni, innesca un’overdose e miete vittime. Ma anche senza arrivare all’overdose, quel modo di andare in montagna è una cosa moralmente disdicevole. Direi le stesse cose anche in assenza dell’esito fatale. Naturalmente il fatto balza alla ribalta dei giornali per l’esisto fatale: se non ci fosse stato, nessuno avrebbe mai saputo della loro uscita. Ma non sono gli errori specifici della dinamica che mi interessano, è proprio il modello comportamentale che non va bene, che non va sbandierato come una cosa da ammirare e imitare. Tra l’altro pare che i due fossero reduci dal Cervino, salito pochi gg fa e anche lì colti da maltempo in discesa con una bella grandinata. E non paghi di ciò, eccoli scatenarsi di nuovo a pochi gg di distanza, in una aleatoria finestra fra violente perturbazioni ampiamente annunciate. Ripeto, al di là dell’esito fatale, questo modo di andar in montagna non è un “valore”, ma è un “disvalore”. E’ che da che ho iniziato a fare didattica della montagna, circa 40 anni fa, che insegno ciò e diffondo un messaggio antitetico. Dobbiamo esser oggettivi fino alla spietatezza e dire le cose come stanno: che questo è un “brutto” modo di vivere l’alpinismo. A prescindere dall’e4isto fatale. Però finché continuiamo a coltivare questo brutto modo di andare in montagna, eventi del genere saranno all’ordine del giorno.
Tutti noi commettiamo errori in montagna, chi piú e chi meno.
Nel caso qualcuno rimanga ucciso, il primo sentimento deve essere la compassione. E compassione significa anche silenzio.
Poi, volendo, sarà possibile analizzare i fatti, ma soltanto per imparare dagli errori altrui.
Forse si eviterà che succeda a noi. Forse.
Mi sembra che qui molti si arrampichino sugli specchi. In molti alpinisti prevale l’egoismo. Se una madre e’ in dolce attesa dovrebbe pensare a come ridurre al minimo i rischi per suo figlio, non andare a scalare. Allo stesso modo il padre dovrebbe minimizzare le possibilità che suo figlio nasca orfano dì padre. Non si può’ avere la botte piena e la moglie ubriaca. Poi ci saranno i soliti che ti diranno che, pur essendo genitori, vogliono fare comunque salite estreme perché così lasciano ai figli una determinata educazione ed eredità’ culturale… si vabbè dai. E poi un conto è’ fare la nord dell’eiger un altro la normale al Castore. E’ tutta una questione dì egoismo. Non stiamoci a raccontare scuse.Per quanto alle povere vittime sul Monte Bianco direi che c’è’ un momento per stare in silenzio, anche per rispetto alle famiglie. E un momento successivo in cui, eventualmente, fare qualche analisi dì come sono andate le cose. Ricordando che, anche nel caso si fosse trattato di una valutazione errata, potremo al massimo trarne tesi razionali utili per manuali. Ma non potremo, sulla base dì quelle, fare un processo alle intenzioni delle persone coinvolte e tanto meno misurare se il loro comportamento e’ stato immorale o meno. Anche il suicidio razionalmente e’ immorale ma direi che invece è’ sempre bene astenersi dal giudicarlo. Ps
senza contare che in montagna l’errore è’ dietro l’angolo per chiunque. Consigliere cresta bassa, poche critiche e antenne ben tese.
Crovella, l’esempio dei due sciagurati del Bianco, se fossi un “signore” te lo saresti risparmiato.
È che sei un provincialotto pieno di boria e i tuoi commenti ne sono spesso la prova.
Per quanto riguarda, trovo molto più immorali i tuoi commenti Crovella, ancora più per il fatto che parli, parli, poi voti, e molto convinto, a destra, portatrice di valori come l’antiambientalismo, la cementificazione senza se e senza ma e via dicendo. E mi scuso per essere a mio volta caduto nella trappola giudizio, ma davvero i tuoi commenti sono sempre più insopportabili.
