Armando Aste, cercatore d’infinito – 1 (1-2)
Questo articolo in due puntate dedicato ad Armando Aste, recentemente scomparso, è stato realizzato con il determinante contributo del sito www.armandoaste.it, ideato e curato da Alberto Cecchetto.
Lettura: spessore-weight***, impegno-effort***, disimpegno-entertainment**
Armando Aste nasce a Reviano di Isera (TN) il 6 gennaio 1926, da padre contadino e madre operaia, primo di sei figli. Passa i primi anni col nonno mugnaio: dopo le scuole obbligatorie si mette a fare i lavori più disparati, cercando di aiutare la numerosa famiglia, fino a che nel 1944 viene assunto in una manifattura tabacchi: «Per produrre il vapore necessario alla lavorazione del tabacco e per tutti i servizi, si dovevano bruciare centoventi quintali di carbone ogni giorno. Quello era il mio allenamento durante la settimana, perché mi ero abituato a spalare usando alternativamente la destra e la sinistra», racconta.
Aste, di nascosto, si mette a imitare alcuni giovani di Rovereto che vanno ad arrampicare sulla guglia di Castelcorno: «Ero fuochista alla Manifattura, avrei voluto studiare, ma avevo una famiglia numerosa da aiutare… La montagna è stata la mia valvola di sfogo e ha reso bella la mia vita».
Il Brenta, facilmente raggiungibile in bicicletta da casa, diventa il suo territorio d’elezione. Un amico calzolaio gli regala una corda di canapa di 30 metri portata via dalla naja, poi gli confeziona il suo primo paio di pedule di pezza, con la suola di feltro. È così che inizia la carriera Armando Aste.
Il 29 luglio 1952 con Franco Salice traccia una via nuova sulla parete sud-est della Cima d’Ambiez. Nello stesso anno incontra Fausto Susatti: è un sodalizio che li porta lontano, a ripetere le vie più difficili, non solo in Dolomiti.
Armando Aste sulla via Ezio Polo al Piz Seràuta
Dal 31 luglio al 1 agosto 1953, sempre con Susatti, Aste traccia una nuova via sulla Est della Cima Sud di Pratofiorito, 400 metri, 70 chiodi. Questa via si distingue, proprio perché in quel periodo impazzavano le aperture in prevalenza di artificiale. Basti pensare (28, 29 giugno 1953) alla parete sud-est del Monte Taè, via tracciata da Albino Strobel Michielli e Beniamino Franceschi, 400 metri, 90 chiodi; oppure (12, 13 luglio 1953) al diedro sud-sud-est della Paganella, aperto da Cesare Maestri e Claudio Zeni. Più miste e dello stesso periodo sono (24, 25 agosto 1953), la parete est della Cima del Bancon, di Armando Da Roit e Robert Gabriel, 600 metri, ore 24, 100 chiodi e 3 cunei; oppure (25, 26 luglio 1953), Gran Diedro Est della Brenta Alta, di Andrea Oggioni e Josve Aiazzi, 500 metri, 120 chiodi. Equivalente, come concezione, alla via di Aste sulla Cima di Pratofiorito è solo la parete sud del Monte Cernera (27 luglio 1953), dove Lino Lacedelli, Claudio Zardini, Beniamino Franceschi e Candido Bellodis aprono un itinerario di 450 metri, 70 chiodi, dopo precedente attrezzatura.
Del 1954, assai famosa e ripetuta, e aperta totalmente in libera, è una sua via sulla parete nord-ovest della Punta Civetta (26, 27 e 28 luglio), lungo la fessura di destra, parallela a quella seguita dalla via di Alvise Andrich. Il compagno è Susatti. Mariano De Toni gli aveva detto: «Se fate quella via ve la ripetono mille volte!». E così è stato, perché a determinare le sue scelte è un suo singolare intuito per la «via naturale», la linea più estetica, suggerita dalla logica e dalla struttura stessa della roccia dove si possa esplicare la sua arrampicata, elegante, mai aggressiva, possibilmente libera.
Nello stesso anno continuano a “sbancare” l’attenzione le aperture molto più artificiali, quali: (28 giugno), Croda dei Rondoi, parete sud-est, gran diedro, gli Scoiattoli di Cortina Beniamino Franceschi, Claudio Zardini, Bibi Ghedina e Candido Bellodis, con precedente attrezzatura, 450 metri, 45 chiodi e 15 cunei; (1, 2 agosto), Gran Mugone, parete sud, Bepi De Francesch e Francesco Innerkofler, 350 metri, 100 chiodi; (2/4 agosto), Cima di Terranova, parete nord-ovest, Georges Livanos, Robert Gabriel, Armando Da Roit, 125 chiodi, 400 metri + 400 di zoccolo.
