Alpiniste invisibili – 2

Alpiniste invisibili – 2
di Linda Cottino
(pubblicato su Annuario del CAAI, 2023-2024)

È una sera di fine maggio 2023. Scongiurata la pioggia, la piccola “capitale alpinistica delle Alpi Marittime”, Sant’Anna di Valdieri, accoglie il pubblico che giunge alla spicciolata. Quando cala il buio l’arena è gremita, e sul palco c’è Tamara Lunger. Le sue parole si fanno strada nel silenzio e scolpiscono il racconto della sua ultima esperienza d’alta quota al K2, una spedizione drammatica. Noi tutti, 11, sediamo immobili sotto un cielo scuro, trattenendo il respiro e l’emozione; forse cerchiamo di afferrare un senso, quello dell’umano in un confronto con la natura che può diventare feroce, sovrumano. Intuiamo anche, però, che se siamo capaci di ascolto e di resilienza, partecipare di una porzione di assoluto è possibile, e allora torniamo a noi stessi e ritroviamo il senso dell’umano. Il segreto è tutto qui. Non semplice. Quel che invece è semplice, alla fine di questa serata, è sentire di aver ricevuto in dono qualcosa – non l’intrattenimento farcito di epica della prestazione, tra conquiste e fallimenti, diatribe e conflitti, ma una ricerca sincera di comprensione. Un dono raro.

Mi piace rievocare questo evento per riprendere il filo del discorso sull’alpinismo delle donne (vedi Annuario CAAI 2021), ben consapevole che passare dall’800 al ‘900 – com’è il compito di questa rassegna – dà le vertigini per la quantità di forti alpiniste che nel XX secolo iniziano a percorrere la montagna: non più una manciata di pioniere, bensì generazioni di donne che praticano la disciplina ai massimi livelli – dall’alpinismo, alta quota compresa, allo scialpinismo e, soprattutto, all’arrampicata sportiva, in falesia come in gara. Qui ci limiteremo a una porzione di ‘900, fino agli anni ’80, quando il gap tra prestazioni maschili e femminili inizia ad assottigliarsi fino quasi a scomparire del tutto con il nuovo millennio. La storia dell’alpinismo andrebbe riscritta, e rivista la cronologia, inserendo le donne là dove ha senso che compaiano; così il quadro sarebbe esauriente e ragionato. Soprattutto ragionato, perché se gli uomini da sempre vanno in montagna punto e basta, le donne devono (tuttora) attraversare territori complessi e accidentati prima di giungere alle pareti – se vogliamo stare in metafora. E benché a un primo sguardo tutto oggi sembri semplice e scontato, la cultura patriarcale non molla la presa, anche se imbellettata di politically correct.

Proviamo a tracciare un quadro, che non sarà certo esauriente, ma può aiutare a cogliere i passaggi fondamentali attraverso le protagoniste di maggior spicco. E lo facciamo partendo da una data, il 1929. Scrive Micheline Morin nel suo Encordées: «Alice, che condusse su tutti i passaggi difficili in quanto Miriam non sì sentiva in forma, mi confidò che durante tutta l’ascensione non si era mai trovata in difficoltà, salvo alla partenza della fessura Mummery, poiché il suo piede era troppo piccolo e non riusciva a incastrarlo». Nell’estate di quell’anno, un’ascensione considerata di alta difficoltà – la traversata del Grépon, nel Monte Bianco – fu realizzata da una cordata solo femminile composta dalla francese Alice Damesme e dall’americana Miriam O’Brien Underhill, che già l’aveva compiuta in cordata mista l’anno prima. Chiunque si diletti in storia dell’alpinismo sa che lo stesso Mummery aveva proclamato che un’ascensione ritenuta inizialmente impossibile, una volta compiuta retrocedeva a difficile; quando poi l’avesse realizzata anche una donna non sarebbe stata più che “una facile escursione per signore“.

Difatti, dopo l’exploit di Damesme-O’Brien, il socio del CAF Étienne Bruhl sentenziò che ormai il Grépon era scomparso e che nessun alpinista dotato di un minimo di orgoglio avrebbe potuto esimersi dall’affrontarlo. Evviva il fair play!

Questa data, il 1929, è particolarmente significativa per un altro fatto, che esula dal contesto alpinistico della nostra indagine; fu l’anno in cui Virginia Woolf pubblicò il saggio Una stanza tutta per sé. LI la scrittrice analizzava il contributo delle donne nell’ambito della letteratura inglese e faceva alcune considerazioni sulle ragioni della loro sostanziale inesistenza. Se già il titolo parla chiaro – a una donna basterebbe disporre di una stanza dove concentrarsi e dedicare del tempo a occupazioni decise solo da lei e per sé stessa – più interessante è l’argomentazione. Scriveva infatti Woolf che, se da un lato gli uomini, per secoli, hanno detto sulla donna di tutto e di più, e di diverso l’uno dall’altro, arrivando persino a chiedersi se avesse un’anima e se potesse essere educata, rendendola però al contempo dominatrice della vita dei re e facendone nell’immaginario una figura ideale, per converso, nella vita quotidiana, l’hanno assoggettata e resa schiava di un ordine arbitrario e strutturato a proprio esclusivo vantaggio. Ebbene, una volta che la femminilità abbia smesso di essere un’occupazione da specie protetta, che cosa può accadere? Se le donne, proseguiva Woolf, escono da questa condizione di “specchi magici” – oltre che di povertà materiale in cui sono state impacchettate e infiocchettate – e si conquistano, per scrivere, almeno “una stanza tutta per sé”, allora riusciranno a dar voce alla propria intelligenza, ai propri sentimenti, alle proprie aspirazioni… e qualcosa realmente cambierà.

Josune Bereziartu in arrampicata

Parafrasando il titolo del saggio, poter avere “una parete tutta per sé”, come fecero Alice Damesme e Miriam O’Brien, segnò per le alpiniste un passaggio importante nell’acquisire fiducia nei propri mezzi e progettualità; fatto che nei primi decenni del secolo scorso rappresentava una novità assoluta (non dimentichiamo che le donne al tempo potevano esercitare diritto di voto solo in Germania, Stati Uniti e Inghilterra). E se in montagna alcune delle loro progenitrici – penso in particolare alle sorelle Pigeon e Grassi – già facevano cordata femminile, in quel caso la scelta era obbligata e non, come fu per Damesme e O’Brien, meditata e ricercata per esprimere la propria indipendenza e autodeterminazione.

Tenendoci alla suggestione della “parete tutta per sé”, vi propongo un salto temporale a oltre mezzo secolo dopo, per una data altrettanto significativa: nel 1993 la statunitense Lynn Hill salì in libera una delle vie più lunghe e impegnative del mondo: la via del Nose al Capitan, in Yosemite. Un’impresa assoluta, che nessuno aveva realizzato prima di lei. Né uomo, né donna. Un’impresa che resistette 11 anni prima di essere ripetuta. L’anno seguente Mili si sarebbe ancora migliorata: ripercorse la via, sempre in libera, in meno di 24 ore. Un punto di svolta. E se oggi abbiamo negli occhi le prodezze in free solo di Alex Honnold, trent’anni fa questa salita azzerò in un colpo la distanza accumulata tra uomini e donne nella storia dell’alpinismo. Possiamo dire, senza tema di smentite, che un risultato così eclatante consacra da solo il senso dell’andare in montagna delle donne e sigla al tempo stesso l’atto finale di una lunga e profonda separatezza. A riprova di questa progressione, nel 2006, la prima edizione dell’Arco Rock Legends, una sorta di Oscar dell’arrampicata mondiale con in palio un premio per la roccia e uno per la plastica, se l’aggiudicarono rispettivamente la basca Josune Bereziartu e l’austriaca Angela Eiter, due donne che seppero imporsi nel panorama internazionale della disciplina, sia maschile che femminile.

Passaggi di tempo
Ma che cosa è accaduto tra il tempo del Grépon e il terzo millennio? Innanzitutto, è da rimarcare che tra Prima e Seconda guerra mondiale cresce il numero di donne che scalano “da alpiniste”, con piglio sportivo, convinzione e continuità. Le inglesi, sempre un passo avanti, fondano nel 1921 il Pinnacle Club (il primo secolo di vita è stato celebrato in grande spolvero e con un film), per dare alle alpiniste la possibilità di allenarsi tra loro e scalare da capocordata, trovando in libertà la propria misura. L’idea fu di Pat Kelly, che già arrampicava e faceva parte col marito del Fell and Rock Climbing Club; ritenendolo però troppo male-oriented, creò l’alternativa.

Nel medesimo decennio, precisamente nel 1926, venne realizzata un’impresa rimasta forse un po’ nell’ombra, ma che risolse uno dei maggiori problemi alpinistici dell’epoca: i mille metri della parete nord dello Špik, una mastodontica piramide calcarea nelle Alpi Giulie su cui si era misurata già la guida cortinese Angelo Dibona con la cliente Anna Escher, fallendo nel tentativo di tracciare una linea diretta nella difficile parte alta. Vi riuscì invece da capocordata, con il suo secondo Stane Tominšek, la ventiduenne jugoslava Mira Marko Debelak, vera fuoriclasse e riferimento per le Alpi dell’Est, nonché prima donna a far parte del club accademico austriaco. Mira Debelak fu anche brillante conferenziera e autrice di numerosi articoli e di un manuale di tecnica alpinistica.