In questi frangenti, credo sarebbe meglio che ognuno pensi per se, senza giudicare gli altri. Penso allo strazio delle famiglie ed amici.
“Con la rinuncia cresce il rispetto per la montagna. Ma questo è un concetto difficile da far passare perché siamo immersi in una società del consumo. Se tu invece capisci che con meno puoi fare tutto, nella vita e nell’alpinismo, la forza della natura e la tua forza interiore esplodono in te.” R. Messner
Mi sono casualmente imbattuto in questa frase proprio mentre, dai quotidiani on line, apprendo che sono stati trovati i corpi senza vita dei due italiani dispersi sul Bianco. Questa vicenda dolorosa sul piano umano esprime però l’andar in montagna antitetico alla mia visione. C’è stata una furiosa tempesta in quota il 4 settembre, con abbondanti precipitazioni nevose. Alla schiarita, si sapeva già (dai bollettini) che nel week end ne sarebbe arrivata un’altra ancora peggiore, quota neve 3200-3600 m, con abbassamento dello zero termico a META’ GIORNATA in area 3700 m (versanti nord)-4000 m (versanti sud). Zero termico 3700 m a metà giornata, significa di notte ampiamente sotto zero, se poi sali a 4500 m (dove pare li abbiano trovati) probabilmente -10 o -15, forse ancora più giù. Può darsi che rispetto al timing delle previsioni, la perturbazione si sia scaricata sul massiccio un po’ in anticipo, ma l’uomo non comanda la natura, è viceversa. Pensare di esser veloci e di infilarsi nella finestra di tempo accettabile per gabbare la natura è l’inizio della fine. Ognuno può fare il tipo di montagna che vuole, è liberissimo anche di rischiare quanto vuole, ma non è questa la montagna che pratico e di conseguenza non è neppure quella che insegno. Non conosco le due persone, ho appreso che una è una donna, non mi pare dai quotidiani che avesse famiglia, nel senso di figli, ma se, in astratto, li avesse avuti, avrei trovato doppiamente immorale questo modo scriteriato di affrontare la montagna.
Meno male che una donna a detto agli uomini qualcosa che questi ultimi potevano solo immaginare.
A me sembra che in troppi si sia ancorati a preconcetti codificati più che vecchi. Gravidanza e tirare su i figli possono avvenire in mille modi diversi purchè condivisi da chi li pratica. Sul tema del prendersi o meno dei rischi, tutto è relativo. La maggior parte delle persone si prende dei rischi senza saperlo.
Un lavoro e/o una situazione familiare particolare che porta a gravi forme di stress con rischio enorme per la salute fisica e mentale sono spesso accettati nella nostra società, più che fare la nord dell’Eiger al sesto mese.
Entrambe le situazioni possono avere conseguenze estreme, ma chi decide sulla bontà di una o quell’altra? Probabilmente i diretti interessati.L’essere comunque sottoposti a giudizio da parte di altri è inevitabile.
Quando da giovane abitavo con i miei genitori mi fingevo pazzo agli occhi degli altri condomini così mi lasciavano in pace e funzionava benissimo. E a me non interessava del giudizio che avevano perché l’escamotage mi faceva stare bene.
E’ tutto relativo.
Commettiamo tutti azioni immorali che non sono reati, tra queste si può annoverare l’alpinismo praticato quando si hanno figli piccoli. La ragione di un’opinione così drastica sta nel fatto che in questo agire scommettiamo una posta che non ci appartiene, ossia la relazione figlio-genitore che abbiamo scelto di instaurare decidendo di procreare: coerente ed ammirevole a questo riguardo la posizione di Silvia Metzelin. L’alto numero di orfani di alpinisti/e (non ho dati e non so se ci siano, ma la sensazione è che sia significativamente superiore alla media) indica che la scelta tra “la legge morale in noi” di kantiana memoria e il perseguimento della felicità personale propende per la seconda.