Del 1955 (30 giugno-1 luglio) è la nuova via della Concordia ancora sulla muraglia dell’Ambiez, aperta da Aste con Angelo Miorandi e assieme alla cordata degli amici Andrea Oggioni e Josve Aiazzi (400 metri, 80 chiodi e 4 cunei).
È ormai chiaro che, forte di una fede religiosa che non conosce incertezze, Armando Aste si avvicina alla montagna con infinito rispetto e la sua ambizione non è più importante delle esperienze valide alla propria vita spirituale.
Una via dello stesso anno, ugualmente bella ma più artificiale, è quella di (14, 15 agosto 1955) Candido Bellodis e Beniamino Franceschi alla parete nord-ovest della Torre d’Alleghe, 105 chiodi. Per trovare qualche esempio di concezione simile a quella di Aste dobbiamo attendere il 17 e 18 agosto 1956, quando sull’immane parete della Marmolada d’Ombretta Toni Egger e Cesare Giudici aprono lo spigolo sud-est.
L’incontro di Aste con Franco Solina è determinante. Solina racconta: «Rifugio Agostini (Dolomiti di Brenta) 14 luglio 1957. Una data, una parete, un incontro che non dimenticherò mai. Era domenica… alla gioia per avere ripetuto con l’amico Arturo Crescini la Fox -Stenico sulla parete sud-est della cima d’Ambiez, un’elegante via di roccia al tempo guardata con rispetto, aveva fatto eco la felicità di avere trovato sul libro di vetta l’autografo del mitico Hermann Buhl che alcune settimane prima aveva superato la stessa Fox – Stenico in prima solitaria. Ma quel giorno le coincidenze sembravano non finire. All’Agostini l’amico Girardi, che attendeva con Tino Bini il nostro ritorno dalla scalata, incontra Armando Aste che conosceva per fama. I due parlarono a lungo di scalate e di progetti. Aste disse anche che stava cercando un compagno per il Dru. E Girardi non aveva esitato a fare il mio nome.
Conoscevo Aste per avere letto di alcune sue imprese sulla rivista del CAI ma personalmente non l’avevo mai incontrato. Alcuni giorni dopo, Aste mi scrisse una lettera: mi invitava a Rovereto ad arrampicare nella palestra di Castelcorno. Ci intendemmo subito e in agosto andammo al Dru che trovammo imbiancato di neve fino al livello del ghiacciaio. Attendemmo alcuni giorni a Montervers ma, constatato che la situazione non accennava a migliorare, tornammo a casa. O meglio, andammo direttamente ad arrampicare in Dolomiti fino allo scadere delle ferie. Cosi si è formata la nostra cordata».
Un giovane Armando Aste arrampica nella palestra di Castel Corno (Rovereto)
Aste apprezza subito la modestia, la determinazione, la forza morale e la preparazione fisica di Solina: i due formano una cordata per straordinarie imprese. Solina e Aste si distinguono infatti per la capacità di convivere con la parete, aspettando anche più giorni se viene maltempo, magari provando gusto a bivaccare sotto la cima, a impresa finita.
Dal 5 al 7 settembre 1957 i viennesi Walter Philipp e Dieter Flamm salirono la direttiva di un bellissimo diedro sulla Nord-ovest della Civetta; l’itinerario non portava alla vetta ma a una cima secondaria, la Quota 2992 m, che in seguito fu chiamata Punta Tissi. È il ritorno alla grande libera: Claudio Barbier, dopo la prima ripetizione, assicura di non aver mai fatto una via così difficile. Sulle quaranta lunghezze Philipp piantò solo 44 chiodi + 43 di sosta.
L’itinerario, alla fine del gran diedro, prima di inserirsi in una lunga serie di difficili camini, passa lungo una traversata estrema, lungo la quale non si poteva tornare indietro. Il diedro è il tratto più difficile tecnicamente. La via presenta pochissimi passaggi in artificiale, ma nel 1985 Renato Panciera e Giovanni de Biasi hanno fatto la prima totalmente in libera, fino all’VIII- (pochi metri).
