Antonio Berti, primo storico d’alpinismo
Relazione di Alessandro Gogna al convegno Antonio Berti, ieri e oggi, 5 dicembre 2009, Padova
Lettura: spessore-weight(3), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(2)
Sono stato veramente felice di essere stato invitato qui per parlare di un personaggio che direi fin dai primi anni del mio alpinismo, da quando ho cominciato a frequentare la montagna, è stato per me di particolare importanza. Per caso, parliamo del 1959 – 1960, mi è capitata in mano la famosa guida Berti del 1928, questa che ho in mano, con la copertina verde: ho capito subito che conteneva qualcosa di più che non le altre guide che nel frattempo erano uscite. Un vero oggetto di culto. Ma per capire a fondo questa venerazione occorre risalire più addietro, giusto a 100 anni fa. Cento anni fa – 1908/1909 – la situazione era ben diversa da oggi. Mentre l’alpinismo era già non dico vecchio ma praticato da più di un secolo (Monte Bianco 1786, quindi ben più di 100 anni), la storia dell’alpinismo nasceva invece proprio in quegli anni, cioè 100 anni fa. E la ricapitolazione meditatamente storica di quanto è successo sulle montagne è ben lontana anche oggi dalla conclusione perché, nonostante siano stati scritti molti libri, possiamo dire di vera storia dell’alpinismo, in realtà non è stato ancora realizzata una serie di opere che prendano in considerazione globalmente la storia dell’alpinismo mondiale. Questo per ora non esiste nella maniera più totale, neanche nelle singole lingue, nessuno ci ha neanche mai provato.
Da sinistra, Arturo Fanton, Antonio Berti, Berto Fanton e Luisa Fanton, estate 1910.
Sarebbe lungo qui parlare dei vari esempi, o degli autori che comunque non superano mai le dimensioni geografiche o linguistiche e rimangono, pur nella loro bellezza ed importanza, degli esempi che non affrontano globalmente il discorso dell’alpinismo dal punto di vista storico: a parte le eccezioni di Gian Piero Motti, Roger Frison-Roche, Claire-Éliane Engel, Massimo Mila e pochi altri. E quindi, in conclusione, dopo 100 anni di storia dell’alpinismo siamo ancora in mezzo al guado e di certo, almeno in questo campo, ancora non siamo “globalizzati”. Possiamo vantarcene o non vantarcene, però è sicuramente così.
Cento anni fa la situazione sia geografica che storica delle Dolomiti era evidentemente assai diversa da oggi. Possiamo avere qualche primo riferimento se pensiamo che si era allora in pieno clima absburgico, anche se il Veneto già dal 1866 faceva parte del Regno d’Italia: ancora il Trentino, l’Alto Adige, il Friuli e la Venezia Giulia facevano parte del Regno Austro-Ungarico. Perfino il Veneto risentiva ancora moltissimo dell’influenza absburgica. Questo è importante da notare perché dà una linea precisa agli uomini di cultura di quel tempo, linea che per la formazione scolastica e la “gabbia” culturale assolutamente non poteva essere di altri uomini in altri luoghi… Poi c’è anche da sottolineare che quel periodo del primo Novecento era il momento di nascita dell’Accademico: il Club Alpino Accademico nasceva per dare pratica alla teoria secondo cui l’uomo, cioè l’alpinista, poteva (e dunque doveva) liberarsi dall’essere in qualche modo condotto in montagna da terzi (dalle guide professioniste). Un’aspirazione quasi irrinunciabile per vari motivi, essenzialmente culturali, di crescita, di individualità, di maturità. La fondazione del CAAI (Club Alpino Accademico Italiano) è del 1904. In tutta evidenza Antonio Berti è stato uno dei primi ad essere accademico in Italia, poi affiancato da uomini come Gino Priarolo, Francesco Meneghello, Marcello Canal, Domenico Rudatis, Severino Casara e tanti altri. Tutte persone che hanno rappresentato molto nella storia e che hanno aiutato Berti a compilare la guida 1928. È importante questo aspetto di quel tempo, il mondo accademico del CAI. Per quanto la figura della guida (e io stesso sono guida e non dovrei forse dire queste cose!) possa essere simpatica, sia per l’iconografia della pipa in bocca e dell’aspetto rude, sia per altri indubbi attributi di capacità ed eroismo, per quanto valore possa aver avuto per quelle che erano state le tante imprese realizzate dalle guide nell’Ottocento, fino ai primi del Novecento, comunque, pur facendo storia, non hanno fatto cultura: questo si deve riconoscere.