Bhe, non ho detto che il tetto di cristallo sia ancora da rompere. E’ già stato rotto e la Hargreaves sarà stata un’antesignana degli Ulisse al femminile in montagna, non in assoluto ma per la sistematicità di presenza sugli 8000. Sulla polemica del tempo non ho ricordi specifici, certo personalmente sono sempre stato un po’ scettico sulle sue scelte, ma ovviamente non doveva render conto a me. In generale e parlando per il futuro, le donne sapranno trovare strade che noi maschietti non immaginiamo neppure. Avventurarci in queste cose mi fa tornare in mente l’aneddoto di Sant’Agostino con il bambinetto che tentava di svuotare il mare con un semplice cucchiaio…
La polemica sull’imprudenza di Alison Hargreaves, almeno qui in Italia, era stata scatenata all’epoca da un’associazione alpinistica di ispirazione cattolica, se non ricordo male, e ricordo in risposta uno scritto di Alberto Paleari, che descriveva ammirato le gesta di Alison, in termini epici (alla faccia di Ulisse, mi viene da dire), e concludeva saggiamente facendo un passo indietro (qualcosa come “saprà lei come si sentiva in quel momento, è una cosa soggettiva”). Penso fosse su Alp, se ho tempo vado a cercarlo e me lo rileggo. La lettura di Paleari mi fa bene, sempre.
Ognuno faccia le proprie scelte.
Le scelte altrui non ci competono né ci riguardano né, soprattutto, possiamo giudicarle.
Punto.
Intanto forse sarebbe meglio lasciare la parola a chi la gravidanza la sostiene, visto che rimane una prerogativa femminile.
come gestire la gravidanza va a sentimento, nel senso che ogni corpo é diverso, c’é chi ha un percorso “facile” in cui il corpo permette di fare certe attività (con le dovute precauzioni del caso), chi invece a complicazioni che purtroppo si mettono in mezzo e con cui bisogna fare i conti. Ma sono fattori imprevedibili e troppo personali per giudicare.
per quel che riguarda il dopo, non sta scritto da nessuna parte che la donna in quanto madre si debba prendere l’accollo dei figli, lì la parola chiave é “equilibrio”.
alternare le uscite, sfruttare la possibilità in falesia di scalare con altre coppie in maniera da alternarsi a badare ai figli etc.
anche la valutazione del rischio, o delle assenze da casa, é personale, e le uniche persone che hanno diritto di parola a riguardo sono i genitori del bambino.
Ulisse ha potuto starsene via 20 anni perché c’era Penelope a presidiare regno, casa, talamo e figlio. Evidente archetipo ma che dimostra, fin dalla notte dei tempi, che i maschi gironzolano perché è la natura che ha stabilito caratteristiche diverse da cui discendono diversi ruoli sociali. Che le donne Sapiens abbiano infinite marce in più do noi maschi è fuor di dubbio e probabilmente il “soffocamento” secolare a loro carico è dipeso proprio dal timore maschile rispetto alle potenzialità del genere femminile. Ora però i tetto di cristallo è stato rotto e l’onda lunga arriverà ovunque, perfino nell’alpinismo. Gli Ulisse prospettici (“fatti non foste per viver come bruti…”) saranno donne. Personalmente, sarò curioso di vedere quale equilibrio daranno alle loro esistenze, perché la maternità (intesa sia come gestazione che come presenza affettiva a contato con i figli, step by step nella crescita di questi) resta una costante immutata. Non c’è mammo che sostituisca davvero la mamma. Sarà interessante verificare come reagirà la società, magari le donne si distaccheranno da questo atavico ruolo e i figli percepiranno in loro una minor esigenza della presenza affettiva delle mamme. Però i tempi sono lunghi, non credo che noi vedremo questi nuovi equilibri.