L’estate 1958 è caratterizzata da una salita rimasta “sconosciuta”, la parete nord-est dell’Odla di Valdussa, salita da Hans ed Ernst Steger, 550 m, VI e A2 (17 luglio, uno stile sud-tirolese che anticipa quello di Reinhold Messner…) e da una celebratissima: dopo alcuni tentativi dell’anno precedente, dal 6 al 10 agosto 1958 fu salito un nuovo itinerario diretto sulla parete nord della Cima Grande di Lavaredo. Autori della tanto discussa prima furono i sàssoni Dietrich Hasse e Lothar Brandler, il tedesco Jörg Lehne e l’austriaco Sigi Löw. Per 550 metri, con molte traversate e diagonali, usarono 180 chiodi, più 10 cunei e 12 chiodi speciali a pressione; avevano il cordino di collegamento.
I tedeschi erano tornati quindi sulla scena dolomitica con grande sfarzo. All’impresa di Philipp sulla Civetta ecco accostarsi un exploit d’altro genere ma senza dubbio innovativo. Ci fu un grosso scandalo tra i “puristi”, perché per la prima volta i chiodi a pressione erano programmati in serie.
Subito dopo, ancora loro: dal 9 al 12 settembre, ecco l’exploit sulla Parete Rossa della Roda di Vael: dedicata a Hermann Buhl, la via di Lothar Brandler e Dietrich Hasse (200 chiodi + 8 a pressione, 400 metri), fa scuola perché è vittoria su una lavagna rossa che dava ben poche speranze.
Aste lo troviamo praticamente la settimana dopo, dal 17 al 20 settembre 1958, sull’Anticima del Piz Seràuta, parete sud. Con Toni Gross apre la via Ezio Polo, 500 metri, 200 chiodi + 20 cunei, questa volta inventandosi l’uso di manici di scopa tagliati su misura, da inserire all’interno di un’ampia fessura e facenti la funzione di scala a pioli. Questa via ebbe poi una riscoperta in arrampicata libera (Heinz Mariacher e Luisa lovane, 14 agosto 1982), con ciò diventando una delle più interessanti e belle vie della Marmolada, a loro giudizio.
Armando Aste arrampica sulla Punta Oreste Gastone. Foto: Armando Biancardi.
La prima via che Aste e Solina aprono assieme è sulla Nord della Punta Chiggiato (16/19 agosto 1958), poi nel 1959, dal 10 al 15 agosto, si rivolgono ancora alla parete sud del Piz Seràuta (Marmolada), dove il maltempo li blocca per tre giorni: ma dopo cinque bivacchi in parete la via della Madonna Assunta è terminata, una stupenda realizzazione del grande roveretano, misto libera estrema e artificiale, destinata a essere temuta per tanti anni (700 metri, VI+, A2, 200 chiodi + 15 cunei).
Nel 1960 (22/24 agosto) la cordata, rinforzata da Josve Aiazzi, sale in tre giorni lo spigolo nord-ovest dello Spiz d’Agner Nord, nelle Pale di San Martino e lo dedica a Fausto Susatti, caduto l’anno prima alla Cima Canali (1000 m, fino al VI). Con Angelo Miorandi, Aste e Solina tornano sulla stessa montagna l’anno dopo (1961), e questa volta tracciano in due giorni (4/5 agosto) lo spigolo nord-est (700 m, VI), e lo dedicano ad Andrea Oggioni, purtroppo deceduto al Pilone Centrale del Monte Bianco due settimane prima.
Sempre nel 1961, Aste apre con l’amico Armando Biancardi due vie nuove nel gruppo del Marguareis (Alpi Liguri), la prima sulla parete nord della Punta Oreste Gastone (18 luglio), la seconda sullo spigolo nord-est della Punta Tino Prato (22-23 luglio).
L’anno dopo Aste e Solina si ritrovano ad agosto sulla parete nord dell’Eiger assieme ad altri quattro alpinisti, riuscendo in sei giorni nella prima italiana della via. Il 6 settembre 1962, al ritorno dall’Eiger, sfruttano lo stato di grazia in cui si trovano e in Brenta tracciano una via nuova, la via Città di Brescia, sulla parete sud-ovest della Cima Tosa.
Armando Aste sulla vetta della Punta Tino Prato, nel Marguareis. Foto: Armando Biancardi.
«Nella nostra cordata Armando è sempre stato per me il punto di riferimento; il naturale primo di cordata. Più volte mi ha chiesto se volessi passare in testa a condurre la scalata e questo mi lusingava non poco. Ma ho sempre garbatamente declinato l’invito. Francamente non mi ci vedevo arrampicare davanti ad Armando. Armando è Armando (Franco Solina)».
Il fulgido esempio di Walter Philipp e Dieter Flamm sulla Civetta (1957), o anche la media delle realizzazioni di Aste, non vengono recepiti immediatamente. Spirito di competizione e ansie da direttissima sono ancora al centro dell’attenzione. Passiamo in rassegna brevemente la storia delle aperture dolomitiche di quel periodo, tanto per situare Armando Aste nel suo esatto contesto.
