Ho preso la decisione di riportare per intero l’articolo di Daniele Manusia perché è indubbiamente coraggioso: cercare di fare luce sulle motivazioni che hanno spinto Alex Honnold a realizzare la sua grande impresa su Freerider è nobile scopo. Purtroppo non raggiunto però, perché il tentativo di Manusia naufraga nelle sue stesse parole, anche se queste sono ponderate e misurate assai bene.
Il naufragio della tesi di Manusia ha luogo per lo scontro con almeno due grossi scogli. Il primo è l’assenza nell’autore di una anche piccola sperimentazione personale dell’alpinismo. Non dico questo per sminuirlo o per togliergli autorevolezza: lo dico perché, con le sue argomentazioni, Manusia non si limita a bocciare Honnold, bensì boccia, senza neppure accorgersene, l’intera categoria degli alpinisti, di coloro cioè che comunque rischiano la morte in ogni momento in cui agiscono, che lo sappiano o che non lo sappiano. Per Manusia sembra che ci sia un preciso confine: fino a Tommy Caldwell tutto può essere giustificato, oltre no. Caldwell dice che tutti i solitari da lui conosciuti sono morti? Può darsi, ma questo dimostra solo quanto insufficiente sia la conoscenza di Caldwell nei confronti della reale portata del fenomeno solitario, in questo tempo e soprattutto in quelli precedenti. Fosse così semplice misurare l’attitudine al rischio dei singoli sarebbe bello, potremmo tutti darci il voto di condotta nelle pagelle! Ma tutti noi che abbiamo provato sappiamo che non è così.
E il secondo scoglio è ancora più voluminoso e granitico. Se il primo dava ancora una speranza di galleggiamento dopo l’urto, l’incrociarsi con il secondo vuole dire affondare senza alternativa. Manusia infatti cerca di dimostrare quanto lui “vuole” dimostrare tramite le parole dello stesso Honnold, pensando che le parole, a mo’ di specchio fedele, illustrino le motivazioni. Queste non bisogna cercarle nelle parole, non perché queste siano necessariamente menzognere, ma perché le parole sono spesso le risposte che ci diamo per tranquillizzarci o per stupire o per evitare confronti dolorosi. Le parole restano sul piano conscio. Le motivazioni delle azioni umane, compresa quella di Honnold, vanno cercate nei fatti e nient’altro che nei fatti. E’ lì che bisogna scavare con le precauzioni dell’archeologo. Il piano inconscio è rispecchiato dai fatti. Le parole giustificano altre parole, come per esempio l’ossessione tanto richiamata da Manusia o l’evocazione dell’Isola dei Morti. I fatti non richiamano ossessioni e non lo sono. Dunque le parole semplici di Honnold devono rimanere tali, non possono essere rivestite di contenuti, con altre parole, che sono più propri invece della psiche del critico.
Appunti su Free Solo, contro la perfezione
(riflessione sul documentario dedicato ad Alex Honnold)
di Daniele Manusia
(pubblicato su ultimouomo.com il 24 maggio 2019)
Lettura: spessore-weight(3), impegno-effort(2), disimpegno-entertainment(2)
Per più di dieci anni, dai quattordici ai ventisei, ho vissuto con mia madre in un appartamento all’ottavo piano, dal cui balcone non riuscivo ad affacciarmi senza che mi tremassero le gambe. Ancora oggi preferisco non salire in cima a una scala, o affacciarmi alle finestre troppo alte. Mi sudava la schiena lo scorso inverno mentre camminavo mano nella mano con mia moglie sulle falesie di Étretat, in Normandia. Potrete immaginare, quindi, con quale ammirazione mi sono messo a guardare Free Solo, il documentario su un uomo capace di scalare a mani nude e senza corde di sicurezza una parete di granito alta 900 metri. Che tipo di essere umano può essere quello in grado di compiere un’impresa così estrema? Che sicurezza interiore, fiducia nei propri mezzi e coraggio ci vogliono per sfidare gli elementi naturali mettendo spontaneamente in gioco la propria vita?
Come potrete immaginare non ne so molto di arrampicata (mentre chi ne scrive di solito è parte della comunità), ma ci sono alcune cose che persino io ho capito e che rendono speciali gli eventi alla base del documentario. Anzitutto, “free solo” è il tipo di arrampicata solitaria che non prevede nessun tipo di strumento, da non confondere con la “scalata libera” (in cui non si usano aiuti per salire ma solo corde di sicurezza) e il “bouldering” (in cui si sale su dei massi senza corde ma fino a un’altezza non letale, con sotto dei materassini). La differenza tra il free solo e le altre forme, in sostanza, è il rischio di morire.
Alex Honnold, il protagonista di Free Solo, era già considerato il miglior free soloist al mondo (anche perché gran parte della concorrenza è morta), ma El Capitan era considerato troppo persino per lui. Nessuno aveva mai scalato senza protezioni quel monolite nero nella valle dello Yosemite e anzi solo i migliori tra i professionisti sono in grado di salire le vie più difficili, e in più giorni. «El Cap è il muro più impressionante al mondo», dice Alex Honnold sui titoli di apertura del documentario. Alex Honnold ci ha messo meno di quattro ore, partendo prima dell’alba e arrivando in cima più o meno all’ora di colazione. È salito per una via chiamata Freerider, di livello 5.12d se vi può interessare, che probabilmente è la più difficile tra quelle lunghe mai scalate in free solo.