Mary Varale scende in doppia sul Campanile Basso, 1929

Nel primo capitolo di questa storia (Annuario CAAI 2021) avevamo citato l’eccezionale triade formata da Mary Varale, Ninì Pietrasanta e Paula Wiesinger, le prime italiane a eccellere nel panorama alpinistico femminile, tutte e tre ottime scalatrici, perfettamente in grado di guidare la cordata. Wiesinger era un’atleta completa, caposcuola dello sci femminile azzurro, ottima rocciatrice e dotata di resistenza non comune, spesso accompagnava il marito, la guida alpina Hans Steger, nelle uscite con i clienti, facendo sostanzialmente da seconda guida; con lui aprì numerose vie in Dolomiti (su Torre Winkler, Catinaccio, Punta Emma, Cima Una…) e insieme realizzarono l’ottava ripetizione della via Solleder in Civetta. La milanese Pietrasanta, oltre alle doti alpinistiche espresse nelle grandi ascensioni compiute con il compagno Gabriele Boccalatte e che nel 1937 le valsero la medaglia d’argento al valore atletico – citiamo per tutte l’Aiguille Noire de Peutérey per la parete ovest, la Est dell’Aiguille de la Brenva, la Sud-ovest dell’Aiguille Blanche de Peutérey e il Pilastro est-nord-est del Mont Blanc du Tacul – era donna intellettualmente vivace, tanto che fu la prima italiana a scrivere un libro sulle sue avventure (Pellegrina delle Alpi, Vallardi 1935) e a portare con sé in montagna la cinepresa, realizzando alcuni documenti filmati di estremo interesse. La terza fu la grande Mary Varale, donna di spiccata personalità, che non solo firmò prime ascensioni di alto livello (due per tutte, lo Spigolo Giallo alla Cima Piccola di Lavaredo con Emilio Comici e Renato Zanutti nel 1933 e la Sud-ovest al Cimon della Pala con Alvise Andrich e Furio Bianche! l’anno dopo), ma fu anche sapiente tessitrice di relazioni tra i grandi dell’epoca: è noto il contatto che favorì tra i lecchesi della Grigna con Riccardo Cassin e l’ambiente triestino-dolomitico con Comici. La “Mary dal giubbetto rosso”, come veniva chiamata, è nota anche per la lettera di dimissioni con cui nel 1935 lasciò il Centro Alpinistico Italiano fascista, polemizzando per l’assegnazione delle medaglie al valore atletico, che riteneva penalizzassero i giovani e fortissimi scalatori dolomitici.

Mary Varale con Emilio Comici (a sinistra), in Grigna, 1933.
Loulou Boulaz campionessa di sci alpino

A mettersi in luce ancora nello scorcio di tempo che separa le due guerre mondiali fu la ginevrina Loulou Boulaz (1912-1991). Protagonista di spicco dell’alpinismo classico novecentesco, fin da giovanissima fu donna di grandi visioni e grandi ideali sociali a cui dedicò tutta la carriera professionale, una militanza politica che la portò a lavorare al Bureau International du Travail e a cui non derogò mai – si narra della sua partecipazione a un corteo di lavoratori in sciopero mentre si trovava a Trento per il Filmfestival! È certo che se “la rossa” Boulaz fosse stata un uomo, il suo nome non mancherebbe di avere il lustro che merita nella storia dell’alpinismo, anziché comparire per lo più come seconda di Raymond Lambert. In un suo ricordo pubblicato dalla «Rivista della montagna» all’indomani della morte, Silvia Metzeltin scrisse che Loulou Boulaz «è stata protagonista di un alpinismo tout-court ai massimi livelli sportivi di un’epoca, in autonomia di iniziative e realizzazioni. Penso che la marcia in più di Boulaz avesse le sue radici nella concezione sportiva dichiarata e nella consapevolezza politica. Il suo femminismo era battagliero e non ha mai pianto – pur riconoscendoli e combattendoli – sugli inevitabili handicap delle donne: si era inserita di slancio, con tutte le sue forze e tutta la sua intelligenza, nella competizione sportiva, come nella vita professionale». Fin dagli esordi, infatti, contribuì alla risoluzione dei cosiddetti “grandi problemi delle Alpi” e partecipò all’accesa competizione per le conquiste nel massiccio del Monte Bianco. Fu anche discesista di successo nella squadra nazionale elvetica di sci alpino, proprio negli anni in cui per l’Italia gareggiava Paula Wiesinger. In alpinismo, tra le sue imprese maggiori ricordiamo la sfida che la portò per ben tre volte a misurarsi con la parete nord dell’Eiger (1937, 1960, 1962) e che le lasciò il rammarico di non avercela fatta: il suo primo tentativo, condotto un anno prima che Heckmair e compagni riuscissero nell’impresa, dà l’idea della forza degli obiettivi che Boulaz si poneva. C’è una bella foto che la ritrae, anni dopo, proprio con Heckmair e Riccardo Cassin. Ad attrarla fu anche il ghiaccio – tra le tante, ricordiamo la terza salita alla cima del Monte Bianco per la via della Poire, la Sentinella Rossa con Pierre Bonnant nel 1934, la Brenva e, con Raymond Lambert, il 2 luglio 1935, la seconda ripetizione della Nord delle Jorasses, compiuta insieme alla cordata italiana di Giusto Gervasutti e Renato Chabod (uscita dalla via appena un passo avanti), a neanche 24 ore dalla prima dei tedeschi Rudolf Peters e Martin Meier. Dopo la guerra arrampicò spesso in cordata con Lucie Durand e poi insieme a Yvette Vaucher, con cui salì la Cassin al Pizzo Badile e, con in più il marito di lei Michel, ritentò nel 1962 la Nord dell’Eiger. Nel 1959 partecipò alla sfortunata spedizione femminile al Cho Oyu organizzata dalla francese Claude Kogan, dove la stessa Kogan perse la vita e lei ebbe problemi di acclimatamento. Boulaz, sempre attratta dalle grandi classiche, scalò anche la via di Comici allo Jalovec nelle Alpi Giulie e nel 1977 partì con Silvia Metzeltin e Gino Buscaini per il Sahara, dove una Tour Loulou è lì a serbarne il ricordo.

Loulou Boulaz con Silvia Metzeltin sulle pareti dell’Air, in Niger

L’energia del dopoguerra
Sono anni in cui l’ambiente transalpino esprime grandi talenti. Abbiamo accennato a Claude Kogan (1919-1959), che negli anni ’50 fu stella di prima grandezza, «la più famosa alpinista del dopoguerra», ebbe a definirla Reinhold Messner; mentre Charlie Buffet, suo biografo con Première de cordée, scrive che «ogni estate, lasciando per tre mesi il suo atelier di confezioni di costumi da bagno, partiva all’avventura verso le grandi cime inesplorate della Terra. Ogni autunno rientrava a Orly con un bagaglio di belle prime ascensioni. Una volta soltanto rinunciò, nel 1954 al Cho Oyu, ma quel fallimento la rese celebre: raggiungendo i 7700 metri di quota era diventata “la donna più alta del mondo“».

Claude Kogan durante la spedizione al Cho Oyu, 1959

Dalle Alpi all’Himalaya, furono tante le sue spedizioni dopo la morte del marito George, con cui oltre alle montagne aveva condiviso la Resistenza a Nizza. Purtroppo, annota amaramente Buffet, «dopo la morte, nel 1959, il suo nome è stato dimenticato. Non aderiva ai canoni. E il suo successo aveva destabilizzato certi alpinisti, i macho, i masochisti, quanti avevano dimenticato l’inutilità della loro passione. La sua morte rimetteva le cose al loro posto».

Jeanne Franco, nella medesima spedizione al Cho Oyu in Nepal, 1959

Alla stessa generazione di Boulaz e Kogan apparteneva Jeanne Franco (1919-2007), loro compagna anche nella spedizione al Cho Oyu. Moglie della nota guida alpina e fondatore dell’Ensa Jean Franco, con cui aveva realizzato nel 1944 la prima al Pilastro sud della Barre des Écrins, aveva conosciuto Claude durante la Resistenza, quando in un capanno di Ailefroide aveva nascosto il marito di lei George Kogan, ricercato perché ebreo. Al Cho Oyu, la morte di Claude sotto la valanga la segnò al punto da indurla a rinunciare alla vetta nonostante si sentisse in forma. Di là dal curriculum alpinistico di alto livello, che le aveva aperto le porte dell’elitario GHM, Jeanne Franco fu per almeno vent’anni un imprescindibile riferimento del mondo alpinistico che convergeva a Chamonix, nella sua casa del Lyrure. Prendiamo ancora in prestito le parole di Silvia Metzeltin, che in pagine di grande intensità ritrae quel crocevia ricco di scambi e di stimoli, anche tra generazioni diverse: «Sono avvenuti al Lyrure, grazie alla mediazione di Jeanne, incontri “storici”, come la riappacificazione tra Loulou Boulaz e Lucien Devies dopo i lontani (1938!) malintesi conseguenti alla scalata della parete nord delle Grandes Jorasses» ricorda Metzeltin, che offre nei suoi scritti un affresco della straordinaria varietà dell’universo femminile che vi gravitava, intriso di un «femminismo implicito, che traspariva dalle mille sottigliezze, già in quella solidarietà di ascolto e discussione che era il collante tra modi diversi di intendere e praticare l’alpinismo».