I primi vicentini soci del Club Alpino Accademico Italiano (CAAI). Da sinistra, in piedi: Antonio Berti, socio dal 1908, e Luigi Malvezzi (dal 1910). Seduti: Severino Casara e Francesco Meneghello, entrambi ammessi nel 1924.
E certamente l’uomo Antonio Berti, che è sicuramente un prodotto della cultura, proprio perché fu tra i primi a recepire l’esigenza della comunità alpinistica di affrancarsi dall’esperienza delle guide alpine, fu tra i primi a raccontare quanto era successo riprendendo i racconti, le annotazioni e gli scritti altrui. L’esigenza “accademica” è il primo tassello per dimostrare che Antonio Berti se non il primissimo certamente è stato tra i primi storici.
Egli non scrisse un libro con il titolo “Storia dell’alpinismo”, ma non c’è bisogno di questa definizione per parlare di storia (e di questo e di altre cose parlerà Italo Zandonella-Callegher) però le sue monografie e la guida 1928 hanno intrinsecamente tutti gli elementi possibili ed immaginabili per farcela conoscere. Tra l’altro, e non solo per quello che riguarda la montagna e l’alpinismo, la storia non può essere divisa dagli eventi e dai luoghi: Berti scrivendo ha contribuito alla definizione e quindi chiarificazione di tantissime cose dal punto di vista strettamente geografico, dai nomi alle delimitazioni, e a tutto ciò insomma che riguarda l’analisi di come siano fatti i gruppi e i sottogruppi delle Dolomiti, in particolare le Dolomiti Orientali. Un sistema che poi sarebbe stato seguito per altre guide.
L’uscita di questa guida Le Dolomiti Orientali del 1928 è un evento incredibile specie se si pensa al periodo, quando cioè non esisteva assolutamente nulla di questo genere né in italiano né in altre lingue, inglese, francese o tedesco. Potrò anche dimenticare qualcosa, però Paul Grohmann, che aveva scritto alcune pubblicazioni autobiografiche, pur descrivendo geograficamente il campo della sua azione, non si era mai posto come scienziato, come osservatore, e non aveva mai correlato le sue imprese con quelle altrui. Altro esempio che mi viene in mente è un libro del 1891 scritto in lingua tedesca sul Cristallo, di Wenzel Eckerth; oppure l’opera di Ottone Brentari, una bellissima guida del Trentino, un ottimo lavoro turistico che però non possiamo definire storico. Passando ad altre zone delle Alpi mi sovvengo di Giovanni Bobba e Luigi Vaccarone, che hanno compilato la guida delle Alpi Occidentali: ma anche lì non si va oltre quella che è l’escursione a piedi, o qualche cima che richiede qualche movimento di mani, non oltre. C’è un abisso tecnico tra il livello di informazioni della guida Berti 1928 e il Bobba-Vaccarone.
Antonio Berti osserva l’inquadratura con Severino Casara, durante una ripresa. Foto: Walter Cavallini.
Fatto importante, nel 1906 viene decisa dal Club Alpino Italiano la pubblicazione di volumi che avrebbero costituito la Collana dei Monti d’Italia; non ancora chiaro come si dovessero fare queste guide, però il progetto viene deliberato; evidentemente c’erano già delle idee in nuce e ovviamente gli autori che si sarebbero dedicati a questi lavori.
La Guida di Berti Dolomiti del Cadore non rientra in questa Collana, e neppure quella successiva Dolomiti della Val Talagona, di cui abbiamo oggi la presentazione della ristampa anastatica.
Questi due primi lavori di Berti sono importanti perché affrontano la materia a livello scientifico (cioè non a livello biografico o autobiografico, io ho fatto quello e quell’altro), non sono delle selezioni, perché comprendono tutto quanto è stato fatto. C’è stata una ricerca, e dopo la ricerca c’è stata una classificazione: e solo dopo questa c’è stata infine la stesura definitiva. Prima di tutto la chiarificazione geografica, i nomi doppi, la doppia lingua, gli equivoci di tradizione; occorreva soprattutto citare le fonti, perché Berti non era depositario della verità storica e dunque pure lui doveva attribuire la parziale responsabilità di quanto scriveva ad altri. I fatti occorre provarli, verificarli non solo in loco ma anche a livello di fonte orale e scritta.