L’aspetto superomistico è parte delle motivazioni di Honnold e quindi dell’interesse di Free Solo (disponibile sul canale del National Geographic), che credo abbia vinto l’Oscar come miglior documentario non solo perché si tratta di un ottimo prodotto audiovisivo, con alcune immagini spettacolari che anche su uno spettatore generalista come me hanno un impatto emotivo molto forte, ma anche per l’importanza che riserviamo nella nostra cultura a tutto ciò che è limite, estremo, inimitabile.
Per capirci bisogna tenere presente che in montagna i record riguardano la velocità o le “prime ascensioni”, quando cioè uno scalatore per primo riesce ad arrivare in vetta di una montagna, o ad arrivarci con una nuova via. In questo caso, invece, Alex Honnold è stato il primo a fare una cosa che nessun altro aveva mai provato a fare perché lo considerava troppo pericoloso, non solo perché troppo difficile. Persino all’interno della comunità degli scalatori professionisti, in cui comunque un minimo di rischio è corso da tutti e gli incidenti mortali capitano anche a chi prende tutte le precauzioni, chi pratica free solo occupa uno spazio a parte, leggermente separato da tutti quelli che decidono di non mettere deliberatamente in pericolo la propria vita.
Anzi non è raro imbattersi in pezzi critici, che vanno al di là dell’esaltazione delle capacità di Honnold e che si interrogano sulla legittimità del free solo. Anche gli sponsor negli ultimi anni stanno riflettendo se finanziare free soloist (o base jumper, se è per questo) non equivalga a spingerli verso progetti sempre più estremi e, in fin dei conti, verso il suicidio. Ma a me non interessa prendere una posizione di questo tipo, quanto piuttosto notare che se ogni impresa unica tira in ballo la personalità di chi la compie (ci fa chiedere chi è, non solo cosa sa fare), chi decide di scalare una montagna da solo, senza corde, rinvii e imbracature, si sta distinguendo dal resto dell’umanità. Quindi, più precisamente, la domanda a cui Free Solo tenta di rispondere è: cosa rende Alex Honnold diverso da qualsiasi altra persona al mondo?
Alex Honnold è un santo devoto all’arrampicata che vive con il minimo indispensabile e punisce il suo corpo con allenamenti usuranti. Dorme in un camper da più di dieci anni, è vegano e mangia direttamente dalla padella, portandosi una spatola alla bocca (dettaglio che ha fatto presa sull’immaginario pop americano al punto che oggi in vendita c’è una sua spatola firmata). Anche se non gli dispiace finire sulle copertine delle riviste di settore, o che si stia girando un documentario sulla sua straordinarietà, guadagna a suo dire quanto un dentista e, dato che è comunque troppo per i suoi costumi sacerdotali, un terzo dei suoi guadagni finiscono alla Honnold Foundation (con cui promuove l’utilizzo dell’energia solare per ridurre le ineguaglianze nel mondo). «Ma hai la stessa maglietta in metà delle foto», gli dice la sua ragazza, Sanni, sfogliando la parte centrale del suo libro. «Lo so», risponde lui.
Anche della sua ragazza parla come se si trattasse di qualcosa di superfluo, di un animale domestico, di un peccato veniale sulla via della santità: «È carina e piccola, porta un po’ di vita nell’ambiente, non prende molto spazio. Voglio dire, migliora la mia vita sotto ogni aspetto». Dopo che si infortuna mette in questione il loro rapporto: «Mi dicevo: mmm… non fa bene alla mia arrampicata». Lei è costretta a convincerlo a non lasciarla: «Credo che puoi avere entrambe le cose: una ragazza fissa e la scalata». (Della sua freddezza con Sanni parlerò anche più avanti, perché è davvero significativa, per adesso accontentatevi di questa brezza invernale).
Quando non si arrampica pensa ad arrampicarsi, ripete a memoria la sequenza di movimenti con cui deve salire come un bambino in piedi sulla sedia per declamare la poesia di Natale (anche nelle scene in cui è a torso nudo Alex Honnold sembra un bambino con addosso una di quelle magliette a cui hanno disegnato gli addominali); oppure si tiene appeso alla portiera del camper, con le gambe rannicchiate e il peso di tutto il corpo sulla punta delle dita. Riempie un diario di appunti sulle mosse da eseguire, con una scrittura minuta vagamente aliena. «Ci scrivi mai cose tipo: mi manca il mio cane?», gli chiede a un certo punto Tommy Caldwell, altra leggenda dell’arrampicata con cui Honnold si allena e dorme in rifugio. «No». Caldwell è il mito di gioventù di Honnold, che dice che se avesse avuto dei poster in cameretta – perché lui non è il tipo che mette dei poster in cameretta – ci sarebbe stato anche il suo. Caldwell dà anche la migliore definizione di quello che ha in mente Honnold in Free Solo: «Immaginate un’impresa atletica al livello di una medaglia d’oro olimpica, ma che se non vinci la medaglia d’oro muori».
C’è qualcosa di primordiale in un uomo che si arrampica a mani nude sulla roccia, ma una cosa del genere non si può neanche improvvisare. In un Ted Talk Alex Honnold ha detto di aver improvvisato durante l’altro suo grande free solo, di non aver pensato prima a ogni dettaglio quando nel 2008 ha salito l’Half Dome (un altro blocco di granito nello Yosemite, di cui qualche anno dopo ha stabilito anche il record di velocità in arrampicata libera), e di non essersi trovato bene.
