Alpiniste invisibili – 1

Le imprese delle alpiniste dimenticate nelle pieghe della storia.

Alpiniste invisibili – 1
di Linda Cottino
(pubblicato su Annuario del CAAI 2020-2021)

All’una e mezza pomeridiane del 4 settembre 1838 una nobildonna francese metteva piede sulla cima del Monte Bianco. Quella donna era Henriette d’Angeville. Aveva la bella età di 44 anni e abitava a Ginevra, dove si era stabilita dopo che il Terrore postrivoluzionario aveva inghiottito quasi per intero la sua famiglia. Dalla città sul lago Lemano, nelle giornate terse, vedeva luccicare in lontananza la cupola bianca e glaciale del Monte Bianco: un luccicare di ghiacci a fil di cielo che l’aveva ammaliata al punto da far crescere in lei l’irresistibile desiderio di toccarne la sommità.

Henriette d’Angeville

Un primo giro di perlustrazione d’Angeville lo aveva compiuto in luglio, giusto il tempo per dare forma al progetto e dedicarsi ad alcune salite di allenamento – il Mont Joly, affacciato sul Bianco dalla parte di St Gervais, il Jardin de Talèfre con marcia sulla Mer de Giace fino al Couvercle, e la Tête Noire, un ripiego per non aver potuto raggiungere il Brévent a causa del cattivo tempo. Negli appunti presi sul fido Carnet Vert prima di entrare nel vivo dell’azione, Henriette annota lo sconcerto di chi assiste ai suoi preparativi e vorrebbe dissuaderla da un’impresa tanto azzardata e inopportuna per una gentildonna. «I visitatori cominciarono subito a mettersi in cammino per venire a scampanellare alla mia porta a qualunque ora; dapprima per verificare la veridicità della notizia, poi per sottopormi al supplizio di un interrogatorio vero e proprio. “Perché questa inclinazione per i viaggi?”; “Rientraste or ora da Chamonix e volete riandarci?”. “Perché?”: è una domanda semplice ma molto indiscreta, quando a pronunciarla sia altri che un buon amico; tuttavia proverò qui a rispondere a tutti i perché rivoltimi a proposito della mia spedizione al Monte Bianco. Cosi al primo perché rispondo: è in relazione con i bisogni dell’anima, e con quelli del corpo, diversi da individuo a individuo; voler enunciare al proposito leggi generali è altrettanto irragionevole che voler sottoporre persone di costituzione debole allo stile di vita dei forti, o viceversa. lo sono fra coloro che alle scene pittoresche e graziosissime che la natura sa offrire preferiscono gli spettacoli grandiosi… Ecco perché ho scelto il Monte Bianco».

È pressoché impossibile per noi, oggi, cogliere l’enormità di quell’impresa. All’epoca in pochissimi erano saliti sul gigante delle Alpi, ancor meno quelli che ne avevano scritto; senza contare che quando Henriette compi l’ascensione il Monte Bianco «non era ancora stato visitato da una donna capace di valutare le sue impressioni». Già, perché agli occhi di d’Angeville, quella Marie Paradis che, stremata (e anche un po’ trascinata di peso), aveva raggiunto la cima trenta anni prima di lei, non poteva certo dirsi un’Alpinista. Piuttosto, pensava la contessa, la trovata dell’ascensione era stata un’abile mossa della ragazza a beneficio della sua locanda nel piccolo borgo di Chamonix. La sfida assume così una non trascurabile rilevanza. Il primo passo di d’Angeville per organizzare la spedizione fu di assicurarsi Joseph-Marie Couttet, la guida più nota ai piedi del Bianco, con altre cinque guide. Dopodiché Henriette si fece cucire un vestito adatto e preparò i bauli che, oltre a molti capi d’abbigliamento, contenevano ogni bendidio «per il buon esito della scalata» – dai polli arrosto alla crema di latte, fino alle bottiglie di vino e champagne, compresa una gabbietta con piccione viaggiatore, che dalla cima avrebbe portato in paese la lieta novella. La nostra eroina si impose dunque con l’autorevolezza della sua impeccabile spedizione. Fu un’alpinista consapevole e moderna. La prima. Con e senza apostrofo. A ben pensarci, infatti, se gli alpinisti uomini avevano ancora bisogno della scienza per giustificare le loro courses in montagna, lei lo fece per puro piacere dell’avventura e della sfida, per bisogno di libertà, per determinazione individuale. Anche se dovettero passare più di centocinquant’anni perché il suo Carnet Vert trovasse un editore disponibile a pubblicarlo.

Ho iniziato questo viaggio nella storia dell’alpinismo praticato dalle donne con l’impresa di Henriette d’Angeville sul Monte Bianco perché è fondativa tanto quanto lo fu quella di Balmat e Paccard nel 1786. E se i cinquantadue anni che separano le due ascensioni possono sembrarci oggi un tempo lunghissimo, in realtà cosi non fu. È infatti da considerare che all’epoca alle donne era negata qualsiasi attività fisica, anzi, qualsiasi attività tout-court che non fosse la cura del marito, dei figli, della casa e, se di classe agiata, della propria persona. Possibilità di scelta non c’era. Per essere libere le donne ricorrevano, paradossalmente, alla vita monacale (che almeno garantiva istruzione) o, se spinte dall’urgenza di far vivere una propria passione o un proprio talento, si isolavano dal mondo alla maniera che, per esempio, scelse per sé la poetessa Emily Dickinson: l’autoconfinamento nella casa avita per potersi realizzare come artista. Si pensi che quasi un secolo dopo l’ascensione di d’Angeville, nel 1929, Virginia Woolf intitolava un proprio saggio sulla letteratura femminile anglosassone Una stanza tutta per sé, rivendicando la necessità per la donna di potersi ricavare tra le mura domestiche uno spazio tutto suo. Per una curiosa concomitanza temporale, il ’29 fu anche l’anno in cui l’americana Miriam O’Brien e la francese Alice Damesme osarono sfidare le convenzioni ingaggiandosi in cordata solo femminile in una scalata ambita dai più forti alpinisti, l’Aiguille du Grépon. Non ne ricevettero in cambio alcun plauso o complimento, ci mancherebbe! Ne vennero ripagate con il sarcasmo. Il commento fu che la loro salita svalutava al punto l’ascensione, che nessun uomo con un minimo di autostima avrebbe più potuto compierla; il che era un vero peccato, vista la sua bellezza.