“In più le donne, per default, sono molto più degli uomini, in tutti i risvolti: più intelligenti, più resistenti, più determinate, sopportano di più il dolore, la fatica, lo stress.”
Per favore, smettiamola con le cazzate gratuite, intendendo con cazzate affermazioni ideologiche gratuite, indimostrate e indimostrabili, false e volte a categorizzazioni ed etichettature ancora più false.
Vale per i negri, gli ebrei, gli arabi e vale per le donne.
Siamo una razza unica: vogliamo finalmente prendere atto che i giudizi sopra riportati sono culturali, dipendono dal quando, da chi e da dove vengono espressi, ma non hanno alcun fondamento oggettivo. Così come i negri non sono più stupidi della media degli umani, gli ebrei non sono più intelligenti o i terroni più indolenti.
Quanto all’attività fisica delle donne incinte, la mia compagna si era ripromessa di arrampicare finché “l’imbrago si chiude” e 2 giorni prima del parto eravamo all’Angelone; il prodotto, mia figlia, è apparsa su questo blog raccontando un paio di avventure con la sua amica Lucia a spasso per le Alpi
Ci sono persone che fanno cose “esagerate” agli occhi del buon senso comune. Da sempre. Le motivazioni possono essere diverse: affermare qualcosa (vedi la gravidanza come “normalità”) , marcare la differenza, mettersi alla prova uscendo dalll’area di confort sociale….Secondo me il tema interessante non e’ però quello stimolato dall’episodio dell’Eiger. Cose di minoranza anche se di valore simbolico. Il tema interessante è che il numero delle donne in montagna aumenta in modo costante ogni anno (non nel blog purtroppo come sappiamo) e questo è un fatto nuovo. Così come l’andare in montagna in coppia (di diverso orientamento) cosa che facevano in pochi nelle generazioni precedenti. Come questa nuova realtà potrebbe influire su alcuni dilemmi classici che in passato hanno riguardato prevalentemente i maschi? Questo mi pare un bel terreno di riflessione e di osservazione per il futuro. Il resto, permettetemi, sono un po’ discorsi di buon senso da vecchie beline.
Che il futuro sia delle donne, non solo in montagna, è una reazione statistica: dopo secoli di “compressione”, la molla è scattata l’effetto sarà a lungo temine. Quindi, anche se uno fosse intriso di pregiudizi moralistici, sarebbe inutile contrapporsi a tale meccanismo. In più le donne, per default, sono molto più degli uomini, in tutti i risvolti: più intelligenti, più resistenti, più determinate, sopportano di più il dolore, la fatica, lo stress. Non c’è da stupirsi che vedremo sempre più donne “protagoniste” dello sviluppo umano, dalla politica all’economia, dalla cultura allo sport per finire anche all’andar in montagna. In me maschio boomer (ma non nascondetevi, un sacco di voi hanno gli stessi pensieri) resta una perplessità di fondo sul tema “gravidanza” e poi “ruolo affettivo ed educazionale” verso i figli. nella società di oggi i 2padri2 sono molto più resposabilizzati (in termini di aspettative socioculturali e morali) dei decenni scorsi, come osservato da Pasini, ma nessun padre può sostituire fino in fondo l’asenza (temporanea o definitiva) di una madre. E’ proprio un ruolo di natura: l’orso maschio mica di preoccupa dei cucccioli, anzi poco ci manca che li azzanni se li vede introno alla madre, mentre la natura ha previsto dalla notte dei tempi che sia mamma orsa a crescere i cuccioli per 2-3 anni. Nella specie umana questo meccanismo è stato profondamente attenuato dall’evoluzione culturale e sociale, ma non completamente annullato: un sottofondo esiste ancora sia nelle donne che nei nostri “cuccioli” che si aspettano una mamma presente. Cmq, saranno le donne a decidere, se “impegnarsi” in montagna e come e a che livelli, di difficoltà e di rischio: hanno buon senso e intelligenza che a noi, “orsacci” maschi, irsuti e animaleschi, mancano quasi del tutto. Fidiamoci di loro, anche quando non le capiamo completamente.