Non può eliminare del tutto il rischio, anzi la possibilità che cada e muoia è centrale alla sua attività, per questo la sua preparazione è tesa a ridurlo quasi a zero. Lui lo chiama: «Allargare la zona di comfort». Calarsi dall’alto per provare e riprovare le mosse e i passaggi più difficili fino ad averli a noia, fino ad essere sicuro che lo può fare senza sbagliare, spolverare con lo spazzolino la roccia per pulire eventuali appigli di pochi millimetri. Lavorare fino a trasformare lo spaventoso in familiare, de-perturbare El Cap, per così dire. Oppure, per usare parole sue: «Lavoro nella paura, finché non è più una cosa spaventosa».
Un anno prima di riuscirci, nel 2016, ha fatto un tentativo a vuoto di free solo su El Capitan: dopo un’ora di scalata si è chiamato fuori (chissà che avrebbe fatto se fosse stato davvero solo, come sarebbe tornato indietro se non ci fosse stata la troupe di Free Solo ad aiutarlo). Quando poi ce l’ha fatta ha detto di essersi sentito «a mio agio come durante una passeggiata nel parco, che è quello che faceva la maggior parte delle persone nello Yosemite quel giorno».
Il metodo di Alex Honnold consiste nel ridurre progressivamente il margine di errore, fino a eliminarlo del tutto dalla sua performance. Anche perché se avesse compiuto un solo errore sarebbe morto e Free Solo non è il documentario sulla morte di uno scalatore – se lo fosse stato 1) lo avrei senz’altro saputo prima di mettermi a guardarlo e 2) sarebbe stato un documentario di Werner Herzog. Eppure mentre guardiamo Free Solo non possiamo fare a meno di provare una specie di tensione fredda, che non è la suspense che infesta i film horror, quanto piuttosto il tipo di paura che si prova a sentire le storie di sopravvissuti. L’effetto che ha su di noi Free Solo è al tempo stesso consolatorio (perché, appunto, Honnold sopravvive) e vagamente minaccioso, ricattatorio (perché se ci fossimo noi al posto suo saremmo morti di sicuro e, inoltre, chi ci dice che Honnold non morirà la prossima volta?), e secondo me è simile a quello cui aspira Honnold stesso.
Tutti gli scalatori, al netto degli sforzi brutali che compiono, con dei corpi che sono la versione scavata, spigolosa, cubista, dell’ideale classico di bellezza virile, riescono a farla sembrare una cosa naturale. Anche se sappiamo benissimo che non lo è, che l’uomo non è fatto per salire in verticale le pareti di roccia, tanto quanto non è fatto per volare. L’obiettivo è quello di diventare tutt’uno con la montagna, trasformarsi in uomini-insetto in lotta e al tempo stesso in armonia con la materia fredda e muta, e nelle foto che li ritraggono in azione, spesso con un punto di vista che renda conto della loro piccolezza rispetto al paesaggio, ci riescono. Quando poi si passa dal macro al micro, proprio come nei documentari sugli insetti, si apre il canale della grazia, diventano dei danzatori che eseguono una coreografia al rallentatore, aderendo alla montagna con pochi millimetri di suola, con i polpastrelli incollati a protuberanze di pochi millimetri.
Ma Alex Honnold va oltre la naturalezza e la grazia, le sostituisce con la programmazione e una tecnica infallibile, almeno fino a prova contraria. «Ascolta, neanche io voglio cadere nel vuoto e morire», dice a un certo punto. Ed è sinceramente stupito, forse addirittura infastidito quando le persone intorno a lui cercano di fargli capire che non vogliono vederlo morire. Anche se, come gli dice Caldwell a un certo punto: «Tutte le persone che hanno fatto del free solo una parte importante della loro vita, oggi sono morte» (segue un lungo elenco di celebrità del free solo oggi morte).
Da un certo punto in poi, il mistero di Free Solo non è più chi è Alex Honnold, ma perché sta facendo quello che sta facendo. Se volete, il mistero diventa El Capitan, un dente di roccia quasi del tutto liscio che ha ossessionato moltissimi scalatori prima di Honnold e che a me ha ricordato le pietre che nel quadro simbolista di Arnold Böcklin, L’Isola dei morti, circondano i cipressi al centro.
El Capitan, chiamato così da un battaglione americano a metà ottocento, una traduzione spagnola del nome che gli avevano dato i nativi che vivevano nella valle, sembra il retro della tela di Böcklin, il punto di vista opposto. Böcklin ha dipinto cinque versioni diverse per tonalità dell’Isola dei morti, di cui una diventata proprietà di Adolf Hitler. Esiste anche una foto del quadro con Hitler davanti, insieme a Molotov e Ribbentrop, scattata il giorno in cui Germania e Russia hanno firmato il patto di non aggressione. Lenin, D’Annunzio e Freud, ne avevano una copia, mentre Strindberg l’ha usata come sfondo per il dramma La sonata degli spettri.
Anche se dubito che Alex Honnold abbia mai visto il quadro di Böcklin, mi sembra in El Capitan in qualche modo riecheggi lo stesso tipo di magnetismo oscuro dell’Isola dei Morti. Non significa nulla, ma El Capitan ha anche ispirato il dodicesimo sistema operativo Apple e una foto della montagna faceva da sfondo ai Mac di quella generazione, compreso quello che vediamo usare a Honnold. (Confesso di essere caduto vittima anche io del fascino di El Capitan e di essermi ritrovato a scaricare foto in una cartella dedicata: preferisco quelle con più contrasto, in cui lo spigolo centrale – The Nose – sembra una lama che sbuca da terra a quelle in cui la luce romantica del tramonto o dell’alba ne addolcisce i contorni).