Christian Almer, Ulrich Almer, Meta Brevoort, William Coolidge, intorno al 1874.

Ma torniamo all’Ottocento. È curioso che l’anno della storica prima femminile al Monte Bianco coincida con quello di nascita di Alessandra Boarelli, la torinese che si aggiudicò un’altra importante prima femminile, quella al Monviso, e che anzi per un soffio non batté sul tempo tutti gli altri contendenti italiani. Quel che ci pare interessante notare è che a conquistarsi un posto d’onore nel firmamento alpinistico della seconda metà del secolo furono molte sue coetanee, o di poco più giovani. Tutte insieme formano una nutrita schiera, benché gli storici dell’alpinismo non abbiano voluto accorgersene, cancellandole di fatto dalla storia. Avere l’opportunità di nominarle, qualcuna se non tutte, significa restituire loro l’onore di aver compiuto un’opera dalle valenze molteplici: senz’altro quella di avventurarsi su terreni impervi e pericolosi, mettendo in gioco se stesse in un ambiente estremo; ma sopra ogni altra cosa per la volontà di imporre il proprio ardimento e la propria capacità di giudizio a dispetto delle coercitive convenzioni sociali. È facile andare in montagna quando l’intera comunità acconsente e, anzi, i successi sulle cime diventano la carta del prestigio sociale da giocare nella vita quotidiana. Tutt’altra cosa quando l’orizzonte dell’agire è circoscritto al recinto domestico, dove ha da dipanarsi una vita fatta di pochi e indiscutibili elementi. Così era nella seconda metà dell’Ottocento e così fu almeno fino alla prima guerra mondiale.

Ecco dunque un florilegio di tanti invisibili talenti, di cui è bello scandire i nomi e le date di nascita, come in un rituale di memoria storica. Nello stesso anno del Monte Bianco in rosa, venne al mondo l’inglese Isabella Straton, poi naturalizzata francese e più nota col doppio cognome Charlet-Straton; tredici anni prima, nel 1825, era nata l’americana Meta Brevoort, zia e mentore di quel monumento dell’alpinismo che sarebbe stato William Brevoort Coolidge; nel ’31 Amelia Edwards, autrice di un fortunatissimo libro sulla sua esplorazione delle Dolomiti, Untrodden Peaks and Unfrequented Valleys, mentre nel ’32 e nel ’36 erano nate le sorelle Anna ed Ellen Pigeon; nel 1835 Lucy Walker, futura presidente del Ladies Alpine Club e prima donna a scalare il Cervino; nel ’37 Elizabeth Fox Tuckett, sorella maggiore di Francis Fox Tuckett e apprezzata autrice delle note storie illustrate Zigzagging amongst Dolomites. Aggiungiamo ancora altre fortissime: Margareth Jackson del 1843, Jeanne Immink, l’olandese resa celebre dalle fotografie di Theodor Wundt, dieci anni dopo; Katy Richardson del ’54, con la compagna di cordata Mary Paillon del ’48. Nel 1850, dall’altra parte dell’oceano, a Providence, era nata Annie Peck, prima assoluta sul Huascaran, la cima più alta delle Ande peruviane; del ’59, sempre negli Stati Uniti, era Fanny Bullock Workman, facoltosa esploratrice himalayana che si contese proprio con Peck il primato della quota più alta raggiunta da una donna. Tra il 1855 e il 1859 nacquero anche tre italiane, le sorelle Angelica, Minetta e Annina Grassi di Tolmezzo, la cui impresa più eclatante fu la prima assoluta dell’impegnativo Monte Sernio, sulle defilate Alpi Carniche – il che mise di pessimo umore i signori alpinisti rimasti a bocca asciutta. Una storia esemplare a cui ha dato voce recentemente Melania Lunazzi con lo spettacolo Voglio andare lassù. Il 1859 fu anche l’anno di nascita dell’inglese Beatrice Tomasson, che firmò due prime ascensioni al top: sull’immensa parete sud della Marmolada e sulla Nord-est del Gran Zebrù; mentre dell’ungherese Hermine Tauscher Geduly, altra contemporanea, si sa che compì un alpinismo di alto livello nel ventennio 1860-80. Non possono mancare alcune fuoriclasse che coglieranno i frutti migliori della loro attività a Novecento avviato: Elizabeth Aubrey Le Blond, nata proprio l’anno della vittoriosa salita al Monviso di Alessandra Boarelli, il 1864 (le coincidenze si rinnovano); May Norman-Neruda che nacque nel ’67; le sorelle ungheresi Ilona e Rolanda von Eotvos, nel ‘78 e ’80; stessi anni rispettivamente dell’austriaca Cenzi Sild, che partecipò al tentativo all’Ushba nel Caucaso, e della tedesca Eleonore Noll Hasenclever. E siamo agli sgoccioli del secolo, quando nel ’98 nacque l’americana Miriam O’Brien, citata poc’anzi per la salita del Grépon in cordata con la francese Alice Damesme.