Ivette Vaucher

Più giovani, seguirono fuoriclasse come Yvette Vaucher (1929-2023), da poco scomparsa, di cui sono da annotare almeno la Nord del Cervino salita lungo la via Schmid nel 1965 per i 100 anni dalla conquista e la Nord della Dent Blanche, entrambe in prima femminile, nonché la partecipazione a una spedizione internazionale all’Everest nel 1971. Per coglierne appieno lo spirito, ricordiamo che è stata anche la prima donna paracadutista della Svizzera e una BASE-jumper ante litteram, con all’attivo un centinaio di discese in volo dalle cime. Dopo esser stata esclusa a lungo dal CAS, il Club alpino svizzero, ne fu ammessa come socia onoraria nel 1979 e fino alla fine si dedicò alla promozione dell’alpinismo giovanile e della cultura. Almeno una citazione va a Christine de Colombel (1943), scrittrice oltre che alpinista e himalaista, che nel 1982 partecipò alla spedizione organizzata da Wanda Rutkiewicz al K2 e la documentò nel libro Voix de femmes au K2; a Isabelle Agresti, che in coppia con il marito Henry si dedicò a numerose spedizioni extraeuropee (Hindu Kush, Hoggar, Niger, Alaska); e infine Simone Badier (1936-2022), docente di fisica all’Università di Parigi e alpinista dal curriculum eccelso, che la colloca nella ristretta cerchia dei migliori scalatori. Per lo più da capocordata, con compagni sovente meno bravi di lei, Badier ha scalato sulle Alpi, in Dolomiti e sulle montagne del mondo (Kenya, Hoggar, Mali, Camerun, Karakorum…), sempre su vie di ingaggio estremo, e capace di salirne una dopo l’altra, come quando nel 1969 fece la Andrich-Faè alla Punta Civetta e il giorno dopo era sulla Philipp-Flamm; tra le tante ricordiamo la via Bonatti al Capucin, lo Sperone Walker, il Pilone Centrale del Frêney, la Hemming-Robbins al Petit Dru, l’Americana all’Aiguille du Fou, ripetuta nel 1963 quando era tra le più difficili dell’epoca. Con Jean-Claude Droyer salì poi il Nose nel 1976 e, attiva ancora negli anni ’90, aprì nuovi itinerari sul Monte Bianco con Romain Vogler e Jean-Luc Amstutz. Simone Badier non cercava la notorietà e non smise di considerarsi una dilettante che in montagna ha imparato ad amare la vita: «Le gioie che ho vissuto lì, non le ho percepite da nessuna altra parte». Per fortuna, questa straordinaria “donna di picche” ci ha lasciato una bella (e necessaria) autobiografia, La dame de pic (Éditions Guérin, 2008).

Helma Schimke al Fleischbank, Wilden Kaiser, 1961

Negli anni ’50, con la pace ritrovata e l’alpinismo che può tornare a fiorire, non vi sono soltanto le francesi in azione. La svizzera-tedesca Gaby Steiger, ad esempio, costituì una forte cordata in coppia con il marito, insieme al quale aprì numerose vie sui Churfirsten e nel Rätikon, itinerari tuttora di riferimento. Ma soprattutto voglio ricordare qui Helma Schimke (1926-2018), che per maestri ebbe la crème dell’alpinismo austriaco del tempo – due nomi per tutti: Hermann Buhl e Franz Wintersteller – e fu la prima alpinista europea (inglesi a parte) a far sentire la sua voce scrivendo un’autobiografia, Auf steilen Wegen, che uscì nel 1961 e fu un libro di successo, in cui prendevano corpo le sue ascensioni di alto profilo – per tutte, la Ovest della Noire e la Brenva nel massiccio del Monte Bianco, la Nord-est del Pizzo Badile, la Est del Rosa -questa, in particolare, simbolo per lei di autonomia alpinistica, sulle orme di Eleonore Noll Hasenclever, la forte alpinista tedesca morta sotto una valanga nel 1925 al Bishorn, suo modello di riferimento.

Purtroppo, i giorni grandi di Schimke s’interruppero bruscamente quando, alla vigilia della partenza per il Nanga Parbat, una slavina travolse il marito. Tre figli da crescere la costrinsero a dedicarsi in toto alla professione di architetto (tra i suoi clienti anche Riccardo Muti), e la montagna rimase sullo sfondo, meta di sporadiche fughe, peraltro taciute per non urtare il perbenismo dell’Austria conservatrice. Ma un po’ come il Lyrure di Jeanne Franco a Chamonix, la sua casa di Salisburgo divenne un punto di incontro e di accoglienza per tanti che frequentavano la montagna, e non solo da alpinisti; come Christl Haas, l’allora popolarissima discesista, oro alle Olimpiadi invernali di Innsbruck 1964. Tra le ultime soddisfazioni, vi fu il viaggio con Silvia Metzeltin e Gino Buscaini in Alaska, sulle poco note Kichatna Spires, e un trekking per andare a vedere quel Nanga Parbat su cui non poté decollare la sua carriera di himalaista.

Gwen Moffat. Foto: Johnnie R. Lees / courtesy The Pinnacle Club.

Un altro personaggio che negli anni ’50 emerse per la caratura di rocciatrice è Gwen Moffat (1924). Affiliata al Pinnacle Club fin da giovanissima, fu la prima donna nel Regno Unito a divenire guida alpina nel 1953. Ma oltre le pareti, quel che ha sempre attratto irresistibilmente Moffat è la natura selvaggia, tanto che a partire dagli anni 70, per almeno due decenni, si è dedicata all’esplorazione della grande wilderness americana. Il suo poliedrico talento l’ha portata a mietere successi anche nella narrativa, e non solo per libri a soggetto montagna – tra cui ricordiamo il best seller Space below my feet (1961) – ma per un’apprezzata serie di gialli. Se nell’Europa continentale Moffat è conosciuta per lo più dai cultori, oltre Manica è un personaggio di riferimento, a cui nel 2015 è stato dedicato il cortometraggio Operation Moffat, di Claire Carter e Jen Randall, che ha fatto man bassa di premi in numerosi festival internazionali. Oggi quasi centenaria, continua a scrivere articoli per riviste di montagna e racconti gialli, e il suo Space below my feet rimane fonte di ispirazione per le nuove generazioni.

I ruggenti Sessanta
Torniamo in Italia, dove ancora resiste un clima sfavorevole alle donne in alpinismo. Ne è lampante dimostrazione l’assemblea di Verona del 16 ottobre 1966, durante la quale il Club Alpino Accademico respinge le prime candidature presentate da alpiniste: a chiedere l’ammissione all’elitario sodalizio sono Silvia Metzeltin e Bianca Di Beaco, entrambe con un carnet di salite e nuove vie di valore assoluto. La bocciatura, si disse, non era diretta contro le persone Metzeltin e Di Beaco, bensì contro l’idea che potessero esistere donne “Accademiche”. Massimo Mila, il noto musicologo, membro del CAAI (alpinista di valore equipollente se non minore di Metzeltin/Di Beaco, NdA), giustamente se ne rammaricava, scrivendo che «l’Associazione è fermamente decisa a non tenere conto del costume civile, della democrazia e del progresso, e a marciare controcorrente sia nel mondo contemporaneo, sia in seno al Club Alpino Italiano» che, come sappiamo, non faceva discriminazioni tra i sessi. Fu infatti solo grazie al confluire dell’Accademico nel CAI, che le donne ebbero poi accesso.

Una giovanissima Bianca Di Beaco

Ma diciamo di Bianca Di Beaco, la scalatrice triestina di cui le edizioni del Club Alpino hanno pubblicato una raccolta di scritti che, per un soffio, lei non fece in tempo a gustare. Il titolo che aveva scelto, Non sono un’alpinista, è emblematico del suo approccio di assoluto understatement, quasi paradossale pensando ai decenni di attività esplorativa, anche extraeuropea, che la videro protagonista, sempre pronta a celebrare la grande passione per la montagna (c’è anche la sua firma sulle Tesi di Biella del 1987, atto di fondazione di Mountain Wilderness) e l’interesse per l’incontro con altre culture. Un titolo che la dice lunga anche sulla ritrosia, tutta femminile, nel riconoscere i propri meriti, dando il giusto peso ai successi e all’ambizione necessaria per perseguirli; il che, voglio precisare, ha reso sovente molto difficile ricostruire una storia attendibile delle imprese delle donne in alpinismo. Per un ritratto esauriente di Bianca Di Beaco (1934-2018) dovremmo disporre di tutto lo spazio che lei merita, così rimando al bel ricordo di Silvana Rovis che compare sull’Annuario del CAAI del 2019.

Anche di Silvia Metzeltin ci sarebbe tanto da scrivere. lo, che ho la fortuna di intrecciare con lei uno scambio continuo di idee, debbo limitarmi qui a una breve istantanea, nella speranza di restituirne a chi legge i tratti essenziali.