Free Solo lascia intendere che forse la maniacalità del suo protagonista, la sua capacità di concentrarsi sugli obiettivi escludendo tutto quello che ha intorno, quello che lo rende speciale, insomma, in realtà potrebbe essere una mancanza. A un certo punto lo vediamo fare una risonanza magnetica al cervello per vedere se c’è qualcosa di anomalo, e in effetti qualcosa di anomalo c’è. «La tua amigdala funziona, è solo che ti ci vuole uno stimolo molto più grande», gli spiega una dottoressa. «Cose che normalmente sono stimolanti per la maggior parte delle persone non lo sono per te». Alex pensa che magari la sua amigdala «è stanca, per via dei troppi anni sotto pressione». Pensa, cioè, di aver consumato la sua capacità di provare paura (e molte altre cose, anche se non è qui che approfondirò le mille ragioni per cui è comunque meglio avere un’amigdala perfettamente funzionante). Per quanto interessante, la risposta materiale, biologica, è per forza di cose parziale e insufficiente.
Anche la risposta biografica di Free Solo è un tiro corto, che non arriva a canestro. Anche se c’è qualcosa di effettivamente infantile in Alex Honnold e non è escluso che ci sia malinconia nei suoi ricordi di infanzia, quando dice che il padre, ossessivo come lui, secondo la madre addirittura autistico, «non parlava di niente». La madre che, dice sempre lui, era una perfezionista per cui qualsiasi cosa facesse non era mai abbastanza buona. Honnold racconta che da piccolo preferiva arrampicarsi da solo, all’esterno, pur di non dover parlare con degli sconosciuti in palestra; che nella sua famiglia non si usava la parola “amore” (usa la perifrasi “The L-world”, come fosse una parolaccia) e nessuno lo abbracciava. Che ha dovuto imparare ad abbracciare. La solitudine può essere una buona ragione per dedicare la propria vita, e forse la propria morte, alla scalata? L’ossessione per El Capitan è il pieno che riempie il vuoto dentro il piccolo Alex? Free Solo ci fa capire che c’è qualcosa che non va, ma non può andare a fondo. Un documentario forse non è lo strumento critico più adatto (soprattutto, ripeto, perché non è un documentario di Werner Herzog).
La risposta che dà Alex Honnold al mistero dietro Free Solo è contraddittoria, e cioè che non c’è nessun mistero, che con la giusta programmazione, e un allenamento ossessivo quanto il suo quasi chiunque potrebbe farlo. In realtà il fatto che Alex Honnold non sia uno sbruffone senza consapevolezza dei propri limiti e che neghi nel silenzio che quello che sta facendo è terrificante, beh, è ancora più terrificante. Così facendo si direbbe, anzi, che per lui il punto sia solo ed esclusivamente restare in vita, o meglio non uccidersi. Che il suo scopo sia arrivare in cima solo per poter guardare in basso e gridare, o pensare, “Sono ancora vivo”.
E non è un’impressione solo mia se persino lo scrittore che deve coprire la storia per National Geographic (pubblicata nel numero di marzo 2019), e che lo conosce personalmente, dopo il primo tentativo andato a vuoto tira un sospiro di sollievo: «Grazie a dio, penso. Alex vivrà». Sembra che Honnold lo faccia per ricordarsi di essere vivo, che debba avvicinarsi il più possibile all’oblio per farlo, a quel vuoto che ti risucchia e da cui, oltre un certo punto, non puoi tornare indietro – ho letto che cadendo dalla cima di El Cap ci si possono mettere anche 14 secondi prima di toccare terra, un tempo sufficiente per rimpiangere le proprie scelte.
Può essere interessante a questo punto confrontare Alex Honnold con Tommy Caldwell, che come detto compare in Free Solo ma che è anche protagonista di un altro documentario, The Dawn Wall (lo trovate su Netflix), uscito una decina di giorni prima di Free Solo negli Usa. La differenza principale tra i due documentari, che hanno una struttura simile, è che Caldwell è una persona vera mentre Honnold sembrerebbe di no.
Quando aveva ancora una ventina d’anni Caldwell è stato rapito insieme alla fidanzata e a due amici mentre scalava in Kirghizistan, per liberarsi ha colto l’unico momento in cui li hanno lasciati soli con una guardia, per gettarlo a valle, nel precipizio. L’idea di aver ucciso un uomo (che poi, invece, si scoprirà essere sopravvissuto) lo tortura, così si dedica a obiettivi sempre più nobili e non si ferma neanche quando si taglia un dito con la sega circolare. Senza l’indice della mano sinistra apre cinque nuove vie su El Capitan, poi la moglie lo lascia e lui decide di scalare per primo il Dawn Wall, come progetto dichiaratamente autodistruttivo, apparentemente impossibile.
Caldwell deve leggere nei rilievi della montagna e tracciare una strada come se dovesse uscire da un labirinto, unendo punti magari lontani con pezzi a prima vista lisci di roccia. Deve far parlare la roccia nuda, scontrandosi continuamente con la possibilità che quello che sta provando a fare magari è davvero impossibile, con il pensiero che magari quella strada che sta cercando non esiste. Dopo quanti tentativi la perseveranza diventa stupida ossessione? E invece nel portarlo a termine (ci ha messo otto anni) ha trovato un compagno di scalata fedele, si è risposato e ad abbracciarlo in cima a El Cap ci ha trovato il suo primo figlio.