Mi sono attardata in questo elenco perché nominare è di per sé riconoscere, rendere tangibile, dare corpo e vita a un’esistenza. Ma alcune di queste donne meritano più attenzione, e non solo per l’attività svolta in montagna, quanto soprattutto per esser state personalità di notevolissimo rilievo. Una di queste è Eleonore Noll Hasenclever. Emblematico il suo approccio, fin da giovanissima – alla madre che l’aveva sorpresa alla stazione del treno di ritorno dalla montagna, vestita e attrezzata di tutto punto, con una sigaretta tra le labbra, per nulla intimorita si presentava così: «Ich bin eine Bergsteigerin» (io sono un’alpinista)! Eleonore si sarebbe rivelata davvero un’alpinista di primordine, allieva e figlia in spirito della celebre guida svizzera Alexander Burgener, che a un certo punto ammise di non avere più nulla da insegnarle, lanciandola sulle montagne; dove ella si mosse in scioltezza da capocordata, talora anche con sole donne, finché non fu fermata da una slavina al Bishorn nel 1925, diventando così la prima scalatrice morta in montagna. Quel che sappiamo di lei lo dobbiamo all’iniziativa del marito Johannes Noll che, dopo averla sepolta a Zermatt tra gli alpinisti migliori, nel 1937 ne pubblicò i diari e rese possibile conoscere un personaggio altrimenti consegnato all’oblio – una donna vulcanica e affascinante che, nella sua frequentazione delle cime, unì alle capacità tecniche una gran gioia di vivere.

La copertina dell’Illustrateci London News, 1886, ben evidenzia la sensibilità vittoriana per l’alpinismo femminile.

Sembrerebbe dunque che a nord delle Alpi le donne potessero frequentare la montagna in modo abbastanza libero e consapevole. Un utile feedback ci viene dal settimanale tedesco Die Woche, che nel 1901 pubblicò un articolo a firma di Maud Wundt, alpinista e moglie di Theodor Wundt, intitolato Berhümte Bergsteigerinnen (Alpiniste famose), dove l’autrice presentava le migliori scalatrici di area tedesca: ben 27, un numero considerevole! Per noi è interessante l’esistenza di una traduzione italiana di questo articolo, o meglio, di una sua sintesi, che realizzò Edmondo De Amicis. Amante delle villeggiature in montagna, lo scrittore italiano si incuriosì al testo probabilmente dopo aver incontrato i Wundt ai piedi del Cervino. «Strana coppia di sposi», li definì. «Passarono le prime notti della dolce luna nelle rozze capanne delle Alpi, a oltre tremila metri sopra il mare, in mezzo ai ghiacci e alle nevi, dove forse non s’erano mai due creature umane scambiato un bacio d’amore». Non potrebbe esservi maggior contrasto tra la modernità dell’approccio della signora Wundt e i clichés di cui sono intrisi i commenti di De Amicis. La versione dell’articolo proposta dallo scrittore risente in pieno dei pregiudizi che permeano la società italiana, a cominciare dai cosiddetti intellettuali; tanto che egli non resiste a esprimere considerazioni del tipo: «Vi sono certo degli sforzi, come le ascensioni che richiedono due giorni di fatiche continuate, dai quali le donne è bene che si astengano, e che soltanto qualcuna, di fibra eccezionale, può compiere». Oppure, il gustoso consiglio da dare a «signore e signorine nervose di dedicarsi alla montagna, dove troveranno un prosaico appetito e un buon sonno pacificatore, da cui torneranno a casa rifatte anche di spirito». Possibile che De Amicis fosse del tutto all’oscuro delle imprese che da mezzo secolo le alpiniste, in particolare le inglesi, andavano realizzando? Possibile che non avesse udito parlare di quel best seller che aveva indotto molte ragazze a frequentare la montagna e che datava 1859?

Carolina Palazzi Lavaggi: tessera del CAI, 1902.
Carolina Palazzi Lavaggi, trascrizione della conferenza tenuta il 14 aprile 1882.

A Lady’s Tour Round Monte Rosa di Eliza Cole aveva infatti riscosso grande successo tra il pubblico femminile, anche perché non dimenticava di fornire svariati consigli in materia di accessori e abbigliamento. Come per esempio: «Non portate niente che non sia indispensabile. Troppi bagagli vi fanno ritardare la marcia e irritano il resto del gruppo. Portate un cappello a larghe falde che renderà superfluo l’ombrellino da sole; portate anche un vestito di lana leggera che potrà asciugare facilmente. Fissate dei piccoli anelli all’interno delle cuciture della sottana, in modo da farvi passare un cordone per poter rialzare il vestito all’altezza voluta. Portate con voi uno o due plaid scozzesi e una mantellina impermeabile con cappuccio. La cosa più importante di tutte è avere delle solide scarpe ferrate, qualcosa del tipo delle calzature da caccia per uomo». La situazione al di qua delle Alpi restava dunque immobile.