Nelle Dolomiti del Cadore ci sono cime che in italiano hanno un nome e in tedesco ne hanno un altro. A volte la stessa cima è chiamata in modo diverso nelle valli adiacenti, ed evidentemente se non si citano tutti i nomi non è possibile avere idee chiare.
Severino Casara con Antonio Berti (a destra) cercatori di funghi in Val da Rin nel 1948.
Per dare un’idea della vastità di questo volumetto, volumetto si fa per dire, ecco l’elenco: Monte Cristallo, Pomagagnon, Antelao, Catena di Bel Prà, Marmarole, Sorapiss, Pelmo, Croda del Lago, Cadini di Misurina, Cime di Lavaredo, poi la catena di confine tra le Tre Cime e Croda dei Toni, Gruppo del Popera, e infine tutte le montagne per arrivare al Campanile di Val Montanaia e ai Monfalconi d’Oltrepiave. Questo è veramente un documento estremamente importante di come si possa fare storia dell’alpinismo.
Nel frattempo si sviluppava la Collana dei Monti d’Italia, di cui dicevo prima. Uscì il primo volume nel 1908, Alpi Marittime di Giovanni Bobba, primo volume della Collana. L’anno scorso ne è stata celebrata la pubblicazione, rappresentando il vero inizio dei cento anni di Collana. Ebbene, questo volume, per quanto realizzato con molta cura, rigoroso, non si allontana molto da quello che è il criterio escursionistico, cioè è un elenco di itinerari, con qualche cima dove si usano appena le mani. Bobba non è responsabile di ciò, in quanto erano le Alpi Marittime stesse a non possedere assolutamente la storia che invece avevano già le Dolomiti. L’unica eccezionale salita che mi viene in mente è il Corno Stella, indubbiamente una grande impresa, ma eccezionale come una mosca bianca nel panorama di quel tempo in quella regione.
Poi, nel 1911, a cura di Luigi Brasca, Guido Silvestri, Romano Balabio e Alfredo Corti, uscì la guida delle Alpi Retiche Occidentali, zona molto vasta, che non ho portato qui a farvi vedere: anch’essa è formulata con il criterio del Bobba, non storico, semplicemente geografico, esposizione delle cime, descrizione della maniera più semplice per andare in vetta. Nel 1915, a cura di Aldo Bonacossa, apparse il terzo volume, Regione dell’Ortler, a cura di Aldo Bonacossa, questa già più alpinistica a causa del terreno di alta montagna che descrive.
Poi c’è la guerra, tutto si ferma, e arriviamo ai tre volumetti Alpi Cozie Settentrionali, apparsi tra il 1923 e il 1927, a cura di Eugenio Ferreri, con ancora lo stesso criterio descrittivo.
È del 1926 l’uscita di Dolomiti di Brenta, la guida di Pino Prati. Questa è l’unica opera in qualche paragonabile a quella di Antonio Berti che uscì due anni dopo. Berti e Prati si conoscevano e collaboravano, sicuramente scambiandosi informazioni e metodi di lavoro. Da esterno e lettore ho notato questo contatto, anche se le differenze sono abbastanza sensibili. Le vedremo tra poco.
Dopo l’uscita del 1928 di Dolomiti Orientali, un grande successo editoriale, la collana subì una notevole accelerazione con l’accordo tra CAI e Touring Club Italiano, tanto che si decise di uniformare anche in veste grafica i volumi in uscita: nel 1934 uscì il volume Alpi Marittime di Attilio Sabbadini, il primo ad avere la mitica copertina di tela grigia (dico grigia perché era bianca ma con l’uso diventava grigia…). E in seguito ecco apparire, già nel 1935 con Pale di San Martino, l’opera colossale di Ettore Castiglioni (che doveva poi continuare con Odle-Sella-Marmolada (1937), Dolomiti di Brenta (postuma, 1949) e Alpi Carniche (postuma, 1954). Nel contempo abbiamo ancora Aldo Bonacossa che scrive Masino-Bragaglia-Disgrazia (1936), Silvio Saglio con Le Grigne (1937), Renato Chabod con Gran Paradiso nel 1939. Noi italiani siamo stati in quegli anni i primissimi a fare questo genere di lavoro, perché, per dare un’idea, la francese guida Vallot del gruppo del Monte Bianco, in quattro volumi, è uscita solo dopo la seconda guerra, negli anni ‘50. Mi dilungo su questo discorso perché voglio dimostrare che siamo stati noi italiani ad insegnare ad altri come si fanno le guide e tra questi italiani il maestro è stato certamente Antonio Berti.