Quello che non dice The Dawn Wall è che prima di decidere di dedicarsi a questo progetto Caldwell aveva pensato di provare a salire El Cap in free solo: «Se fossi caduto, almeno il dolore sarebbe svanito». Tommy Caldwell forse cercava una specie di redenzione, dai sensi di colpa per l’omicidio che pensava di aver commesso, dalla storia d’amore finita, e probabilmente l’ha trovata.
La distanza emotiva che separa Tommy Caldwell e Alex Honnold è maggiore di quella che separa chi sta ai piedi di El Capitan e chi sta in cima. In una scena sinceramente toccante di The Dawn Wall Caldwell è quasi arrivato in cima, ma il suo compagno, Kevin Jorgenson (sorprendente simile a Rafa Nadal, altro sportivo ossessivo), è rimasto bloccato a qualche tiro di fune di distanza e di fatto ha deciso di rinunciare. Dopo due settimane e mezzo in cui hanno vissuto appesi alla facciata che per prima viene illuminata dal sole di El Capitan, Caldwell sente che non sarebbe lo stesso, per lui, se arrivasse in cima da solo. Così convince Jorgensen a tornare indietro e lo sprona finché non supera il proprio limite. La mattina in cui devono fare gli ultimi metri si godono l’alba nella tenda, pensano che tutto sommato potrebbero restare ancora un po’ lì a godersi il paesaggio.
Nella scena più toccante di Free Solo invece Alex Honnold parla con Sanni, la sua fidanzata, sconvolta dalla morte del famoso scalatore Ueli Steck, mentre scalava l’Everest. Sanni si immedesima nella moglie di Ueli Steck e Alex non trova di meglio da dire che: «Beh, ma cosa si aspettava?». In un altro momento Honnold ricorda di aver avuto conversazioni simili con altre ragazze, a cui rispondeva: «Troverai qualcun altro, non è un dramma».
Ovviamente per un anaffettivo è una questione razionale, di priorità. Alex dice che per Sanni lo scopo della vita è «la felicità. Stare con le persone che ti fanno bene e passare dei bei momenti». Per lui, invece, sta tutto «nella performance», perché «chiunque può essere felice e comodo, e non puoi fare niente di buono con la felicità e la comodità». Più avanti paragona la mentalità del free soloist a quella di un guerriero. Insomma, ci siamo capiti.
Alla fine la parabola di Alex Honnold sembra fatta della stessa sostanza di qualsiasi altra storia di sport del ventunesimo secolo, quello stesso miscuglio di luoghi comuni pseudo-motivazionali che temo rappresentino meglio di ogni altra storia lo spirito dei tempi in cui è stato prodotto Free Solo, di quella cultura che lo ha premiato con l’Oscar. Per aderire alle asperità della montagna Alex Honnold pensa di dover essere una macchina priva di emozioni. «Senti, neanch’io voglio cadere nel vuoto e morire», dice a certo punto. «Ma è soddisfacente sfidare se stessi e fare qualcosa di buono. E questa sensazione è accresciuta dalla consapevolezza che stai rischiando la morte. Non puoi commettere nessun errore. Se stai cercando la perfezione, il free solo è la cosa che ci si avvicina di più. Ti fa sentire bene essere perfetto, anche solo per un momento». E cosa c’è di più violento di una cultura che come unica alternativa all’eccellenza ti propone la morte? Alex Honnold sembra il compositore Leverkühn, il protagonista del Doctor Faust di Thomas Mann, che in cambio dell’eccellenza dà al diavolo la propria anima, la capacità di provare sentimenti. Quella di Alex Honnold sembra una metafora sull’ideale cui la nostra società aspira, l’ideale in cui se sbagli sparisci nel nulla.
Ecco forse la vera domanda che solleva Free Solo non riguarda Alex Honnold ma la cultura capitalista occidentale. In fondo è almeno dai tempi in cui Patrick de Gayardon pubblicizzava una marca di orologi volando con la tuta alare nel Grand Canyon, ovviamente finché non è morto provando la tuta alare, che celebriamo questa idea estrema di eccellenza. Un’idea di grandiosità umana fuori scala, che ci mette a confronto direttamente con le più grandi opere della natura. Forse un saggio non è il miglior strumento per criticare un documentario biografico, ma c’è qualcosa che mi fa pensare che Alex Honnold sia il tipo di avventuriero che rappresenta meglio la nostra mentalità. E allora più che il Doctor Faust mi viene in mente Ulisse, che Dante mette nel suo Inferno per aver sfidato i limiti umani, superando le Colonne d’Ercole con le sue navi. Ma Ulisse lo ha fatto per desiderio di conoscenza, per sapere cosa c’era oltre il confine, Alex Honnold è l’eroe per una società che non ha niente di nuovo da scoprire e che non può far altro che fissare la morte negli occhi.
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mmm… interessante!
Nella mitologia greca l’eroe è colui che ha capacità straordinarie, precorre i tempi (quindi non è capito) e ha il coraggio di superare i limiti (vigenti nel presente) aprendo all’umanità una conoscenza nuova. Proprio per questo l’eroe muore sempre giovane.
Cosa che non auguriamo a Honnold. E che non avverrà se il procedere nella sua vita avrà una trasformazione…
Mah, Mosca, forse troppi italiani che parlano di alpinismo non hanno letto le antiche fiabe, peraltro cortissime, de “la volpe e l’uva” e “il corvo e il cacio” e si comportano come “il lupo e l’agnello”, ma son solo dei ranocchi che si gonfiano per apparire come dei buoi.