Tant’è vero che ancora nel 1887 Carolina Palazzi Lavaggi aveva tenuto al Club Alpino di Torino un’accorata conferenza sulla necessità dell’esercizio fisico per le donne, soprattutto all’aria aperta e in particolare in montagna. Bisognava ancora insistere, bisognava ripeterlo forte e chiaro: «Perché, o Signori, non si deve incoraggiare la donna a percorrere la montagna? Forse che la costituzione nostra non ci permetta questo esercizio? È vero che per andare per più giorni in montagna v’ha bisogno di non poca energia, tanto fisica che morale, per lottare contro l’assoluta mancanza di comodi, tanto necessari (così si dice) alla più parte delle donne. Ma consideriamo le cose; io invece credo che questo esercizio sia salutare sia fisicamente che moralmente. Non è egli vero, o Signori, che molti mali e molte infermità del nostro sesso, che chiamano debole (ma che io non credo tale), provengono dalla mancanza di esercizio? Non si vedono ogni giorno giovanette languire d’anemia, e fanciulli intisichire, le prime per l’assurdo uso di tenerle troppo imprigionate in casa, ed i secondì per lunghe e continuate ore chiusi in iscuola. Lassù tutti i muscoli, tutte le fibre del corpo sono in moto; la respirazione per la salita si fa più frequente; la circolazione del sangue si accelera; il calore si diffonde sino alle estremità; il sudore gronda; sembra provarsi momentaneamente una sofferenza, ma il formidabile appetito che ne succede, per cui ogni rozzo alimento riesce squisito, dimostra che l’organismo ha vantaggiato. Necessariamente bisogna essere forti per sopportare una lunga fatica, e la forza in generale si nega alle donne. Ma chi oserebbe parlare di debolezza, quando si rifletta che esse hanno pur la forza di sostenere la fatica di tutta una notte di ballo, in mezzo ad una atmosfera viziata, strette in abiti tutt’altro che comodi? Non potranno quindi sostenere e resistere alla fatica delle escursioni alpine allorché esse aspireranno a pieni polmoni l’aria pura e vivificante della montagna?».

Come sappiamo, concedersi il piacere inutile dell’alpinismo richiedeva abbondanti mezzi economici, ma in più le donne dovevano metterci spirito critico, determinazione e volontà ferree, necessarie a reggere la collisione con l’unico ruolo ritenuto valido per il genere femminile, quello biologico della riproduzione, che lì le inchiodava. Tutto ciò che di bello si poteva mettere in opera nella vita – la fantasia, la creatività, l’azione avventurosa – era prerogativa maschile. L’alpinismo, dunque, con i suoi tratti di ardimento, tenuta psichica, fatica, resistenza… che cosa c’entrava mai con le donne? In qualche modo c’entrava, visto che la pratica andava sempre più sconfessando la teoria; ma era comunque consigliabile che quell’attività montanara rimanesse nel vago, nel cono d’ombra di quel che raccontavano i signori uomini. In mancanza di narrazione, però, è come se l’alpinismo le donne non l’avessero mai praticato. Ed è precisamente quel che è accaduto. Dimentichiamoci le autobiografie o i racconti di spedizione e di viaggio firmati da donne che oggi animano gli scaffali delle librerie; all’epoca esse non scrivevano che di rado, certamente non racconti d’alpinismo, e se lo facevano firmavano con pseudonimi, oppure con il nome del marito, del fratello, del nipote. È il caso di Meta Brevoort, che scrisse tra gli altri un gustoso A Day and a Night on Bietschhorn, sull’eccitante ascensione del quasi-Quattromila vallesano compiuta nel 1865, con tanto di bivacco in grotta: la firma è naturalmente di William Coolidge.

C’è anche da dire che quando le alpiniste decidevano di uscire allo scoperto, rendendo pubblico un successo e assumendosi la responsabilità delle proprie affermazioni, non venivano credute. Come accadde alle sorelle Pigeon per la relazione della prima femminile del Colle Sesia, nel 1869. Quel che era avvenuto durante la lunga e impegnativa traversata del Monte Rosa da Zermatt ad Alagna parve inverosimile ai colleghi alpinisti; la guida (Jean Martin, NdR) aveva perso l’orientamento e una delle due sorelle aveva dovuto prendere il comando della cordata; la gita si era complicata e allungata oltre misura ed era stato necessario bivaccare. Poiché il Colle Sesia era stato attraversato una sola volta, nel 1862, da due soci dell’Alpine Club, ed era ritenuto uno degli exploit più temerari delle Alpi, le due sorelle furono chiamate a dimostrare la veridicità delle loro affermazioni; l’Alpine Club condusse delle indagini che si conclusero con la ratifica dell’avvenuta ascensione. In sette anni, ci ricorda la studiosa dell’alpinismo Cicely Williams, Anne e Ellen Pigeon scalarono 63 cime e attraversarono 72 passi. «Erano resistenti e coraggiose; spesso dormivano all’aperto, anche a quote elevate. I loro diari iniziavano sovente con “Dormito fuori al Gabelhorn”, “Dormito fuori al Weisshorn”». Furono loro tra le prime a scrivere delle proprie imprese, tanto che nel 1885, a carriera ormai conclusa e finalmente riconosciute nel loro valore, raccolsero in un volumetto intitolato Peaks and Passes i diari delle ascensioni compiute tra il 1869 e il 1876: sette magici anni di grande alpinismo.

Lucy Walker nel 1871, seduta a fianco del padre Frank Walker. Alle sue spalle: Melchior Anderegg e Adolphus Warburton Moore.