Gli svizzeri Hugo Weber e Albin Schelbert, dal 2 al 10 luglio 1959, si trovano loro malgrado coinvolti in una gara con gli Scoiattoli Candido Bellodis e Beniamino Franceschi, che dal 2 al 7 gli contendono una via diretta sulla Nord della Ovest di Lavaredo. Non è più questione di parete invincibile o parete possibile. Tutto è possibile, e bisogna farlo prima degli altri. 280 chiodi + 5 a pressione. Dal 17 al 21 luglio durò invece l’assalto allo spigolo nord-ovest della Cima Ovest di Lavaredo (poi chiamato Spigolo degli Scoiattoli), con grande lavoro, uso di sedili di legno, cordini di collegamento, ecc., più il ritorno serale al rifugio. La spuntarono Lorenzo Lorenzi, Albino Michielli, Gualtiero Ghedina e il “vecchio” Lino Lacedelli. Notevole il non uso di chiodi a pressione, sui 180 chiodi usati.
Tra tutte le salite di quei due anni spicca per bellezza ed eleganza d’esecuzione la via dedicata a Jean Couzy sulla Nord della Cima Ovest di Lavaredo. Vediamo perché. I francesi René Desmaison e Pierre Mazeaud e la cordata d’appoggio Pierre Kohlmann e Bernard Lagesse riprendono il 29 giugno 1959 un tentativo di Jean Couzy sulla parte sinistra della parete, meno aggettante ma più alta del settore destro.
Mentre accanto a loro si svolgeva la competizione tra svizzeri e Scoiattoli, i francesi ebbero certamente più tempo per badare all’etica. Usarono 300 chiodi e 15 a pressione, su un itinerario lunghissimo, probabilmente la più bella via in artificiale delle Dolomiti. Dopo tre o quattro giorni di attrezzatura, il 6 luglio Desmaison e Mazeaud attaccano decisi a non scendere ed escono in vetta l’11. La chiodatura di questo itinerario è assai precaria. L’A3 non è stato sostituito comodamente dai chiodi a pressione. E ancora oggi affidare il proprio peso a certe lamette sottili piantate per metà fa scorrere i brividi nella schiena: e ciò riscatta un’artificialità quasi assoluta, respingendo il sospetto di eccessiva tecnologia. Qui forse fece la sua comparsa l’A4.
Armando Aste in apertura sulla Punta Tino Prato. Foto: Armando Biancardi
Il 23 e 24 luglio 1959, lontano dalla folla dei curiosi delle Lavaredo, Weber e Schelbert affrontarono e vinsero la parete est del Pizzocco, 650 metri nel gruppo feltrino del Cimònega, già più volte tentata ma mai con grande convinzione: 150 chiodi + 2 a pressione.
Dal 14 al 18 agosto Dietrich Hasse e Sepp Schrott salirono la parete sud della Torre Innerkofler, 450 metri, VI+, A2 e A3 (oggi VIII). Gli stessi, 28-30 agosto 1959, vinsero la parete nord-ovest della Torre Delago, 500 m, VI, VI+, A1 (oggi VII+). Il 23 agosto 1959 Samuele Scalet e Aldo Bettega scovarono una linea sulla parete nord-ovest della Cima Immink 2855 m, 450 m, VI.
Altra impresa che fece molto più rumore, dal 6 al 10 settembre Ignazio Piussi e Giorgio Redaelli salirono direttamente le gialle concavità della parete sud della Torre Trieste, 800 metri, 330 chiodi + 90 a pressione, 45 cunei. Il 9 e 10 settembre 1959 Walter Philipp e Fred Henger, nell’intento di ripetere la via Conforto, trovarono un nuovo bellissimo itinerario in libera sulla Sud della Marmolada d’Ombretta.
E Aste? Il 21-22 luglio 1959 con Josve Aiazzi vince in libera la parete nord della Torre del Focobòn. Con Milo Navasa, dal 25 al 27 agosto 1959 sale sulla parete nord-nord-est del Crozzon di Brenta quello che si chiamerà Diedro Aste, VI-, A2. Lo stesso Aste, dal 17 al 19 giugno 1960, con Milo Navasa tornerà sulla via Ezio Polo per aprire un’importante variante diretta.