Gino Buscaini e Silvia Metzeltin

Personaggio unico nella storia dell’alpinismo contemporaneo, non solo italiano, per la sua poliedricità in quanto alpinista, esploratrice, geologa e docente universitaria, scrittrice e autrice di programmi per la radio svizzera, Metzeltin è stata capace di uscire dagli angusti recinti dell’alpinismo e di spaziare dalle scienze della terra alla botanica, fino alla filosofia; ma è impegnata sempre anche nelle istituzioni del CAI, in particolare all’DIAA (ove il suo multilinguismo era prezioso), e a lungo portò il suo contributo al TrentoFilmfestival. Da alpinista, con il marito Gino Buscaini, in cordata di “coppia felice”, come ama precisare lei, ha compiuto più di 1300 ascensioni in tutto il mondo, molte delle quali a comando alternato o da capocordata. Anche in cordata femminile ha realizzato alcune belle ascensioni, soprattutto con Tona Sironi a cavallo degli anni ’50-’60. Nel 1968 è stata tra le fondatrici del Rendez-vous Haute Montagne (vedi Annuario CAAI 2021), l’associazione che riunisce alpiniste di tutto il mondo e che nel 2018 ha festeggiato i suoi primi 50 anni.

Metzeltin è una delle poche alpiniste che ha sentito l’importanza della scrittura e l’ha praticata ininterrottamente con articoli, saggi, ritratti, nonché alcuni libri fondamentali, sia per chi ama l’esplorazione e l’avventura in montagna, sia per chi vive l’alpinismo come disciplina che va oltre la pura pratica e apre alla riflessione culturale: «La concezione di arricchimento intellettuale spinge ad allargare i confini dell’alpinismo più che la concezione puramente sportiva» ebbe a sottolineare in un’intervista per la Rivista della Montagna. Tra le pubblicazioni, oltre al classico Patagonia. Terra magica per viaggiatori e alpinisti (Corbaccio, 1998), firmato con Gino Buscaini, con cui già aveva scritto Le Dolomiti occidentali (Zanichelli, 1988), sono suoi Alpinismo a tempo pieno (Dall’Oglio, 1984), Polvere nelle scarpe. Storie di Patagonia (Corbaccio, 2002), In tanta malora patagonica. Tierras de olvido (Fondazione Giovanni Angelini, 2013) e il recente L’alpinismo è tutto un mondo (Edizioni CAI, 2021; Premio Gambrinus 2022), in cui attraverso gli scritti sulle donne che hanno punteggiato la sua vita di esploratrice tra le montagne si delinea uno spaccato vivente del grande alpinismo della seconda metà del ‘900.

Dei suoi giorni grandi è imprescindibile la Nord dell’Agnèr, salita con Buscaini lungo la via Jori, dove i due furono colti da pioggia e bufere che li costrinsero a un bivacco forzato di ben cinque giorni da cui uscirono allo stremo delle forze. È impossibile essere qui esaurienti sulle ascensioni, prime e ripetizioni, di una lunga carriera che l’ha portata dalle Alpi ai monti del Sahara fino alla Turchia, all’Iran, al Pakistan, all’India. Ma soprattutto in Patagonia, sua terra del cuore, dove per trent’anni non ha smesso di recarsi alla ricerca dell’avventura e dove ha costruito solide amicizie tuttora vive e vissute.

Vorrei cogliere l’occasione che mi è data da questo scritto per sottolineare, di là dal valore oggettivo del suo “fare alpinistico”, il contributo critico che Silvia Metzeltin ha offerto, e continua a offrire, con le sue riflessioni sulle donne in alpinismo. Nell’appendice a Donne in cordata di Cicely Williams, uscito nella storica collana Exploit di Dall’Oglio (1978), dove si trattava di integrare il volume con aggiornamenti sulle italiane e sul mondo non britannico (siamo negli anni 70), il suo primo rilievo riguarda la non eccezionalità dell’azione delle donne in parete, poiché, da quel che si legge nella rassegna di Williams, «centinaia di uomini hanno esplicato la loro attività a livelli simili». Salvo eccezioni (Boulaz, Badier, Rutkiewicz e, prima di loro, Varale, Pietrasanta e Wiesinger, per limitarci ad alcuni nomi), di rado le donne sono state protagoniste di punta. «Perché mai? E perché allora se ne scrive un libro, se a parte le rare eccezioni non hanno mai avuto un’influenza importante sullo sviluppo dell’alpinismo?» s’interroga Metzeltin, non senza una punta di provocazione; e prova poi a rispondere così: «Intanto c’è da dire che si potrebbe discutere sulla presunta mancanza di incidenza della donna nelle vicende dell’alpinismo; però si tratta di una matassa ingarbugliata perché i documenti sono scarsi. L’influenza di Mary Varale, per esempio, nell’ambiente delle Grigne in cui s’andavano formando grandi scalatori come Cassin ci è stata tramandata quasi per caso. È quindi questo un argomento ancora del tutto aperto a ricerche senza pregiudizi. Ma fondamentalmente anche nell’alpinismo (…) i condizionamenti sociali hanno costituito per le donne una barriera, un insieme di barriere direi, quasi invalicabili. L’alpinismo si concilia poco con la sola autorealizzazione ritenuta d’obbligo per la donna, cioè quella di moglie e di madre, esemplare se possibile. E, se si considera questo insieme di ostacoli, allora certamente le imprese delle donne alpiniste vanno valutate in una luce ben diversa. Non solo nell’Ottocento, ma ancor oggi. Però non bisogna tacerlo, non bisogna nasconderlo (…) Altrimenti questo libro non sarebbe mai stato scritto. Con queste premesse, ciò che le donne hanno realizzato in alpinismo è enorme e la storia delle loro imprese è tutt’altro che mediocre».

Da sinistra, Eileen Healey, Loulou Boulaz, Claude Kogan, Jeanne Franco, Claudine van der Straeten e Micheline Rambaud e (in primo piano con borsa) dr. Colette Le Breta, in partenza per il Cho Oyu, 1959.

Anni ’70, o delle conquiste sociali
Nel decennio che in Italia si configura per le riforme sociali che andranno a incidere in maniera importante, e finalmente in senso progressista, sulla vita delle donne – pensiamo al divorzio, introdotto nel dicembre 1970, alla riforma del diritto di famiglia del 1975, alle battaglie che porteranno nel maggio 1978 all’approvazione della legge 194 per l’interruzione di gravidanza e poi, nello stesso anno, a una delle leggi più innovative al mondo in materia di cura psichiatrica, la legge 180, o “legge Basaglia” dal nome del medico che l’ispirò; e non ultima, ancora nel 1978, l’istituzione del servizio sanitario nazionale, che sancisce il diritto fondamentale del cittadino alla salute – ebbene, anche per l’alpinismo praticato dalle donne è un decennio di risultati significativi.

Iniziamo dal terreno dove si è espressa al massimo grado “l’epica maschile”, secondo la felice definizione di Nives Meroi (che poi conclude sottolineando anche qui il recupero femminile). Parliamo delle montagne più alte della Terra, cioè la catena himalayana, Karakorum e altopiano tibetano inclusi. Eccezion fatta per la mitica viaggiatrice-esploratrice Alexandra David Néel, che nei primi decenni del ‘900 fu la prima europea a metter piede in Tibet, e per l’americana Fanny Bullock, che con il marito esplorò i ghiacciai del Karakorum, se circoscriviamo l’indagine all’alpinismo sportivo, dobbiamo assumere come data d’inizio il 1950. Fu infatti l’anno in cui il Nepal si aprì agli occidentali, concedendo i primi permessi di salita alle sue montagne; sappiamo che furono i francesi i più rapidi a cogliere l’opportunità con l’ascensione dell’Annapurna. Dal canto loro, le donne non tardarono a farsi ammaliare dall’aria sottile delle alte quote e nel 1952, ancora una francese, la stessa Claude Kogan di cui abbiamo detto, sale una cima di 7422 m nel Ganesh Himal; sempre lei l’anno seguente è sul Nun 7135 m nel Kashmir, mentre nel 1954 torna in Himalaya con lo svizzero Raymond Lambert per tentare il Cho Oyu 8188 m: la spedizione si fermerà ad appena 300 m dalla cima, spianando così la strada all’austriaco Herbert Tichy e compagni che ne realizzeranno la prima ascensione nell’ottobre dello stesso anno. Nel 1955 sono tre alpiniste scozzesi – Monica Jackson, Elizabeth Stark e Evelyn McNicol – a spingersi in una zona inesplorata, lo Jugal Himal, dove salgono una montagna a cui danno il nome di Gyalgen Peak 6150 m. È la prima spedizione composta interamente da donne (se si eccettuano gli Sherpa) ed è curioso leggere la definizione che ne fu data all’epoca: first non-male expedition, prima spedizione non-maschile! Tents in the Clouds, il loro libro che uscì nel 1957 (poi tradotto in italiano da Corbaccio nel 2002 con il titolo Tende tra le nuvole), narra di questa memorabile avventura con una spontaneità che lo rende uno dei più bei racconti di esplorazione e alpinismo mai scritti.