Scusate tutti, ma oggi scendevo da malga Ombretta e ho incontrato tanta gente che parlava con sussiego di alpinismo e nemmeno salutava.
Se non si sono vissute certe avventure si dovrebbe stare zitti, né lodare né criticare, ma è una mia opinione che non vale nulla per definizione.
C’e molto da ridere. Utilizzate gli stessi argomenti dei baroni universitari. E mascherate impulsi totalitari ostentando un libertarianismo da liceo occupato.
Mi domando se per alcuni è così difficile riconoscere semplicemente che qualcuno ha fatto una cosa da estraterrestre.
Che non vuole e non deve essere un esempio da seguire .
Evidentemente si, è difficile.
Parrucconi…mi viene da ride😂
Mosca,
Auer sul Pesce è stato fenomenale ma se lo poni sullo stesso piano di Honnold su Freerider non sai di cosa stai parlando. Io il Pesce l’ho salito. Freerider no, troppo lontano dalle mie capacità e poi sono ormai vecchio, ma ti posso assicurare che sono imparagonabili. Viste le prestazioni non mi soffermerei su doti come modestia, rispetto, ecc . Honnold ha fatto una cosa da marziani che difficilmente sarà superata. E’ amico di mio figlio maggiore, abbiamo diversi amici in comune e non mi sembra immodesto affatto. E’ soltanto un extraterrestre.
Il commento di Ale Mosca potrebbe essere copiato e incollato come commento fisso alla stragrande maggioranza di post di questo blog di parrucconi che si pensano depositari delle grandi verità dell’alpinismo…
appunto , io non sono d’accordo con Manusia.
Quindi lo posso dire!
Perchè me ne dovrei stare zitto?!
Gogna ci ha regalato questo articolo. Cosa dobbiamo farne ? leggere e basta?
L’abbiamo letto, ci abbiamo riflettuto sopra e abbiamo espresso la nostra opinione. Altrimenti che senso ha questo blog?
Non mi sembra che essere in disaccordo con l’articolo sia spalare fango.
L’articolo di Manusia e’ senza dubbio ben scritto, si legge con piacere e propone riflessioni sul personaggio Honnold interessanti, con spunti condivisibili. Suppongo che le sue fonti siano essenzialmente il film , la cui visione abbia generato in lui l’interesse per il personaggio. Per me il punto critico sta esattamente qui: cosa esattamente ha trovato di sensazionale nell’impresa di Honnold? Credo sia un misto di fascinazione visiva ( le immagini, la grandiosità’ del Cap ), e l’idea che ‘se sbaglia muore’. Pur essendosi informato su alcune categorie base dell’arrampicata, si capisce bene che la sua comprensione di quanto Honnold fa rimane superficiale ( vedi il termine giornalistico ‘scalata a mani nude’ ). Niente di male si potrebbe dire, ma sorge il dubbio che la motivazione per un articolo simile potrebbe sorgere per uno slackliner, o per altro esercizio funambolico che abbia impatto visivo e sottenda la possibilità’ della morte in ogni istante. Il che nulla toglie al valore delle considerazioni che fa, ma relega l’articolo, per restare a quanto detto da Ale Mosca, all’opinione di un collega di ufficio, anche se intelligente e buon scrittore.
Off-topic, per me la salita di Auer – improvvisata e senza clamori – ha notevolmente più’ fascino
Ale Mosca, 90 minuti di applausi!
Direi che l’articolo di Manusia fa riflettere e, anche solo per questo, lo ritengo estremamente interessante. Grazie Gogna per avermelo fatto conoscere e leggere. Altrettanto interessante, come spesso accade qui, è leggere i commenti dei lettori e, in particolare, di coloro fra questi che, a fronte di un libertarismo quasi innocente e dal sapore alpino-bucolico, tapperebbero violentemente la bocca a tutti coloro che in questo mondo non sono stati in grado di, o non hanno voluto, cimentarsi in rischiose imprese verticali. Non so davvero cosa spinga costoro a rigettare le opinioni di altri, semplicemente sulla base del fatto che contano meno ore passate appesi a qualche montagna, meno ore a cimentarsi con l'”inutile” (e non lo dico io). Amo l’alpinismo, pratico l’alpinismo, corro in montagna, arrampico un giorno si e l’altro anche (lavoro e famiglia permettendo) e, tuttavia, non credo che questo mi giustifichi a spalare fango sulle opinioni del mio collega di ufficio che, invece, non stacca mai le mani dal PC: non gioisce delle esperienze che mi rendono felice ma, non credo che sia un imbecille solo per questo. Manusia riflette, porta il suo argomento a spasso con bravura e finezza intellettuale, suggerisce dubbi e ulteriori riflessioni. Cosa c’è di sbagliato in tutto questo, amici miei? Nella vita, non essere d’accordo è spesso il motore per scoprire il nuovo, l’inaspettato; in taluni altri casi, purtroppo, e per taluni idioti, è motivo per spararsi (figurativamente e non). Modestia, cari miei, ci vorrebbe molta più modestia e silenzio, e voglia di ascoltare: in fondo, non costa molto. Un saluto speciale a tutti coloro che hanno inorridito di fronte alle parole di Manusia e che, d’altra parte, Alex Honnold lo conoscono tanto quanto lui perchè, in fondo, non ci hanno nemmeno mai mangiato una pizza insieme! PS: Quando Auer ha ripetuto il Pesce slegato, non aveva telecamere a sbirciarlo. Questo ci fa pensare? Chissà!