Le donne fecero il loro gioco senza risparmiarsi e puntando in alto anche sulla montagna-calamità dell’epoca, il Cervino; il cui irresistibile fascino era cresciuto man mano che i molteplici tentativi si erano tramutati in una corsa spasmodica. Nonostante la vittoriosa salita degli inglesi, il 14 luglio 1865, fosse stata pagata con la morte di quattro componenti della compagnia di Edward Whymper – e la regina Vittoria avesse messo al bando l’alpinismo – le donne non si scoraggiarono. Solo due mesi dopo il disastro, l’americana Meta Brevoort si presentò a Zermatt in compagnia del nipote, allora un ragazzino malaticcio che doveva essere rimesso in forze. Nei suoi piani bastava farlo appassionare alla montagna (e a posteriori possiamo dire che il risultato ha ben superato le aspettative). Da quel settembre 1865 in avanti, Meta e William collezionarono ascensioni prestigiose, sempre in compagnia della guida svizzera Christian Almer e della cagnetta Tschingel, unico essere vivente di genere femminile ammesso all’Alpine Club di Londra. E se per William quella prima visita al Cervino fece scoccare l’amore per le cime, nella zia Meta fissò l’obiettivo di far sua quella estetica e intrigante montagna. Ma dovettero passare sei anni prima che potesse farvi ritorno, e nel frattempo i suoi intenti erano giunti alle orecchie della fortissima Lucy Walker, la quale, radunata in fretta e furia una compagnia, la precedette a Zermatt tentando subito la cima e portandosi a casa la vittoria. Era il 1871. L’ascensione di Walker fu baciata dalla fortuna, e si narra che l’americana non mancasse di fare “cavallerescamente” i complimenti alla rivale inglese. Nei giorni seguenti, per nulla demoralizzata dallo scacco subito, Meta Brevoort realizzò la prima traversata femminile Zermatt-Breuil, portandosi alla cresta dell’Hörnli e da lì ricollegandosi alla via italiana. Di quegli anni è da ricordare un primo tentativo femminile al Cervino che, se fosse riuscito, avrebbe riportato nei nostri confini la gloria di una prima ascensione firmata da una fanciulla: infatti, nel settembre 1867, la diciottenne di Valtournenche Félicité Carrel fu obbligata a ripiegare per il maltempo a non più di 100 metri dalla vetta. Come riportava il Bollettino del CAI del 1868, Félicité disse di non aver trovato la salita così difficile come aveva temuto, ma certo – precisò – «chi non osa tuffare il proprio sguardo negli abissi senza fondo senza battere ciglio non ci deve andare».

Jean Charlet & Isabella Straton

Dicevamo quindi di Lucy Walker, che senz’altro possiamo considerare la prima a praticare con regolarità e sistematicità l’alpinismo fin da ragazzina, quando ogni estate con la famiglia si dedicava a vere e proprie campagne alpinistiche sulle Alpi. Pionieristica fu l’ascensione “famigliare” del Balmenhorn, il Quattromila del massiccio del Rosa noto per il Cristo delle Vette sulla sommità. Lucy scalava perché le piaceva – e rigorosamente in gonna, anzi, con una voluminosa tunica chiara che s’inzuppava alla prima pioggia diventando uno scafandro pesantissimo. La montagna divenne parte della sua vita e in oltre vent’anni di attività, con la guida svizzera Melchior Anderegg, compì 98 ascensioni, tra cui numerose prime assolute (di cui nelle storie dell’alpinismo non si fa menzione!). Ma fu la vittoriosa salita del Cervino il 20 luglio 1871 a renderla l’eroina della sua generazione. A suggello della sua celebrità rimane la nota incisione di Edward Whymper che ritrae il gruppo dei soci dell’Alpine Club riuniti all’hotel Monte Rosa di Zermatt: in quel consesso solo maschile, Lucy è l’unica donna. Negli anni Settanta altre due inglesi si distinsero in particolar modo, Emmeline Lewis-Lloyd e Isabella Straton. Due fortissime che, per nulla frenate da complessi di inferiorità, misero a segno un’ascensione importante, quella all’Aiguille du Moine, nel cuore del massiccio del Monte Bianco. Com’era in uso all’epoca, la salita fu compiuta con la guida, il chamoniardo Jean Charlet. Se digitiamo Aiguille du Moine su Wikipedia, la prima ascensione è attribuita proprio a lui, il che è per lo meno curioso: se il buon Charlet, infatti, fosse salito con uno qualunque dei tanti alpinisti uomini che scorrazzavano sulle Alpi in quel periodo, il nome del cliente sarebbe riportato per primo; invece compare solo Jean Charlet, con l’aggiunta di Straton: Charlet-Straton.

Un modo per riconoscere il merito anche a Isabella? La storia vuole che quando la cordata femminile si sciolse poiché Emmeline decise che era venuto il tempo di vestire i panni della buona moglie e madre, Isabella, ormai irrimediabilmente stregata dalle montagne, proseguì da sola con Armand Charlet; i due compagni d’avventura divennero anche compagni di vita e si sposarono unendo i rispettivi cognomi in Charlet-Straton, un modo per rimarcare l’uguaglianza del contributo dato da entrambi alle loro imprese. Tra le ascensioni di alto livello compiute nel massiccio, Isabella è nota soprattutto per la prima assoluta invernale della cima del Monte Bianco, su cui salì svariate volte, portandoci anche i figli di 13 e 11 anni.