Purtroppo, però, in Himalaya gli anni ’50 si chiudono tragicamente per le donne: nel 1959 Claude Kogan, che al Cho Oyu aveva voluto tornare con un team di sole alpiniste, muore in tenda a un campo alto sepolta da una valanga; dopo l’incidente nessuna se la sente di proseguire e la spedizione si conclude amaramente. Bisognerà attendere gli anni ‘70 per registrare il primo successo femminile su un Ottomila: le giapponesi Naoko Nakaseko, Masako Uchida e Meiko Mori toccano la cima del Manaslu il 4 maggio 1974. Poi è la volta della regina delle montagne, l’Everest-Chomolungma-Sagarmatha: nel giro di tre anni tre alpiniste salgono in cima: Junko Tabei, anche lei giapponese, il 12 maggio 1975; Phan Thog, tibetana, appena dodici giorni dopo, prima donna dal versante nord con una spedizione cinese; e infine la polacca Wanda Rutkiewicz, il 16 ottobre 1978. Ma prima dell’Everest, l’11 agosto 1975, la stessa Rutkiewicz si era misurata con un quasi-ottomila, il Gasherbrum III 7952 m, la montagna più alta non ancora salita, compiendo un’ascensione storica in cordata con i connazionali Janusz Onyszkiewicz, Alison Chadwick Onyszkiewicz e Krzysztof Zdzitowiecki. Il giorno dopo, Anna Okopinska e Halina Kruger-Syrokomska, facenti parte della medesima spedizione polacca (che prevedeva due squadre di 7 uomini e 9 donne, guidati rispettivamente da Janusz Onyszkiewicz e da Wanda Rutkiewicz), avevano raggiunto gli 8034 metri del Gasherbrum II lungo la cresta est. Il 1975, che le Nazioni Unite avevano dichiarato Anno internazionale della donna, dedicato alla promozione dell’uguaglianza tra i generi, era stato celebrato anche in alpinismo.

Sul ghiacciaio del Pik Lenin 7134 m lungo la via Lipkin. Foto: Archivio Linda Cottino.

Prima di proseguire, un cenno meritano le alpiniste di oltrecortina. Le donne sovietiche, forti e selezionate, a cui il più grande stato comunista del mondo garantiva – sulla carta – diritti pari agli uomini, non sfuggivano neppure loro al virus della discriminazione. Infatti, malgrado lo Stato ne incoraggiasse l’attività, solo il 10% degli alpinisti più forti dell’Unione Sovietica sono donne che possono fregiarsi della massima onorificenza di “maestro dello sport”. Il loro vantaggio rispetto alle compagne occidentali consisteva nel poter svolgere un’attività di alto livello e in alta quota tra le montagne del Caucaso, del Pamir, del Tien Shan e di tutte le repubbliche ex sovietiche senza spendere un quattrino. Proprio quelle montagne furono teatro, nel 1974, di una tragedia avvenuta nell’ambito di un raduno mondiale organizzato in Pamir per celebrare i cinquanta anni dalla morte di Lenin – e al quale per la prima volta erano stati invitati gli americani. Otto tra le migliori alpiniste sovietiche capitanate da Elvira Shataeva, che con pervicacia era riuscita a comporre e organizzare la mini-spedizione, morirono per un uragano scoppiato a settemila metri, appena sotto la cima del Pik Lenin, di cui la cordata aveva previsto la traversata su cresta. Fu un dramma che sconvolse tutti e di cui moltissimi alpinisti riferirono nei loro scritti. Lì, in una cordata internazionale, c’era anche Arlene Blum, che ritroveremo protagonista del grande alpinismo.

Junko Tabei in cima all’Everest, 1975

Ma andiamo con ordine e torniamo alla prima donna sull’Everest, Junko Tabei (1939-2016), alpinista eccelsa che nella sua strabiliante carriera ha inanellato cime, successi e riconoscimenti – dal vulcano su cui salì da bambina fino alle ascensioni in tarda età. Già agli albori del suo alpinismo fu attiva nell’incentivare la pratica della montagna tra le donne in Giappone, contribuendo a fondare nel 1966 il Ladies Climbing Club nipponico. Ma la svolta arrivò nel 1970, con l’apertura di una nuova via sull’Annapurna III 7555 m, un successo che la indusse a presentare la sua candidatura per la salita all’Everest nel 1972. L’impresa fu tutt’altro che semplice: bisognava infatti costruire da zero una squadra e lei, in più, aveva una figlia di appena cinque mesi; per fortuna, a spazzar via dubbi e tentennamenti, le venne in aiuto il marito, egli pure scalatore, che le offrì incoraggiamento e aiuto concreto – cosa assai rara nel Giappone del tempo (e forse anche di oggi). Sul campo, la spedizione dovette superare una serie di intoppi, a cominciare dall’incidente in cui la stessa Tabei rischiò la vita per una caduta di neve e ghiaccio che la seppellì e da cui la liberò il suo Sherpa scavando a mani nude. «Era così pesante che non potevo respirare – raccontò – vedevo solo luci gialle, rosse e verdi e pensavo: è finita, è arrivata la mia ora». Ma una tenacia inscalfibile la portò in vetta. Dopo questo storico primato, le sue agende si sono riempite di ascensioni realizzate in tutto il mondo, un vero tripudio di cui ci limitiamo a ricordare due imprese a cui lei teneva particolarmente: le Seven Summits concluse nel ’92 e l’ambitissimo titolo dello Snow Leopard per l’ascensione dei cinque colossi dell’Asia Centrale. Fino all’ultimo, e già malata, ovunque andasse, ha continuato a cercare la cima più alta e a battersi contro l’attuale “alpinismo di pista” che stravolge la percezione del pericolo e la montagna tutta.

Junko Tabei – Seven Summits e Snow Leopard

Pochi giorni dopo Tabei, sull’Everest giunse la tibetana Phan Thog (1939-2014). Donna dal fisico forgiato ai trasporti in quota fin da ragazzina, quando la morte del padre la costrinse a dare una mano in famiglia, furono proprio la sua forza e prestanza ad aprirle le porte dell’alpinismo: a 20 anni entrò nella squadra cinese e salì dapprima il Muztagh-Ata. Con il Chomolungma si misurò molto più tardi, a 37 anni e già con tre figli. «L’ultimo balzo verso la cima – disse in seguito – l’ho fatto in nome dei 400 milioni di sorelle cinesi, per dimostrare che le donne possono fare esattamente quel che fanno i colleghi maschi». Sulla cima si sottopose a un elettrocardiogramma di 7 minuti che decretò l’ottimo funzionamento del suo cuore, inalterato anche in alta quota.

Da sinistra, Junko Tabei, Phan Thog e Wanda Rutkiewicz

La terza donna a calcare la cima più alta del pianeta, e prima europea, fu una stella di prima grandezza, la polacca Wanda Rutkiewicz (1943-1992). Ingegnere, dall’intelligenza brillante e fascino incommensurabile, Rutkiewicz è stata un faro non solo per le alpiniste della sua generazione, ma anche per tante più giovani; e non soltanto per le eccezionali capacità tecniche e le imprese compiute sulle pareti e le montagne del mondo, ma per l’incrollabile volontà di battersi contro la discriminazione delle donne in alpinismo: «Mi piace stare in montagna su un piano di uguaglianza, con chi non vuole né possedermi, né sminuirmi, e questo con gli uomini non è possibile», disse a Christine Grosjean che la intervistava per Alpinisme & Randonnée (n. 22, agosto 1980). Qui non vi è lo spazio né il modo per approfondire la sua ricchissima biografia alpinistica – di cui forse molti hanno già letto in Wanda Rutkiewicz. La signora degli Ottomila di Gertrude Reinisch (CDA, 1999) e in parte nell’appassionante affresco dell’alpinismo polacco che Bernadette McDonald ha dipinto in Volevamo solo scalare il cielo (Versante Sud, 2012). È comunque da ricordare che quando arrivò all’Everest, invitata da Karl Maria Herrligkoffer, era già la scalatrice di vaglia che aveva alle spalle, oltre al GIII di cui sopra, tutte le più impegnative scalate sulle Alpi (di cui qui ci limitiamo a citare la Diretta Americana sulla Ovest del Petit Dru, la prima ripetizione della via Messner-Hiebeler sul Pilastro nord dell’Eiger e la Nord del Cervino lungo la via Schmid, sempre in cordata di sole donne), sui Tatra, in Pamir sul Pik Lenin, sul repulsivo Pilastro est del Trollryggen con Halina Kruger nel 1968, sui 7492 metri del Noshaq in Hindu Kush e anche sul Nanga Parbat, tentato con una sfortunata spedizione austro-polacco-tedesca.

Una giovane Wanda Rutkievicz con i ferri del mestiere

Dopo l’Everest, Wanda torna sulle Alpi per salire con Irina Kesa la Bonatti al Grand Capucin (1979) e vola in Sudamerica per l’Aconcagua in stile alpino (1985); già si dedica soprattutto agli Ottomila – è la prima donna a salire il K2 (nel 1986 senza ossigeno supplementare) finché nel ’91 lancia la sua “carovana dei sogni”: un progetto che prevede di completare la collezione delle 14 cime nel minor tempo possibile. Ma i sogni s’infrangono sull’insidioso Kangchenjunga, da cui non ridiscenderà: è il 13 maggio 1992, sarebbe stato il suo nono Ottomila.