Saluti!
Ho praticato alpinismo negli anni 2000, quelli dalle mia giovinezza. ho fatto qualche solitaria. Quelle che oggi chiamano free solo. Nulla di stratosferico. Ma se fossi caduto oggi non sarei qui a scrivere queste righe. secondo me manusia ha centrato molto bene il problema. Chapeau. Aggiungerei una cosa sola. Quello che lui chiama voglia estrema di eccellenza è la voglia di essere Dio, di non essere più cacche mortali e sudaticcie che si aggrappano ad una roccia. Bravo Manusia.
Sono completamente d’accordo con Giovannini Massari.
Per quanto mi riguarda posdso dire questo:
Un mese fa assieme ad un amico siamo stati invitati ad una serata a Lucca sul tema delle solitarie. Proprio perchè io e questo mio amico abbiamo delle esperienze in merito. Io di un certo modo di fare le solitarie cioè assicurate. Il mio amico invece fatte in free-solo.
Due concezioni e realizzazioni completamente diverse. Io ho spiegato le mie di ragioni e le mie esperienze . Lui le sue.
Io ho cercato di spiegare che non avevo quella motivazione e la tranquilllità interiore per poter salire in solitaria non assicurata. Che per me la solitaria era come un completamento della mia attività di montagna che ho sempre cercato di fare a 360° . Andare in solitaria per il gusto di essere te e la parete, la montagna e per poterlo fare con un minimo di sicurezza, accettare la complicazione e i lunghi tempi per l’autoassicurazione.
Il mio amico ha spiegato le sue. Una concezione diametralmente opposta. Sicuramente più moderna. Per lui la solitaria doveva essere un divertimento, che non ci sarebbe stato se gli sarebbero state necessarie ore e ore di manovre.
Valutando imprese come quelle di Honnold, terrei anche presente al ruolo che da qualche tempo (un paio di decenni?) hanno nella comunicazione le tecnologie audio/video fotografiche, che, gestite da una organizzazione eccellente di equipe, sono in grado di documentare come mai in passato gli exploits. Il tutto, abbinato alle altrettante tecnologie di comunicazione e rete in “tempo reale” (vero o presunto o illusorio che sia…) ed ai “social networks” rimodulano ed amplificano ogni azione, anche se in questo caso tutto muove da un “film”…A mio avviso, preso atto di queste “innovazioni”, come dell’eccezionalita’ dell’impresa del nostro Honnold, da “vecchio”appassionato di cose montane, penso a tutti gli alpinisti, piu’ o meno noti, che si sono cimentati (a volte anche per salvar la pelle) in altrettanti “free solo”…chissa’ ….ci fosse stata una camera riprenderli…
Al di là dell’articolo che esprime un’opinione condivisibile o meno sul Alex Honnold e il suo “Free solo” credo che l’approccio a questa pratica e alla sua spiegazione sia spesso fuorviata da quello che agli occhi di tutti appare l’aspetto più sconvolgente e cioè il rischio di morire.
Il rischio di morire non è che una delle possibilità di questa attività che certo viene considerato da chi la pratica ma viene ampiamente compensato dall’esigenza di riuscire a salire il progetto che si ha in mente.
Ed è proprio sull’ ”esigenza “ di riuscire in quello che sogniamo di fare che bisogna porre l’accento poiché il resto (rischio, difficoltà) è materiale gestibile e programmabile.
Perche’ Honnold o altri soloists fanno quello che fanno non è spiegabile neanche a loro stessi e forse se trovassero una spiegazione neanche continuerebbero a farlo ma quello che è certo è che realizzando questi loro sogni appagano un loro bisogno attraverso un percorso difficile di cui emerge soltanto il risultato finale è che spesso dura anni di preparazione fisica e mentale.
Niente adrenalina che corre nelle vene quindi, niente sfida mortale ma grandissima preparazione per un risultato eccezionale agli occhi altrui ma anche, contemporaneamente, altamente appagante per se’ stessi.
Questo modo di agire vale in ogni campo dell’agire umano e può destare un solo sentimento in chi vede e sa osservare: una sconfinata ammirazione.
Alberto Benassi, purtroppo lo so. E mi innervosisco quanto te credimi. Per questo leggo sempre con attenzione chi alpinista non è. Perché mi insegna a riflettere su come rispondere quando ho a che fare (mi occupo di divulgazione scientifica e ambientale) con chi un certo modo di intendere, di vivere non lo conosce.
Gallese
il problema spesso è che chi non è alpinista e non sa di cosa parla, si permette di sparare giudizi a raffica spesso e volentieri senza una base o solo per fare colpo o percè non condivide questa attività. E siccome magari è anche bravo a scrivere o parlare, oppure riveste un ruolo, influenza molto l’opinione pubblica.
Lo si vede molto quando accadono degli incidenti in montagna. Vengono fatti pesare molto, come se tutto il male del mondo fosse li. Come quelle morti fossero assurde, mentre le morti sul lavoro o sulla strada vengono accettatte o peggio giustificate.
Basta sentire i commenti che vengono fatti.
Credo che i commenti qui, perlomeno il mio, seguano semplicemente la suggestione intellettuale dell’articolo per puro piacere speculativo. Ovvio che non si parli più di alpinismo in questo caso. Ma è interessante comunque. È una riflessione che svicola dal personaggio e segue una strada sua. La si può esplorare o no. E comunque, come chi non è alpinista osserva chi lo è, può avere anche un interesse diretto per chi pratica la montagna: ne determina i modelli di percezione, con tutte le conseguenze negative o positive. Anche per quelli che ne decidono usi e destinazioni, con conseguenti divieti e permessi. Non sottovaluterei pareri, o sciocchezze, di chi alpinista non è ma ha il potere di farsi leggere.
