“America first” (of all)
di Roberto Vivaldelli
(già pubblicato il 12 novembre 2018 su occhidellaguerra.it)
Spessore 5, Impegno 0, Disimpegno 0
Ora la bandiera è cinese, ma nascosta in qualche piega c’è ancora
quella russa.
Alla fine della Guerra Fredda, gli Stati Uniti si sono affacciati sul mondo con la possibilità di esercitare un potere e un’influenza senza precedenti. Con la sconfitta dell’Unione Sovietica e dell’era bipolare, infatti, i politici americani hanno cominciato a sognare di modellare il globo a immagine e somiglianza dell’unica superpotenza rimasta. Una visione ottimista del futuro ben espressa da Francis Fukuyama nella riflessione formulata nel saggio The End of History?, pubblicato su The National Interest nell’estate 1989, nel quale il liberalismo, agli occhi dell’illustre politologo, appare come l’unico possibile vincitore e meta finale dell’evoluzione storica dell’uomo e della società.
Come ha ricordato successivamente il consigliere per la sicurezza nazionale di George H. Bush, Brent Scowcroft, in un libro pubblicato nel 1999 e intitolato A World Transformed, gli Stati Uniti si erano trovati “in piedi da soli al culmine del potere”. Con i sovietici fuori gioco, gli Stati Uniti e i rispettivi leader avevano “la rara opportunità di plasmare il mondo e la profonda responsabilità di farlo saggiamente a beneficio non solo degli Stati Uniti ma di tutte le nazioni”.
Come recita il proverbio, tuttavia, la via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni, e quella visione del mondo sognata al termine della Guerra Fredda – l’ordine liberale internazionale – non era il destino manifesto tanto invocato ma un’illusione fallimentare. È questo il tema di The Hell of Good Intentions: America’s Foreign Policy Elite and the Decline of U.S. Primacy, nuovo bestseller del professor Stephen W. Walt, docente di relazioni internazionali della John F. Kennedy School of Government dell’Università di Harvard.
Il professor Walt, insieme al collega John J. Mearsheimer, è uno dei più importanti studiosi del realismo politico contemporaneo che ha radici e tradizione in Machiavelli, Hobbes, fino a capisaldi del Novecento come Edward H.Carr, Hans Morgenthau e Kenneth Waltz. Con lui abbiamo parlato del suo nuovo lavoro, della fine dell’egemonia liberale e degli errori della politica estera degli Stati Uniti e di tutto l’Occidente negli ultimi 30 anni.
1) Professor Stephen M. Walt, nel suo ultimo libro, traccia i fallimenti dell’egemonia liberale emersa alla fine della Guerra Fredda, quando si pensava che il realismo politico sarebbe finito nel dimenticatoio. Che cosa rimane oggi di quel periodo in cui Francis Fukuyama scriveva il celebre articolo The End of History?
Molto poco, come ha ammesso Fukuyama. Ora è chiaro che l’ordine liberale, democratico e capitalista non è l’unico modello possibile per un mondo globalizzato e che altre forme politiche continueranno ad esistere. Se non altro, le tendenze attuali stanno andando nella direzione opposta.
2) Lei scrive che le amministrazioni Clinton, Bush e Obama avevano la stessa visione della politica internazionale. Quindi possiamo dire che repubblicani e democratici hanno molto spesso le stesse idee sulla politica estera degli Stati Uniti?
Sì. Sebbene vi siano occasionali differenze rispetto a questioni tattiche, come i meriti dell’accordo nucleare con l’Iran, c’è stato un forte consenso bipartisan sulla politica estera americana a partire dalla fine della Guerra Fredda. Ciò è particolarmente riscontrabile tra gli esperti di politica estera e tra i funzionari di entrambe le fazioni. Tutti credevano che gli Stati Uniti avrebbero dovuto esercitare una leadership globale e usare il proprio potere per diffondere il più possibile la democrazia, l’economia di mercato e lo stato di diritto.
3) Che cosa c’è alla base del fallimento dell’ordine liberale? Una cattiva interpretazione della politica internazionale?
Un’errata comprensione della politica internazionale è stata parte del problema. I sostenitori della’”egemonia liberale” guidata dagli Stati Uniti hanno creduto che sarebbe stato facile diffondere questi ideali e non si sono resi conto che per alcuni Paesi avrebbe rappresentato una minaccia e avrebbero adottato misure per contrastarla. Inoltre, l’ordine liberale sottovalutava gli effetti dirompenti della globalizzazione, che ha contribuito a scatenare il contraccolpo populista che vediamo in molti luoghi.
4) Questo approccio ha determinato anche i fallimenti degli Stati Uniti e dell’Occidente nel Medio Oriente?