Wanda Rutkiewicz è un nome che non si offusca, anzi, nel tempo la sua aura cresce (le è stato dedicato persino un doodle (versione speciale del logo di Google per commemorare anniversari di eventi, NdR) il 16 ottobre 2019, a 41 anni dalla salita all’Everest). Fu donna che, malgrado le sofferenze dell’infanzia e della prima giovinezza, non perse mai l’ottimismo e sprigionò sempre grande energia (si pensi alla spedizione femminile al K2 che guidò appena convalescente da una frattura, risalendo il Baltoro fino al campo base con le stampelle); fu donna volitiva e ricca di creatività, messa a frutto anche in alcuni film come Tango Aconcagua e Donne e neve, e che tornerà sullo schermo nel prossimo lavoro della regista-alpinista polacca Eliza Kubarska.

Arlene Blum di fronte al Dhaulagiri, sulla via per il Campo Base dell’Annapurna, 1978

Women on Top
Mi avvio alla conclusione di questo lungo e variegato spaccato dell’alpinismo vissuto dalle donne in una fase storica di snodi cruciali, rievocando un’altra spedizione di rilievo, non tanto e non solo per il risultato ottenuto sul campo, ma per il peso che ebbe nell’affermare e consolidare la volontà di vivere in autonomia e libertà le proprie scelte, dando corpo ad ambizioni e progetti. Mi riferisco a A Woman’s Place is on Top, la spedizione femminile all’Annapurna organizzata da Arlene Blum nel 1978. La prima idea risaliva al 1975, quando Blum si era incontrata con Alison Chadwick-Onyszkiewicz e Wanda Rutkiewicz nell’intento di organizzare una spedizione polacco-americana proprio all’Annapurna I, progetto poi fallito per la mancata concessione dei permessi. La decisione di ripescare quell’idea venne presa da Arlene dopo essere stata esclusa, benché ne avesse i requisiti, da una spedizione in Alaska, sul Denali. Comincia così per lei un vero e proprio percorso a ostacoli: l’American Alpine Club la boicotta, perché non si fida e non intende sostenere la spedizione; Arlene però non molla e costituisce l’American Women’s Himalayan Expedition, mettendosi all’opera con conferenze, ricerca di sponsor e tutto quel che serve per raccogliere i centomila dollari necessari – cifra poi raggiunta grazie soprattutto alla vendita di magliette con la scritta, dal doppio senso irriverente: A Woman’s Place is on Top, il posto della donna è sopra. Alla fine, anche l’AAC deve cedere.

La squadra può dunque essere formata e comprende dieci alpiniste, tra cui la capospedizione Blum, due registe e una manager per il campo base. Gli intoppi non si fanno attendere: alcuni Sherpa ammutinati da riportare nei ranghi e soprattutto il maltempo con le valanghe, una delle quali seppellisce un campo-deposito – ma Arlene Blum sa far valere la sua leadership e prende le decisioni più sagge. Si arriva così al 15 ottobre 1978, quando Irene Miller e Vera Komarkova, con gli Sherpa Mingma Tsering e Chewang Rinjing, sono in vetta: lassù, con le bandiere nepalese e americana, sventola anche quella con lo slogan della spedizione, A Woman’s Place is on Top. Irene Miller annoterà sul suo diario: «Come mi sento? Le mie emozioni oscillano fra un incredibile sollievo per non dover più salire oltre e una grande soddisfazione per me e per tutta la squadra: abbiamo raggiunto il nostro obiettivo, siamo sulla cima di un ottomila. Soprattutto sono consapevole che sono le 15.30 e dobbiamo rimetterci in moto per scendere prima che ci sorprenda il buio». Purtroppo, la felicità per l’obiettivo raggiunto viene infranta dalla scomparsa di Vera Watson e Alison Chadwick-Onyszkiewicz, delle quali si perdono le tracce.

«Non abbiamo organizzato la spedizione sull’Annapurna per dimostrare che le donne sono in grado di affrontare le montagne più imponenti» scrive Blum. «Questo lo sapevamo già, prima di partire. La pubblicità tributata al successo ha però mostrato a tutto il mondo che le donne possono farlo». E a dimostrarlo con sempre maggiore incisività e, perché no, in semplicità, arriverà una schiera di fortissime, tra le quali non deve mancare Alison Hargreaves, che dopo le strabilianti imprese compiute sulle Alpi (una per tutte, le sei classiche pareti nord in solitaria in una sola stagione), salì tre Ottomila e dal K2 purtroppo non tornò. Ma questa è una storia da approfondire più avanti.

Si chiude dunque un’importantissima e intensa, cruciale, fase storica. Con gli anni ’80 tutto cambierà: arriveranno le gare di arrampicata, il gap tra i generi sulla difficoltà andrà restringendosi sempre più fino a ridursi a un’incollatura; le donne sfonderanno nelle varie discipline del verticale: boulder, ghiaccio, scialpinismo, anche l’alta quota e, non ultimi, gli Ottomila, che vedranno una vera e propria corsa al completamento dei “magnifici quattordici”. Senza dimenticare il loro ingresso in quello che tuttora resta un feudo maschile: il mestiere di guida alpina – le prime italiane saranno Renata Rossi, Serena Fait e Palma Baldo (di cui voglio subito ricordare la ripetizione, prima donna europea, della via del Nose al Capitan nel 1979). Ma per tutto questo, l’appuntamento è a un terzo capitolo diretto verso la contemporaneità.

L’ultima parola è nel ricordo di Tiziana Weiss, da Trieste; alpinista talentuosa, caduta nelle Pale di San Martino nel 1978. Questo suo scritto, Sogni, pubblicato su Le Alpi Venete, è un inno alla divorante passione per le montagne e alla libertà – finalmente respirabile anche da una donna.

Tiziana Weiss nel gruppo del Monte Bianco, 1976. Foto: Archivio Tiziana Weiss – CAI XXX Ottobre.

«Sono tornata a casa in moto, stasera, con un compagno d’arrampicata. Tornavo da una conferenza ed era molto tardi. È stupendo correre con la moto per la città deserta. Mi veniva voglia di ridere, di cantare, guardando il cielo cobalto, blu intenso di stanotte, le stelle, la luna piena. Ed ecco, laggiù, sì, eccoli lontani gli Ottomila, e tutto il corteo di giganti himalaiani: il Dhaulaghiri, il Nanga Parbat, l’Everest, il Kangchenjunga, il Tirich Mir e gli altri, tutti gli altri. Grandi ombre scure, in una notte meravigliosa, quasi ai confini con il Tibet. Devo, devo poter ricordare, scorgere le ombre sfuggenti, le vette di queste montagne, quando la morte mi sarà vicina; le chiederò solo un momento ancora per lasciarmi ritornare, un istante soltanto, su quelle cime bianche, spazzate dal vento. Perché non mi sveglio anch’io ai loro piedi? Perché non sento cantare nelle sere di primavera le dee del Tirich, gli spiriti del Dhaulaghiri? Potrò mai anch’io posare i piedi su quel candore sacro? Potranno mai le mie mani accarezzare quelle rocce divine? La mia vita è là e un giorno solo vorrei vivere».

Mulaz, 2021, nell’acquerello (101 x 152 cm) di Riccarda De Eccher, amica stretta di Tiziana Weiss.
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Alpiniste invisibili – 2 ultima modifica: 2024-09-30T05:44:00+02:00 da GognaBlog

29 pensieri su “Alpiniste invisibili – 2”

  1. Giusto per tornare strettamente nel tema dell’articolo, segnalo, a chi bazzica a Torino eccc, che è in programma una presentazione del libro di Linda Cottino, libro dedicato a questo argomento, giovedì 10 ottobre ore 18,30 (libreria Via Sacchi).

  2. Fissore: per amor di precisione, già un anno fa io dicevo una cosa significativamente diversa rispetto a quella che hai scritto tu nel tuo commento circa obiettivi di Israele. Non mi ripeto sia perché è tutto agli atti, sia perché qui è fuori tema. Però se interessato, chiedimi e te la riassumerò.