Denis, un’ opinione alla fine la possono esprimere tutti. Anche chi di una certa materia, attività sa poco per non dire nulla.
Però c’è un limite.
Certo che se io volessi confrontarmi sulla fisica con Eistein sarei ridicolo. Se avessi la possibilità di parlare con lui , non cercherei un confronto , non spareri giudizi od opinioni , piuttosto gli farei domande per capire.
Non capisco perchè uno che non sa nulla di alpinismo si metta a scrivere un papiello del genere. Praticamente non sa nemmeno di cosa sta parlando. E ignora completamente l’esistenza di grandi dell’alpinismo che praticano e hanno praticato alpinismo “free solo”.
Un estraneo che scrive ciò che pensi e che hai nel tuo animo, solo per averti visto in un filmato! pazzesco
Mi pare che l’articolo più che altro cerchi di trovare una spiegazione a qualcosa di incomprensibile all’autore e non c’entri nulla con Honnold, quello vero.
Anche alcuni commenti qui mi paiono affetti dallo stesso difetto.
Intendo dire che l’Isola dei Morti o di “compenso adrenalinico”, seppure possono dirci qualcosa di chi ne parla, di certo non significano nulla per Honnold, che l’adrenalina non sa nemmeno cos’è per fare quello che fa.
Anche la contrapposizione Honnold-Caldwell mi pare del tutto ingiustificata, anzi “inventata” da qualcuno che cerca di spiegare qualcosa che spiegabile non è: l’alpinismo e, in particolare, l’arrampicata.
Caldwell è una figura positiva perché pur andando ad arrampicare trova moglie o ha un figlio…ma cosa c’entra?
In definitiva un’interessante costruzione mentale per cercar di capire qualcosa che semplicemente non è comprensibile né tantomeno spiegabile, fatta da qualcuno che non ha la più pallida idea della cosa che vorrebbe spiegarsi.
Intellettualisticamente bello.
Come ogni dimensione intellettuale non puó andare ad indagare in quella zona che infatti è solo citata di striscio: stato di grazia.
Una condizione dove le potenzialità di conoscenza dell’intelletto cedono il passo ad una dimensione che non sta nell’io e ne va oltre.
Dunque strumenti intellettuali inadatti ad operare nell’infinito.
Certamente la presentazione non rende merito all’articolo che, seppur opera di un non addetto ai lavori, offre un’analisi molto interessante, proprio perché, come tutti abbiamo capito, la straordinarietà dell’impresa viene percepita facilmente da tutti, alpinisti e non. Bisogna però aver provato ad arrampicare slegati (non e necessario fare El Cap, basta averlo fatto compatibilmente con i propri limiti) per poter comprendere come l’ossessione possa impadronirsi di noi promettendoci un compenso adrenalinico. Per chi non è alpinista e più facile giudicare l’individualismo del gesto; per noi appassionati è più difficile ammetterlo. E’ per questo che l’analisi mi è parsa lucida e libera da pregiudizi.
È uno scritto credo molto bello. Non importa essere o meno alpinisti, per interrogarsi sull’uomo, prendendo spunto da una sua impresa. È ciò che accende nel nostro sentire, o nel nostro razionale, il motore di un pensiero a quel punto molto più ampio. Magari da divenire quasi fuori luogo, magari no. Quando Dante descrisse e diede voce a Ulisse lo fece con il suo metro, non conosceva affatto il senso reale e preciso che i greci dei tempi omerici gli attribuivano, molto diverso da quello che, attraverso il Sommo Poeta, dall’immagine infernale abbiamo trasformato in ideale icona di valori. In fondo questo articolo, mi piace pensarlo un po’ così. E per questo mi diventa interessante e acuto. È una questione di prospettiva, non di realtà.
Però una persona dotata di intelligenza e senso critrico un’idea se la può anche faree, provare a cercare di capire anche se è completamente a digiuno dell’argomento.
Dico cercare di capire non giudicare a priori.
Su questo avrei dei dubbi. Perchè non credo che questa società, che sa tante cose, almeno crede di saperle, non ha più nulla da scoprire.
Anche della morte sa tutto?
L’Umanità, fino ad oggi, alle spinte individuali e sociali che ogni uomo sente e vive profondamente non ha ancora trovato una soluzione globale (dittature, regni, comunismi, democrazie, socialismi,…) e ha inventato tante religioni e ideologie per trovare una consolazione e una giustificazione del proprio vivere e una risposta alla propria paura della morte.
Per me credere di aver capito le eccellenze umane e il loro operato, anche come viene sfruttato economicamente dalla società (Honnod è una eccellenza e ha una sua rigidissima etica), è pura illusione: solo le eccellenze riescono talvolta a comunicare fra di loro.
Ma ragionarne, come in questo scritto, e discuterne è per me sempre molto interessante e raro.
Ogni volta che si scrive di alpinismo, ci si dovrebbe ricordare una cosa. L’alpinismo è l’antitesi della morale, cosa che molti che si definiscono alpinisti spesso dimenticano, ed è invece la prevalenza dell’etica. Etica che ognibalpinista ha la libertà di scegliere. E la bellezza dell’alpinismo sta tutta li.