A raccogliere l’eredità di Lucy Walker arrivò colei che i francesi definirono “l’immortale Miss Richardson”. Quando vide le Alpi per la prima volta, Kathleen Katy Richardson aveva solo sedici anni e se ne innamorò perdutamente. Di aspetto fragile, era in realtà molto resistente e assolutamente instancabile. Una delie sue guide diceva di lei che «non dorme, non mangia e cammina come un diavolo»: tanto per capirci, nell’estate del 1882 rimase in quota un’intera settimana concatenando Zinalrothorn, Weisshorn, Cervino e varie punte del Monte Rosa. In soli dodici anni il suo curriculum riporta 116 ascensioni ritenute “maggiori”, di cui 6 prime assolute e 14 prime femminili. Ne scrisse persine il Morning Post: «La palma del 1888 va a una signora, Miss Richardson, che con Émile Rey e Jean-Baptiste Bich ha salito l’Aiguille de Bionnassay, traversando poi per la cresta est fino al Dôme du Gouter, impresa finora ritenuta impossibile». Compiuta pochi giorni dopo la traversata delle cinque punte dei Grands Charmoz, si affrettò in Delfinato, poiché le era giunta voce che un’alpinista stava progettando l’ascensione della Meije. Ma lì l’attendeva una sorpresa: quell’alpinista era lei. Era stata preceduta dalla sua stessa fama! Si preparò così a compierne la prima femminile, in velocità, com’era nel suo stile: da La Bérarde in giornata. Fu in quell’88 carico di successi, che la forte Katy fece l’incontro della vita con la francese Mary Paillon; da quel momento le due donne scalarono e vissero sempre insieme. Tra le imprese firmate Richardson-Paillon, vi sono la traversata del gruppo di Belledonne nel rigido inverno 1890-91, la Punta Meridionale d’Arves dove, dopo aver rischiato la vita per una pietra che la colpì in testa, Kathleen pare si sia fermata a un passo dalla cima e rivolta a Mary le abbia detto: «lo ho già avuto la Meije, ora l’Aiguille d’Arves tocca a te». Nel ’93 fu la volta della Meije orientale e nel ’97 del Pelvoux, dove esiste anche una Punta Richardson. La loro fu una portentosa cavalcata che si interruppe quando per Mary insorsero problemi alla vista. Da lì in poi la montagna si trasformò nel luogo delle passeggiate insieme e della pittura ad acquerello per Katy, mentre Mary continuò a scrivere e a tenere rapporti con l’ambiente alpinistico.

Considerato che Paillon raggiunse la considerevole età di 98 anni e che fu socia del Ladies Alpine Club, ebbe senz’altro occasione di conoscere Elizabeth Aubrey Le Blond, che di quel sodalizio fu tra le fondatrici nel 1907, nonché prima presidente. Lizzie fu una donna vulcanica, ebbe tre mariti e altrettanti cognomi – ragione per cui, a parte l’impronunciabile Hawkins-Whitshed della famiglia d’origine, la si trova citata come Aubrey Le Blond, Main oppure Burnaby. Proprio dal primo marito, il capitano Fred Burnaby, ebbe il suo unico figlio Harry. Quando iniziò a frequentare la montagna per cercare rimedio a una salute cagionevole, nell’ambiente dell’aristocrazia londinese la presero tutt’altro che bene. È rimasta famosa l’invettiva della prozia Lady Bentinck alla vista della nipote abbronzata al rientro da Chamonix: «Impediscile di scalare le montagne!» tuonò rivolta alla madre di Lizzie, «Sta scandalizzando tutta Londra e sembra un pellerossa». Anni dopo, Elizabeth scriverà invece di avere un grande debito di gratitudine verso le montagne, «che mi hanno permesso di liberarmi dalle catene delle convenzioni sociali». In campo alpinistico fu talmente apprezzata da far parte della commissione d’esame delle guide alpine in Engadina; scrisse numerosi libri, anche di tecnica alpinistica e tutti di successo, organizzò sette spedizioni in Lapponia e Norvegia, dove esplorò le Alpi del Lyngen e salì numerose cime inviolate, di cui si legge in Mountaineering in the Land of the Midnight Sun. Appassionata di sport invernali, realizzò una decina di filmati; ma soprattutto si dedicò alla fotografia, studiando la neve e il ghiaccio con dedizione quasi maniacale. Nelle ascensioni portava sempre con sé la macchina fotografica, ritraendo panorami in quota di cui non esistevano immagini ravvicinate, poi a valle sviluppava e stampava. Facendo leva sulla comune passione per l’alpinismo, riuscì persino a coinvolgere il “maestro” Vittorio Sella in alcune escursioni didattiche. Le sue fotografie fecero il giro del mondo; una tra le più belle fu scattata sul Ghiacciaio dei Forni: l’alta montagna è ingentilita dalla presenza umana di un uomo e una donna che si sporgono sul ciglio di un crepaccio, comunicando un che di immanente e trascendente insieme che ci conquista.

Nel suo rifugio in Engadina, Lizzie strinse amicizia con Conan Doyle e con il pittore Giovanni Segantini. La sua irrefrenabile vitalità la portò anche a intraprendere un viaggio in bicicletta da St. Moritz a Roma, con tutto il bagaglio appresso. Si racconta che, essendo la bici priva di freni, per rallentarla in discesa attaccasse alla ruota posteriore spezzoni di tronchi. Lizzie Le Blond si distinse anche durante la Prima guerra mondiale, organizzando in Francia il British Ambulance Commettee e si adoperò per portare sollievo ai reduci con letture serali e proiezioni di lanterna magica. A guerra conclusa mise in piedi una fondazione per ricostruire la cattedrale di Reims, distrutta dai bombardamenti: un impegno grandioso che le valse la Legion d’onore del governo francese.

A lanciarla nell’empireo dell’alpinismo fu l’attività svolta nei due decenni 1882-1903 che la vide spaziare dal Delfinato al Vallese, dall’Oberland alle Dolomiti: 130 grandi salite, tra cui varie ascensioni al Monte Bianco e sulle Grandes Jorasses, una traversata Zermatt-Breuil con Alexander Burgener, una serie infinita di Quattromila nelle Alpi svizzere, come il Weisshorn salito nel tempo record di 4 ore o lo Zinalrothorn, salito due volte nello stesso giorno. Lizzie nutrì una speciale passione per le invernali, inusuali all’epoca e ancor più per una donna, oltre che faticosissima per le guide, costrette a intagliare con la piccozza centinaia di gradini nel ghiaccio. Ma Lizzie Le Blond è stata una rivoluzionaria anche nella scelta dei compagni, che non di rado erano alpinisti più giovani, meno esperti, a cui lei faceva da guida, e non mancavano le donne: nel 1898, per esempio, guidò Evelyn McDonnel nella traversata del Piz Palù.