  3. Mi tirate per i capelli ad andare ben fuori tema rispetto all’articolo, ma devo ripetere milioni di volte le stesse cose, sembra impossibile che non sappiate “leggere” la realtà intorno a voi… Che le mie siano “previsioni” o “anticipazioni” poco rileva ai fini del constatare che da 4-5 anni anche qui sul gogna Blog (e non solo qui) sto anticipando/prevedendo quello che, come reazione immediata dei lettori suscita risate a mio carico, ma che poi si avverrà chiaramente. Che la svolta a destra dell’opinione pubblica europea derivi da imbecillità digitale o meno poco rileva. Può darsi che si sia anche quella componente, non lo escludo, ma non è quella determinante. E’ il solito buttar la palla in corner della sinistra, adducendo colpe non sue (“è una cosa inprevista e ingovernabile dalla politica) o peggio addirittura della controparte (“voi” avete rimbecillito l’opinione pubblica con la società digitale). Invece per la svolta a destra ci sono cause profonde nella società (cause che ho già descritto più volte e che sintetizzo nell’esigenza di “sicurezze”-al plurare) cui la destra dà risposte (anche solo elettorali, ma intento le dà) e la sinistra, sbandierando diritti, “peace and love”, woke, non le dà, anzi fa scappare gli elettori. Il quadro socio-politico dell’Europa è strutturalmente cambiato e si evolverà sempre più in questa direzione: Adf nei laender dove prende il 30% ufficiale nelle elezioni, nei sondaggi sulle giovani generazioni  (under 40) è già al 40%: il futuro è indirizzato in modo chiaro: sarà sempre più a destra, imbecillità digitale o meno. In ogni caso anche la sinistra potrebbe sfruttare l’imbecillità digitale della popolazione, e invece non ci riesce… Quanto a Israeliani, è un anno che dico che si sono rotti i coglioni dei loro vicini e vogliono risolvere il problema alla radice per vivere tranquilli: in fondo c’è un esigenza di “sicurezze” (di cui quella in senso stretto è al primissimo posto) che è la stessa, mutatis mutandis, che domina la scena socio-politica europea. Chiarito ciò, non perdurate nell’andar fuori…

  4. #20 Crovella Mi permetto di intromettermi, la profonda svolta a dx è dovuta alla sempre più diffusa incapacità di pensare con la propria testa (il digitale che ha sta cancellando l’analogico) e il lasciarsi abbindolare da promesse urlate che alle masse piacciono tanto. Per me i diritti prevalgono concettualmente sulle sicurezze, fermo restando che la sicurezza è essa stessa un diritto, e importante.
    Per il discorso medio oriente era chiaro ( anche se personalmente non l’avevo scritto da nessuna parte, so che il mondo va avanti anche senza i miei pronunciamenti ) dall’8 ottobre che non sarebbe bastato liberare gli ostaggi, per Israele la missione era distruggere per sempre Hamas, risvegliata dal massacro del 7 e dall’onta di non essersi dimostrati invincibili. E da lì, stanno pericolosamente procedendo.

  5. Anticipazioni?
    Ma vuoi una buona volta scrivere in italiano: al massimo possono previsioni.
    O vaticini, o pensieri, o speranze.
    Ma non anticipazioni!

  6. “sanificare”

    Anche i nazisti nel forni crematori volevano “sanificare”.
    Ci penserei bene prima di usare certi termini.

  7. Dalle nuvolette in cui ci troveremo fa qualche centinaio di anni, potrai verificare di persona, nonostante il tuo livello intellettivo pari a zero, che magari sarà andata proprio così…
     
    Non fosse altro che per prudenza, dopo le anticipazioni che ho fatto anche qui sul Blog in tempi non sospetti (due su tutte: la profonda svolta a destra dell’Europa sulla base dell’esigenza della cittadinanza di “sicurezze” e non di diritti ecc che piacciono tanto alla sinistra, e poi, poco meno di un anno fa, che Israele non si sarebbe limitata a liberare gli ostaggi del 7 ottobre, ma ormai era entrata nella logica di “sanificare” alla fonte il problema dei loro vicini fastidiosi e/o pericolosi- e guarda come si è comportata Israele in 12 mesi..), io starei molto più prudente a sbeffeggiarmi perché é più forte il tuo rischio di fare l’ennesima figura da balengo…

  8. Crovella 4:

    a quel punto l’intero genere maschile non sarà più necessario e le donne lo spazzeranno via. Dopo di che, rimaste solo donne sul pianeta, 

    Crovella 14:

    quanto la specie umana (per il meccanismo che ho già illustrato) resterà composto solo da individui femminili.

    .
    Credo che qui Crovella abbia raggiunto i vertici assoluti dell’irragionevolezza (in realtà volevo utilizzare un altro termine) e dell’inutilità, a volte, di essere dotati di un cervello.

  9. Anche DNA è usato in senso metaforico: l’essenza profonda della ns specie, non la combinazione prettamente biologica

  10. Un altro aspetto che comprendo poco è quello dei primati: la prima europea ad aver fatto questo, il primo italiano ad aver fatto quest’altro, come se fosse realmente così importante,

    Grazia, capisco la tua non comprensione, però è anche vero che spesso e volentieri, chi viene dopo,  lo fa perchè qualcuno gli ha indicato la strada. Semplicemente perchè ha avuto la visione e non sempre e solo perchè voleva essere primo.
    La Gioconda l’ha pensata e dipinta Leonardo e non quelli che dopo di lui  l’hanno ridisegnata. Anche se fatta bene,  l’hanno solo copiata.

    senza contare, come già sottolineato, che ci sono tantissime persone che fanno senza far tanto rumore.

    Questa è una scelta molto personale e del tutto rispettabile. Ma non è che ti qualifica migliore o peggiore. E’ una scelta diversa.
     

  11. “Quando sostengo che la specie umana è “predatrice”, lo intendo  principalmente in senso metaforico: il nostro DNA è da “imperialisti”, lo cogliete con più facilità? Spiego: nella specie umana, se uno ha 5, vuole 7; se ha 7, vuole 10; se ha 10, vuole 15”
     
    Come al solito usi termini a caso e generi una gran confusione. innanzi tutto nella tua testa.
    Il nostro DNA, come quello di tutte le specie viventi (animali, piante, virus) ci impone di occupare tutto lo spazio disponibile.
    Questo è un dato biologico. E anche la definizione di predatore lo è.
     
    Il volere sempre di più ne è una declinazione culturale, che peraltro non si è sempre storicamente verificata. Come la definizione di imperialista, peraltro.
     
    By-the-way, è ormai acclarato che occupare tutto lo spazio disponibile e sfruttare tutte le risorse sia non compatibile con la nostra stessa sopravvivenza.
    Quindi sarebbe il caso che DNA o no iniziassimo a pensare di cambiare le cose e limitarci usando la nostra intelligenza.

  12. Ciao Paolo!
    Grazie per la precisazione che condivido.
    Un altro aspetto che comprendo poco è quello dei primati: la prima europea ad aver fatto questo, il primo italiano ad aver fatto quest’altro, come se fosse realmente così importante, senza contare, come già sottolineato, che ci sono tantissime persone che fanno senza far tanto rumore.

  13. CONTINUA.  Non è una critica la mia, assolutamente, ma una semplice osservazione oggettiva, cui corrisponde una mia grande ammirazione per le donne, in generale e in ogni risvolto della vita: avete lo stesso DNA imperialista degli uomini, ma avete 10 marce in più rispetto a noi, a cominciare dall’andar in montagna. Il futuro è vostro, non ci piove. Osserverò con curiosità, forse da una nuvola, come vi comporterete quanto la specie umana (per il meccanismo che ho già illustrato) resterà composto solo da individui femminili. Nelle donne, fra di loro, prevarrà la sorellanza o la natura imperialista? Io sono un pessimista cosmico, credo che la natura della specie umana sia sostanzialmente malvagia, e temo che neppure le donne sapranno vivere senza essere caratterizzate da tale connotato. Pronto ad esser smentito, per carità, ma sono un san Tommaso e priva voglio constatare davvero che NON sarà come penso e poi riconoscerò che la mia “previsione” era sbagliata.

  14. Rispetto visioni anytitetiche alle mie, anche se le giudico del tutte infondate. A nessuno vierne in mente di sostenere che maschi e femmine delle specie animali, tipo leoni, balene, aquile ecc, siano “diversi” fra loro. appargenfono alla stessa specie i il DNA istintuale di fondo è uguale, o quanto menop sarà uguale al 90%. Certo, mamma orsa ha un istinto inconscio che la spinge a occuparsi dei cuccioli fino a che essi saranno indipendenti (può portare via anche 2-3 anni), mentre l’orso maschio, dopo essersi accoppiato, fa vita solitaria e dei cuccioli se ne frega. Ma al di là di queste differenze, rilevanti ma che coprono una % limitata dei comportamenti, il resto dei comportamenti è uguale all’interno della stessa specie. per cui, essendo la specie umana alla fin fina una specie del regno animale, non vedo perché gli individui maschili e quelli femminili dovrebbero avere “diversi” codici comportamentali, salvo inezie ( sia chiaro: inezie il termini % rispetto alla totalità dei comportamenti degli individui femminili). Quando sostengo che la specie umana è “predatrice”, lo intendo  principalmente in senso metaforico: il nostro DNA è da “imperialisti”, lo cogliete con più facilità? Spiego: nella specie umana, se uno ha 5, vuole 7; se ha 7, vuole 10; se ha 10, vuole 15 ecc ecc ecc. Vale per soldi, lavoro, potere, terre, ecc. Ecco perché sostengo che gli individui della specie umana sono predatori, cioè imperialisti. Da quando lavoro, metà anni ’80, ho visto almeno tre generazioni di donne, forse quattro, che si sono affacciate al mondo del lavoro e ne colgo l’incremento  progressivo, generazione femminile dopo generazione femminile, di qualità (determinazione, applicazione, obiettivi molto chiari, ecc), ma li leggo come sintomi progressivi della natura più profonda che è “imperialista” anche per gli individui femminili della specie umana. Lo stesso vale in politica, nello sport, nelle arti, nella cultura, ecc. mi guardo intorno e vedo principalmente conferme di questa mia impressione, magari le donne sono più astute e raffinate e sanno camuffare meglio il loro imperialismo (dietro a facciate di buonismo di superficie), ma la natura profonda è la stessa, imperialista, dei maschi. 