Dicevo prima delle differenze con Pino Prati. Intanto, osserviamo le diverse suddivisioni della materia, con differenze non fortissime ma abbastanza nette. In Dolomiti di Brenta, dopo le generalità, si passa ai rifugi e alle traversate, per poi iniziare con la descrizione delle cime e delle vie. In Dolomiti Orientali, che tra l’altro affronta una regione estremamente vasta, inconfrontabile con la sia pur notevole superficie del Gruppo di Brenta, la materia è suddivisa in Generalità, Rifugi e Forcelle, Cime. La trattazione sotto il titolo “rifugi e forcelle” è curiosa perché credo veramente sia questa l’unica guida che ha preferito una soluzione di questo tipo. Mentre “rifugi e traversate” esprime la logica dell’escursione che non tocca le cime, “rifugi e forcelle” è un passo avanti dove i passi, i colletti, gli intagli e in definitiva le forcelle sono insigniti di un valore aggiunto, quello di toponimi “quasi” a pari dignità delle vette.
Perché Berti sceglie questa soluzione? Perché evidentemente nella sua classificazione mentale le forcelle fanno parte delle cosiddette traversate, delle gite (oggi si direbbe trekking) che non sono ascensioni a vette, ma le cime rimangono comunque le mete più importanti. Certo anche una forcella è significativa, quindi da classificare assieme ai rifugi proprio come itinerari escursionistici, con descrizioni per raggiungerle che allora, con sentieri non segnalati come sono oggi, erano ben lodevoli strumenti. Questo delle forcelle è un argomento importante, perché subito dopo di Berti, già con il Sabbadini ma soprattutto con Castiglioni, le forcelle sono elencate e descritte assieme alle cime. Decisamente un miglioramento funzionale, perché in effetti se uno legge sulla guida di una cima e vuol conoscerne la situazione esatta, incontra altre cime accanto che ovviamente sono separate dalla prima proprio dalle forcelle: ed è per questo motivo che le forcelle vanno posizionate assieme alle cime, per comodità e per logica. Non vuole questa essere una critica all’operato di Berti, semplicemente citare l’evoluzione che si è avuta in seguito.
Nelle due opere a confronto c’è la storia alpinistica della cima, e devo dire che nel Prati è accentuata: c’è la vera e propria storia alpinistica, condensata e organica. Ogni cima ha la sua piccola descrizione di storia, cosa che Berti fa in maniera più sfumata. Non è che non ci siano i dati, i dati ci sono, ma indubbiamente Prati è più organico. Ma la cosa che più differenzia le due guide è la classificazione delle difficoltà. Nel Prati quasi non esiste una valutazione, nel Berti c’è l’adozione della Scala di Monaco, la nuova nata scala di Willo Welzenbach. Il Prati avvisa che ci sono delle difficoltà, ma non usa alcuna scala delle difficoltà, nonostante che a quel tempo se ne facesse un gran parlare. Questo va a merito di Berti che, proprio per la sua formazione accademico-culturale, intrisa di alpinismo ideale, come quello di Casara per intenderci, praticava un alpinismo scevro da motivi di competizione e quindi da mentalità sportiva. Ma seppe capire in tempo che una scala delle difficoltà non poteva mancare. Dopo le grandi discussioni d’anteguerra tra Hans Dülfer, Karl Plank, Paul Preuss e altri, digerite da un Berti evidentemente onnivoro, ecco la scala Welzenbach che s’impone per indubbi meriti di chiarezza e per la contemporaneità d’uscita con una via capolavoro come quella di Emil Solleder sulla Civetta. Berti non usa la scala Welzenbach pedissequamente, la interpreta assieme al suo gruppo di lavoro già citato sopra: ma queste sono finezze, i gradi sono sempre sei e questo è quello che conta. Perché invece tutto questo nel Prati non c’è.