Loulou Boulaz al Col d’Argentière, 1951
Bianca di Beaco, a sinistra, e Silvia Metzeltin, due delle massime esponenti dell’alpinismo femminile italiano del dopoguerra.

In omaggio alla sua prima assoluta sulla cima orientale del Bishorn le fu dedicata una Punta Burnaby. «Spesso mi viene chiesto perché si sale una montagna» ebbe a dire. «Ed è una domanda a cui è difficile rispondere in modo soddisfacente. È sempre una battaglia tra la montagna e l’alpinista, e con perseveranza, abilità, esperienza e coraggio si può cogliere una vittoria, anche se la lotta può essere lunga e si possono impiegare anni prima che una cima ti permetta di metterci piede sopra. L’alpinismo come scienza richiede un lungo perfezionamento». Anche se a sud delle Alpi si sa poco di lei, Elizabeth Burnaby Main Aubrey Le Blond fu indubbiamente la più famosa alpinista del suo tempo. Molto scrisse, per riviste inglesi e americane, e molto scrissero di lei. Alla domanda di cosa pensasse della condizione della donna, si dice che con aplomb aristocratico rispose: «Credo debbano avere gli stessi diritti degli uomini. Certo… odio tutte le dimostrazioni rumorose».

Quante le protagoniste di questa Golden Age dell’alpinismo! E quanto dense furono le loro vite, animate da temperamento indipendente, avventuroso, teso alla sfida con se stesse e a godere di quel particolarissimo benessere fatto di gioia, soddisfazione e libertà che dà il salire le montagne, a dispetto della fatica, dell’asprezza del clima e dei pericoli. Ma questo non fu che l’inizio. Perché se facciamo un salto temporale di oltre mezzo secolo, superiamo gli anni Trenta – di cui fu regina la magnifica triade italiana formata da Nini Pietrasanta, Mary Varale e Paula Wiesinger, oltre che la giovanissima ginevrina Loulou Boulaz, che nel 1937 tentò l’allora inviolata parete nord dell’Eiger – e poi ancora la seconda guerra mondiale e gli anni Cinquanta, approdiamo a un anno simbolico, il 1968: anno di sommovimenti socio-culturali che se da un lato registravano nel mondo dell’alpinismo sacche di arretratezza – si pensi al gran rifiuto opposto due anni prima dal Club Alpino Accademico all’ingresso di due alpiniste di vaglia quali Silvia Metzeltin e Bianca di Beaco – per converso proponevano esperienze che si sarebbero rivelate proficue, innovative e durature.

Una di queste è il Rendez-vous Haute Montagne, esempio significativo di quanto possa essere forte la passione per la montagna, al contempo longeva e scevra da quei cliché che vogliono le donne sempre in lotta fra loro. L’RHM è un’associazione internazionale tuttora in ottima salute, che ha sede in Svizzera e che raccoglie alpiniste di ogni parte del mondo. Per capire di che cosa si tratta, dobbiamo tornare al 1968 e spostarci nel cuore delle Alpi svizzere, a Engelberg, dove aveva preso dimora la giornalista Felicitas von Reznicek, spumeggiante baronessa ungherese in fuga dal blocco sovietico. Von Reznicek non capiva granché di montagna, ma trovandosi in uno dei più blasonati milieu alpinistici d’Europa si appassionò a tal punto all’ambiente, che pensò di aiutare le alpiniste rimaste oltre cortina a uscire dal proprio paese organizzando un incontro internazionale al quale invitò le più forti scalatrici del momento. E così accadde a Engelberg nel 1968.

Nessuno avrebbe potuto immaginare che nel 2018, di nuovo a Engelberg, il Rendez-vous Haute Montagne avrebbe acceso su una gigantesca torta a forma di montagna le sue prime 50 candeline, festeggiando con una sessantina di alpiniste provenienti da vari paesi europei, compresa l’Italia, che da tre anni ha la presidenza di turno. È una soddisfazione incommensurabile che l’associazione si sia preservata negli anni, senza mai smettere di rinnovarsi e sempre aderendo allo spirito del tempo. Ogni estate l’RHM organizza un grande raduno di una settimana in una località diversa – Alpi, Pirenei, Tatra, Norvegia, Stati Uniti… – con corollari stagionali di scialpinismo, arrampicata in falesia e su ghiaccio. Certo, agli incontri non partecipano più le stelle del verticale, che oggi vivono di professionismo e casomai vengono invitate a raccontare le loro imprese. Quel che conta davvero è la partecipazione numerosa e costante delle alpiniste “normali”, autosufficienti in parete, in grado tutte di scalare da prime di cordata.

Ecco, per ora fermiamoci qui, a questo snodo cruciale della storia, lasciando a un secondo capitolo l’indagine degli sviluppi che ci porteranno dritti alla contemporaneità, con la rivoluzione dell’arrampicata sportiva e degli Ottomila, dell’ingresso delle donne nel soccorso e nei collegi delle guide alpine… un mondo nuovo e poliedrico, ricco di splendide protagoniste, con luci e (ancora tante) ombre, ma in cui le donne sono libere di seguire la propria passione per la montagna. Ci piace concludere questa prima parte ricorrendo ancora al pensiero di Lizzie Le Blond: «L’entusiasmo della lotta è ciò che rende la vita degna di essere vissuta; e in nessun luogo come la montagna ci si trova nel fitto della mischia, dove mente e corpo, insieme, devono esplicare le loro migliori energie per vincere le opposizioni della natura». Un sentire universale, non certo di genere, che meglio non potrebbe polverizzare i presunti limiti fisiologici e psichici sbandierati nel corso della storia dai detrattori dell’alpinismo femminile.