Direi che i nostri fallimenti in Medio Oriente erano già ampiamente determinati. Certamente il tentativo di diffondere la democrazia attraverso il cambio di regime e la forza militare è stato un fallimento costoso, come vediamo in Libia, Yemen, Iraq, Siria e altrove. Ma gli Stati Uniti hanno fallito perché hanno fatto affidamento su “relazioni speciali” con alcuni Paesi del Medio Oriente – Egitto, Israele e Arabia Saudita, in particolare – sostenendoli a prescindere dalle loro azioni. Allo stesso tempo, si sono rifiutati di avere una normale relazione di business con Paesi come l’Iran. Questa politica ha ridotto l’influenza degli Stati Uniti e reso più difficile il raggiungimento dei nostri obiettivi più ampi nella regione.
5) Nel libro parla anche di Donald Trump. In riferimento alla politica estera, che cosa c’era di giusto e di corretto nelle promesse elettorali del Presidente e cosa, invece, non è riuscito a mantenere in questi due anni di governo? La sua intenzione di arrivare a una distensione con la Russia era corretta?
Nella campagna del 2016, Trump e Bernie Sanders erano gli unici candidati che dichiararono apertamente che la politica estera degli Stati Uniti era stata in gran parte un fallimento. Avevano entrambi ragione. Sfortunatamente, Trump non ha avuto una strategia chiara e ragionevole per risolvere questi problemi, e gli mancano il giudizio e la disciplina che una seria riforma richiederebbe. Non so cosa intendesse realmente fare nei confronti della Russia, ma è chiaro che anche lì ha fallito. Il risultato è che gli Stati Uniti stanno ancora perseguendo una grande strategia imperfetta e sono ancora troppo impegnati in molti luoghi, e ora abbiamo un capitano incompetente al timone della nave di stato.
6) Se avesse vinto Hillary Clinton, l’egemonia liberale sarebbe stata messa in discussione?
Penso che sia chiaro che Clinton avrebbe continuato a seguire una strategia di egemonia liberale, e avrebbe nominato consiglieri e alti funzionari che si sarebbero impegnati in questo.
7) Sempre parlando di Russia, come giudica la militarizzazione dei confini a est dell’Alleanza Atlantica e la posizione dell’Occidente sulla crisi di EuroMaidan in Ucraina?
Entrambe le parti sono in difetto qui. La Nato non avrebbe dovuto espandersi verso est e la Russia non avrebbe dovuto reagire occupando illegalmente la Crimea e interferendo in altri modi. Sarebbe positivo per l’Europa se la Russia lasciasse l’Ucraina e smettesse di intimidire gli stati baltici; sarebbe un bene per la Russia far sì che le sanzioni venissero revocate e che la minaccia di un’ulteriore espansione della Nato fosse finita, e sarebbe auspicabile che gli Stati Uniti allontanassero Mosca da Pechino. Ma dato i legami intricati e probabilmente criminali di Trump con la Russia, è improbabile che ciò accada mentre è presidente.
Al momento sospettare o temere che la Cina possa fare a breve un sol boccone della storia che abbiamo visto finora, non pare fuori luogo.
8) A suo parere gli Stati Uniti si disimpegneranno dall’Europea per concentrarsi sull’Asia e sulla rivalità con la Cina?
Sì, anche se non so fino a dove arriverà quel processo. Naturalmente gli Stati Uniti manterranno stretti legami diplomatici ed economici con l’Europa; la domanda è se rimarrà strettamente collegata militarmente. Personalmente ritengo che gli Stati Uniti dovrebbero ridurre gradualmente il loro coinvolgimento militare e riportare la sicurezza europea all’Unione europea, ma questo processo richiederebbe almeno un decennio. Se la rivalità sino-americana continua ad aumentare, tuttavia, gli Stati Uniti concentreranno sempre più l’attenzione sull’Asia e ciò significherà meno attenzione per l’Europa.
9) Sempre in Europa, c’è un gran dibattito tra sovranisti e populisti e sul futuro dell’Unione Europea. Secondo lei, in questo momento, qual è l’obiettivo del Presidente Donald Trump nei confronti dell’Ue? Scardinarla o ridimensionare l’egemonia tedesca nel Continente?
Credo che Trump non gradisca l’Unione europea, perché pensa che gli Stati Uniti farebbero meglio a trattare separatamente con i singoli Stati europei. In altre parole, vuole usare un approccio “divide et impera”. Questo è molto miope e mostra che Trump non è uno stratega sofisticato. Se gli Stati Uniti vogliono essere meno impegnati in Europa – come vuole anche Trump – allora sarebbe meglio avere un’Unione europea forte, prospera e armoniosa in modo che gli Stati Uniti non debbano preoccuparsi degli sviluppi politici lì. Seminare divisioni in Europa e sostenere gli xenofobi e i populisti è esattamente la cosa sbagliata per gli Stati Uniti al momento.
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