  15. #10 Grazia Io intendevo dire che donne e uomini hanno capacità,  attitudini e caratteristiche diverse tra loro, ma nella media di tutti questi fattori (al di là di diritti e dignità, per me scontate) sono assolutamente paragonabili (uomini più bravi in certi campi, le donne in altri), ma contestavo le molte marce in più attribuite da Crovella. Allo stesso modo contesterei se si dicesse, oggi, che gli uomini hanno genericamente molte marce in ma più delle donne.

  16. Nel 1978 quando Tiziana è morta era circa un anno che arrampicavo. Non avevo proprio idea di chi fosse Tiziana , poi ho iniziato a leggere di lei, della sua immensa passione per l’alpinismo e la montagna tutta. Questo sue parole che ho letto qui per la prima volta, sono di una delicstezza e sensibilità unica, una vera dichiarazione di amore per la montagna e per la libertà.

  17. Per quanto stimi il lavoro di Linda Cottino, mi piacerebbe leggere la storia con meno commenti personali che possono influenzare la visione del lettore.

    Mi va di rammentare che ci sono sempre molti uomini e donne al di là delle liste note, esseri viventi che proprio per evitare limiti e recriminazioni preferiscono non dare nell’occhio.

    Ci sono donne come Maria Montessori (consiglio la visione del film appena uscito nelle sale cinematografiche) che hanno rifiutato di sposarsi proprio per evitare di divenire la proprietà di qualcun altro ponendo limiti alla propria vita e carriera.

    Scrivere che le donne sono equivalenti agli uomini è politicamente corretto e mi dissocio, da donna, con quest’affermazione che non rende giustizia a doti e capacità di entrambi i sessi, che continuano a essere profondamente diversi pur avendo pari diritti e dignità.

  18. L’ultima parola è nel ricordo di Tiziana Weiss, da Trieste; alpinista talentuosa, caduta nelle Pale di San Martino nel 1978. Questo suo scritto, Sogni, pubblicato su Le Alpi Venete, è un inno alla divorante passione per le montagne e alla libertà – finalmente respirabile anche da una donna.


    Tiziana Weiss nel gruppo del Monte Bianco, 1976. Foto: Archivio Tiziana Weiss – CAI XXX Ottobre.

    «Sono tornata a casa in moto, stasera, con un compagno d’arrampicata. Tornavo da una conferenza ed era molto tardi. È stupendo correre con la moto per la città deserta. Mi veniva voglia di ridere, di cantare, guardando il cielo cobalto, blu intenso di stanotte, le stelle, la luna piena. Ed ecco, laggiù, sì, eccoli lontani gli Ottomila, e tutto il corteo di giganti himalaiani: il Dhaulaghiri, il Nanga Parbat, l’Everest, il Kangchenjunga, il Tirich Mir e gli altri, tutti gli altri. Grandi ombre scure, in una notte meravigliosa, quasi ai confini con il Tibet. Devo, devo poter ricordare, scorgere le ombre sfuggenti, le vette di queste montagne, quando la morte mi sarà vicina; le chiederò solo un momento ancora per lasciarmi ritornare, un istante soltanto, su quelle cime bianche, spazzate dal vento. Perché non mi sveglio anch’io ai loro piedi? Perché non sento cantare nelle sere di primavera le dee del Tirich, gli spiriti del Dhaulaghiri? Potrò mai anch’io posare i piedi su quel candore sacro? Potranno mai le mie mani accarezzare quelle rocce divine? La mia vita è là e un giorno solo vorrei vivere».

     

    Nel 1978, era un anno che arrampicavo, di Tiziana Weiss non sapevo nulla, come di tanti altri e altre. Poi in seguito ho letto di lei, della sua grande passione, della sua bravura. Queste sue parole, che non avevo mai letto, sono bellissine di una immensa e sincera sensibilità, sono una dichiarazione di amore alla montagna e un inno alla libertà.

  19. Le chiacchierate si evolvono di passo in passo, magarti si parte da un punto e si imbocca una strada imprevista. tutto è partito da uno scambio di idee con Paolo Fissore

  20. Crovella, ma qualcuno ti ha forse chiesto di erudirci su quale sarà il futuro del genere umano (aldilà delle sciocchezze che hai scritto che non sono nemmeno commentabili), in calce ad un bellissimo articolo dove si parla di alpinismo? Ma devi proprio mandare in malora tutti i post? 

  21. “siamo sostanzialmete dei predatori”
     
    Ma quando mai! L’uomo come predatore, al massimo è stato un piccolo predatore opportunista (vermi, topi, cose così) che ha imparato a cooperare per difendersi e anche per cacciare, diventando anche un predatore piuttosto efficiente.
    Ma sempre e solo come branco, non mai come singolo.
    Quindi decisamente più cooperatore che conflittuale; infatti anche nei conflitti è cooperativo, formando bande ed eserciti, piuttosto che duelli (e questo è comunque parte non minore del nostro problema come razza)

  22. neppure io ho c ertezze sul futuro a 100-200 anni. Mi limito a esprimere considerazioni, che possono anche essere del tutto sbagliate. ma parto dall’assioma di base (mi pare condiviso anche da te) che la specie umana non imparerà mai a “non spararsi l’un l’altro”. io peronalmente credo che ci sia poco fa fare, è connaturato al DNA della ns specie e quindi è ineliminabile: siamo sostanzialmete dei predatori e, oltre a cacciare e pescare, guerreggiamo anche fra individui o gruppi della ns stessa specie. nel cliché maschile questo è molto chiaro, non credo proprio che solo Einstein lo colga la volo. Più subdola questa natura nelle donne. Da decenni sono impegnate in una lotta di generi per ribellarsi e poi sopraffare i maschi. forse si fermeranno lì, ma io personalmente temo di no. Se davvero (con il meccanismo che ho già descritto e quindi evito di ripetere) resteranno esclusivamente individui di genere femminile della specie umana, alla fine guerreggeranno fra loro. ma basta guardarsi intorno e dalla politica la mondo del lavoro è già così. Magari sono più raffinate e astute dei maschi, nel farsi la guerra, ma alla fin fine sempre “guerra” è. Però, ribadisco, è inciso profondamente nel ns DNA di specie umana, inutile ribellarsi o fare proclami contro la Natura…

  23. #4 Continuo a non essere d’accordo con la tua visione/valutazione e credo che le donne non si augurino il futuro che prefiguri. Beato tu che sai come sarà il mondo tra 100-200 anni, che non avremo ancora imparato a non spararci addosso (questo lo credo anch’io, la saggezza non ci caratterizza). Io non ho certezze a così lungo termine, mi limito a non criminalizzare il passato di sessantottino vissuto a 17 anni. Ciao

  24. @3 Ognuno ha la sua idea, legittimamente esprimi pure e conserva gelosamente la tua, ma la considero vecchio stampo, storicamente “bollita”. Tu non mi conosci di persona e quindi non puoi sapere cosa dicevo in tempi non sospetti rispetto al vento che spira oggi, ovvero 40 o 30 anni fa, ma da sempre, molto prima del vento che spira indiscutibilmente oggi, ho sempre affermato che le donne hanno dieci marce in più degli uomini, su ogni risvolto della vita. proprio per quel motivo, il genere maschile ha dovuto tenerle segregate sotto il tallone di ferro, altrimenti da secoli i maschi sarebbero stati ridotti a semplici “fuchi”. Civiltà meno evolute della nostra occidentale, ad esempio quella islamica, tengono le donne tuttora sotto un severissimo tallone di ferro, proprio perché i corrispondenti maschi “sanno” inconsciamente che, se togliessero quel tallone di ferro oggi a carico delle loro donne, per i maschi islamici sarebbe finita (in realtà è solo questione di tempo, anche li maschi islamici finiranno in un ruolo di puri “fuchi”). Se poi guardiamo, in futuro, al lungo termine, siccome la tecnologia permetterà 8forse permette già oggi) di costruire in laboratorio quello che è il “contributo” dei fuchi alle nuove vite, a quel punto l’intero genere maschile non sarà più necessario e le donne lo spazzeranno via. Dopo di che, rimaste solo donne sul pianeta, esse si scanneranno fra loro, perché maschi o femmine non importa, gli appartenenti alla specie umana quella natura “lì” hanno (basta leggere la storia e/o guardarsi introno al giorno d’oggi). Fra 100 o 200 anni, il Netanhyau della situazione sarà donna e bombarderà una corrispondente futura Gaza che sarà composta solo da donne. Non è colpa delle donne, è colpa della specie umana che è fatta così a dispetto dei woke-politically correct che continuano a vivere in un clima da sessantottini… Non pensiamo a queste cose, che ci rattristiamo solo. Godiamoci scritti piacevoli come questo e cerchiamo di dimenticare la cruidezza della vita. Ciao!

  25.  1-Crovella Piaciuto molto anche a me. Credo che le donne siano, nella media delle doti e capacità della globalità delle diverse attività umane, assolutamente equivalenti agli uomini. Molte marce in più, mi pare solo politicamente corretto e andare dietro un certo “vento”.

  26. Bel lavoro, m i è piaciuto molto. conferma la mia idea di fondo: in montagna come nella vita le donne hanno non solo una marcia in più, ma dieci marce in più.

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