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Alpiniste invisibili – 1 ultima modifica: 2024-09-20T05:47:00+02:00 da GognaBlog

17 pensieri su “Alpiniste invisibili – 1”

  1. Les tenues vestimentaires font sourire, mais elles étaient bien courageuses ces femmes !

  2. Sono reduce da un weekend di arrampicata a Finale con mia figlia (22 anni). Il bello è che lei è convinta che il più forte tra di noi sia ancora io. Mi ha (piacevolmente) massacrato. E ne sono felice.

  3. @ Giovanni Battista Raffo al 14. L’unica cosa che una donna non può fare è fecondare una donna. L’unica cosa che un uomo non può fare è concepire un figlio. Per tutto il resto è solo questione di volontà e tempo. I risultati non saranno mai uguali.

  4. Ho letto l’articolo con interesse. Quello che mi stupisce di più è che siamo ancora qui a cercare di dimostrare e supportare, con esempi e racconti di esperienze, la parità fra uomini e donne.
    Basta guardarsi intorno quando si pratica alpinismo, ci si arrampica o si scala una falesia: non emergono differenze,  perché non ci sono!

  5. @ 12 Ratman
    Gli antichi ricchi , gli antichi non ricchi si spaccavano la schiena a sfangare il loro campo o ad allevare le loro 4 capre , o a tirare le reti sotto un sole implacabile, fino a quando non morivano verso i 50 anni.

  6. Il più grande genio dell’umanità è stato colui che è riuscito a fare del “lavoro” un valore, quando gli antichi nella loro saggezza lo avevano considerato una punizione per l’infrazione di regole divine.
    Il cancro pervase a tal punto gli animi da far pensare che chi non versava il suo contributo di sangue e sudore al molock del capitalismo non fosse emancipato. E così  nacque il femminismo altra genialità non da poco: lo sfruttamento doveva essere totale, non salvare nessuno, non discriminare nessuno.
     

  7. O le sorelle Durissini , prime salitrici del Sernio nelle Alpi Carniche.
    .
    Io in tenda con le due della foto , sgnacchere o meno , non ci dormo.

  8. Bell’articolo. Una menzione la meriterebbe anche la vicentina Adriana Valdo, alpinista di tutto rispetto. Ma forse l’autrice ne parlerà in altro contributo.
    renzo Bragantini

  9. quelle ragazze sono due  “belle sgnacchere” in Toscana è un complimento molto usato,  dal significato evidente piuttosto facile da capire, non proprio elegante, ma che non lascia spazio a dubbi.

  10. Per il significato di bella sgnacchera, domandare a qualche toscano

    Intuibile anche per un veneto: è una sineddoche.

  11. Secondo le fotografie, che però la ritraggono non piú a vent’anni, Beatrice Tomasson aveva l’aspetto di un sergente prussiano e me la immagino di carattere burbero e autoritario.
    Corre voce – secondo certuni, per es. Dante Colli – che fosse addirittura un’informatrice al servizio dei tedeschi. Sarà vero? Se mancano prove o almeno qualche indizio, non ci credo.
    Quando tentò per la prima volta la parete sud della Marmolada (1900), la sua guida, Luigi Rizzi, scalò in solitaria la serie di fessure a sinistra dell’itinerario che ora è la via normale, fino alla prima terrazza. L’anno successivo lei riprovò con Michele  Bettega e Bortolo Zagonel, ma si ritiene che non li avesse informati del tentativo precedente. Perché? Mah! Forse voleva metterli alla prova. Se fu davvero cosí, si comportò da furbacchiona. Ma è passato tanto tempo e sappiamo cosí poco che sono soltanto congetture.
    Matteo, da allora è passata tanta acqua sotto i ponti! Un altro tempo e un altro mondo.
    … … …
    Delle baronessine una volta vidi la fotografia di una delle due, ma non ne ricordo le fattezze. Erano davvero due belle sgnacchere?
    P.S. Per il significato di bella sgnacchera, domandare a qualche toscano, per esempio ad Alberto. La parola si usa a volte anche in Emilia. Non so a Milano, però è facile indovinare che significa.
    😀 😀 😀

  12. Avete notato le belle ragazze, piene di grazia, che giravano in montagna nel 1909? Altro che Climbingporn o Climbingprn!
     
    P.S. Oddio, che ho scritto? Commento maschilista? Perdono!

  13. Un articolo meraviglioso.
    Oltre alla fatica reale, fisica e tangibile delle ascensioni e lunghi avvicinamenti, e la fatica morale e psicologica delle avversitá climatiche, queste donne hanno dovuto sempre e comunque liberarsi la mente dal bagaglio mentale di tutte le parole contrarie e svilenti degli uomini, che le hanno sempre sminuite. 
    E purtroppo lo devono fare anche oggi, quando leggo con orrore di uomini (sempre uomini) che “invitano alla prudenza” o “sconsigliano alle gravide” ascensioni, escursioni, o alpinismo. Un bel tacere di questi signori lo stiamo attendendo da centinaia di anni. 
    Ho riso molto al passaggio in cui i maschi locali, defraudati della “loro” ascensione, hanno deciso collettivamente di non salire “mai piú” quella montagna da quella via. Mai esempio fu piú lampante di una certa mascolinitá vile, vigliacca e fragile. 

  14. Grazie a Linda Cottino per questo tentativo di fare giustizia, dando a queste coraggiose “apripista” un po’ del risalto che meritano. Linda mette in luce anche le ostilità che suscitavano. Le piccole gelosie di chi voleva solo per sé la qualifica di alpinista, e non consceva l’apostrofo; e il rigetto dell’alpinismo femminile da poarte di chi voleva le donne solo accuditrici…

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