Da sinistra, Severino Casara, Antonio Berti e Francesco Meneghello alla base del Campanile di Fontana d’Oro (estate 1928).
Accettare le difficoltà, ripeto, è importante per la stesura di una guida a quel tempo, nel senso che è impensabile disporre di una guida o fare storia senza l’aiuto delle difficoltà considerate; è vero che le difficoltà non sono così importanti per un alpinismo esplorativo o romantico, ma nello stesso tempo sono necessarie perché altrimenti, in mezzo a migliaia di vie, non si riuscirebbe a fare neanche un passo, si tratterebbe solo di una elencazione con vaghi aggettivi che non si riferiscono a nulla. E invece a pag. 866 abbiamo addirittura una tabella a sei gradi (facile, mediamente difficile, difficile, molto difficile, straordinariamente difficile, eccezionalmente difficile) intervallati da sfumature che vanno a inserirsi uno per volta tra i gradi più importanti (non difficile, moderatamente difficile, notevolmente difficile, difficilissimo, sommamente difficile), proprio come se lui avesse già pensato che un V poteva essere un V+ o un V-, un VI aveva le varianti anche lui di + e -. Ma la cosa più straordinaria della tabella sono gli esempi riportati per ciascuna categoria di grado, una lista di sei per le sue Dolomiti Orientali, poi altre sempre di sei per le Dolomiti Occidentali e per le Dolomiti di Brenta, infine una lista di cinque per le Piccole Dolomiti (qui mancava l’esempio di “estremamente difficile”). La tabella è accompagnata da quasi sette pagine fitte in cui Berti si fa aiutare da Alfredo Tutino per spiegare al lettore la filosofia che sta dietro alla scala così come questa guida la presenta. Tutino e Berti hanno siglato un piccolo capolavoro nel capolavoro, un documento importantissimo di storia.
Che Berti si sia adattato a quella che era l’evoluzione è evidente. Con l’aumento medio delle capacità dei singoli, ma con il contemporaneo dilagare dell’uso dei chiodi, anche Berti stabilisce che è di estrema importanza che una persona arrivi a scalare sul II o III grado senza l’ausilio di chiodi, proprio come facevano i pionieri. Berti seguì anche l’evoluzione degli anni ’30, un tripudio di imprese a stampo eroico (Comici, Cassin, Vinatzer): e se dopo la vittoria di Emilio Comici e dei fratelli Dimai sulla Nord della Cima Grande di Lavaredo Berti ebbe a dire che proprio quell’impresa, con i tanti chiodi usati, dimostrava l’infattibilità alpinistica di quella parete, ecco la stessa persona un po’ di anni dopo dire, commentando l’impresa di Riccardo Cassin e Vittorio Ratti sulla Nord della Cima Ovest di Lavaredo, “due bivacchi, due bufere, la gloria alpinistica”, cioè sette parole soltanto ma geniali, pregne di ammirazione e di totale accettazione di quel sesto grado che aveva fatto tanta fatica ad essere accettato nel mondo bacchettone dell’alpinismo accademico.
Lo storico non è una macchina, non è un automa, non può resistere al fascino della novità. Anche lo storico, al pari del cronista, può lasciarsi sedurre dal nuovo, ma sempre filtrandolo nell’esperienza del tradizionale e del più vecchio. Nella visione dello storico non deve esserci il preconcetto che qualunque cosa si sia verificata in passato sia meglio del presente. Questo è un errore talmente comune da decimare il numero di storici… a beneficio di pessimismo e malinconico rimpianto. Lo storico deve stilare qualcosa di comprensibile dai dati che ha a disposizione e non può permettersi di giudicare negativamente ciò che per qualche motivo non fa parte della sua formazione culturale. E Berti è stato maestro anche di questo.
Infine, ancora una annotazione che qualifica ulteriormente il lavoro di Berti: riguarda il prontuario. Alla fine delle 902 pagine della guida è un elenco con tutti i termini alpinistici allora in uso: cengia, cordata, chiodo e quant’altro l’alpinista usa a parole, naturalmente nella doppia lingua, italiano e tedesco. Un lavoro necessario, degno finale di un’opera che non solo ha raccontato la storia ma la ha anche fatta.
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Come sempre…una Buona Lettura…! Grazie..Un C. Saluto…G.C.