Bertoncelli.
Mia moglie al settimo mese di gravidanza è salita con me sul cratere centrale dell’Etna, facendosi 1.500 metri di dislivello serenamente. Ed era quella che in termini medici viene definita “primipara attempata”.
Sarebbe il caso di iniziare a comprendere che la gravidanza non è una malattia e se si sta bene si può serenamente svolgere attività fisiche anche impegnative.
Su ogni parete si potrebbe prevedere una sala parto “sospesa” cui possono rivolgersi le donne che, al nono mese, affrontano le scalate
Quindi, secondo il buon Matteo, ora possiamo attenderci perfino la prima scalata della parete nord dell’Eiger a una settimana dal parto.
“scalare la parete nord dell’Eiger al sesto mese di gravidanza mi pare comunque una grave imprudenza”
Già! E pensi che ci sono donne che addirittura si provocano danni irreparabili andando in bicicletta con i pantaloni che stringono!
Che tempi, signora mia, che tempi…
La debolezza delle donne non è soltanto uno stereotipo (qualcosa che non ci piace o un valore che non è giusto condividere), ma è anche un fatto (qualcosa che comunque accade e che è possibile descrivere). Del resto la debolezza delle donne riguarda in particolare la borghesia ottocentesca in forme circoscritte nello spazio e nel tempo.
Interessante ripresa del tema rischio/vita privata dal punto di vista femminile. Ne ho ricavato due considerazioni. Per prima cosa, la conferma delle storie di vita raccontate qui sul blog anche da non professionisti. La nascita dei figli influenza in modo significativo la percezione e la propensione al rischio e modifica in parte nella maggior parte delle persone, non in tutti, i comportamenti e le scelte in montagna. Quindi il ciclo di vita ha un ruolo importante sulla percezione e gestione del dilemma. In secondo luogo la cultura della società penetra in modo massiccio anche il mondo della montagna. La considerazione del ruolo della donna e la visione dei doveri genitoriali, con il conseguente giudizio sociale, è fortemente connessa all’epoca storica. C’è stata un’epoca nella quale nelle classi benestanti era normale mettere i figli a balia o in collegio e il mondo adulto e quello infantile erano decisamente separati. Certo una percezione molto diversa dalla genitorialita’ oggi prevalente, che è stata chiamata persino da qualcuno “ethernal parenting” o anche l’epoca del “mammo” riferendosi ad un diverso modo di intendere il ruolo paterno. Non bisogna andare molto lontani. Mio padre partiva il sabato mattina e tornava la domenica sera per soddisfare la sua passione. Mia madre e il suo ambiente non lo colpevolizzavano. Anche a me pareva “normale” e tra le tante cose che gli ho rimproverato, anche ingiustamente, non c’è mai stata questa. Se fossi diventato padre anch’io negli anni a cavallo tra i 70 e gli 80 , come molti della mia generazione, avrei adottato lo stesso comportamento? Non lo so ma non credo. Certo non i padri di oggi, da quello che vedo intorno a me. C’è un punto che i contributi qui pubblicati lasciano un po’ sullo sfondo. Le radici, le motivazioni di quella “passione” che spinge comunque ad andare per monti anche se in modo diciamo “attenuato” dall’evoluzione del ciclo di vita. Un tema che invece era stato sollevato dagli interventi sinceri ed espliciti di alcuni non professionisti qui sul blog. Da approfondire, senza moralismi e senza adottare il comportamento ben fotografato dal bardo di Genova : la gente da’ buoni consigli quando non può più dare cattivo esempio.
Checché si pensi sul tema della donna in alpinismo, scalare la parete nord dell’Eiger al sesto mese di gravidanza mi pare comunque una grave imprudenza.
E perché non al settimo? all’ottavo? al nono?