Il 1960, dal 2 al 9 giugno, vede la clamorosa impresa di Cesare Maestri e Claudio Baldessari (dedicata a Toni Egger) sulla Parete Rossa della Roda di Vael: furono sospettati di allungare appositamente la permanenza in parete, per creare suspence nel pubblico: 400 chiodi (escluse le soste!) + 20 a pressione + 30 cunei per 400 metri.
Insistiamo sull’ambientazione nella quale le vie di Armando Aste erano concepite e realizzate proprio per dimostrare quanto questi seguisse una propria strada del tutto estranea all’andazzo dei contemporanei.
Dopo quattro giorni di preparazione, dal 10 al 14 luglio 1960, sulla parete sud-ovest della Punta Giovannina (Tofane) gli Scoiattoli Michielli, Lacedelli e Zardini, avevano impiegato 385 chiodi per 350 metri. Il numero di chiodi e/o cunei usati supera ormai il numero di metri di parete!
Per fortuna la linea tradizionale dell’arrampicata dolomitica resisteva, con Giancarlo Biasin e Paolo Melucci che salgono il Gran Diedro sulla parete sud-sud-ovest della Torre Venezia (27-28 luglio 1960, 390 m, VI, A3); con Giorgio Ronchi e Carlo Andrich che salgono la parete sud della Cima dell’Àuta 2624 m (dal 31 luglio al 1° agosto 1960, 300 m, VI, VI+, A1 e A3); e con Vinzenz Malsiner e Ludwig Moroder che superano la parete nord-est del Dente del Sassolungo (dal 28 al 31 agosto 1960, 230 m, VI e VI+, tratti di A1, 200 chiodi, a causa della grande friabilità).
Il 1961 è caratterizzato da altre salite prevalentemente artificiali, e da quella in artificiale per antonomasia (Italia ’61 al Piz Ciavazes, opera di Bepi De Francesch con i compagni Quinto Romanin, Emiliano Wuerich e Cesare Franceschetti: conclusa dal 12 al 14 settembre, dopo lunga preparazione e su e giù). Chi si distingue per creatività sono Erich Abram e Sepp Schrott che salgono lo spaventoso Nordwestverschneidung della Cima Grande di Lavaredo, 400 m, VI-, A2, una via che ancora attende di essere salita in libera.
Aste si accinge alla prima solitaria della via Tissi alla Torre Venezia
Perfino Aste concede qualcosa alla prevalenza di artificiale quando con Marino Stenico sale il pilastro sud-est del Gran Mugone, dal 9 al 12 luglio, 300 m, VI e VI+, A2. Poi Aste ritorna alle sue preferenze sulla parete ovest del Campanile Basso con Miorandi (10 e 11 settembre, 380 metri, 40 chiodi e un cuneo. Itinerario che chiameranno via Rovereto.
Dal 24 al 29 agosto 1964 Aste compie il suo capolavoro, con il più che fidato compagno Solina: sulla parete sud della Marmolada d’Ombretta, “la” via. Un perfetto itinerario di 900 metri, del quale Aste scrive sul libro del Rifugio Falier: «la più grande e bella salita di pura roccia delle Alpi». Usati 154 chiodi, 5 cunei e 14 chiodi a pressione. Battezzata Via dell’Ideale.
Quell’estate, in luglio dal 16 al 17, un nuovo astro si era rivelato: Domenico Bellenzier aveva salito da solo il pilastro nord-ovest della Torre d’Alleghe. Un’impresa sovrumana, che ha dell’incredibile (se non fosse che molti lo videro…). Un’impresa così fuori-classe che fa storia a sé.
Al di là dell’exploit umano e tecnico di Bellenzier, il 1964 vede altre due grandi imprese, molto diverse tra loro e in ambienti simili solo per ciò che riguarda la grandiosità.
La prima è la parete sud-est del Sass Maor, alta 600 metri ma con al di sotto un altro appicco, per un totale di un chilometro: essa è poi molto esposta, nel vuoto più impressionante, sotto e ai lati. Samuele Scalet e Gian Carlo Biasin superarono questa muraglia con libera e artificiale assai faticosa, dal 1° al 3 agosto 1964, usando circa duecento chiodi in tutto, ivi compresi quelli a pressione per l’ultima liscia placca prima della calotta finale. Purtroppo Biasin, pare inciampando in un mugo, precipitò durante la discesa per la via normale. Maurizio Zanolla molti anni dopo (1980) riuscì a superare la Scalet‑Biasin in completa arrampicata libera. Il passo più difficile è proprio la placca finale, al livello del IX grado. Parlando con Manolo si ha l’impressione che a questa via egli tenga in modo particolare: gran rispetto per i primi salitori e per l’itinerario in se stesso. È strano osservare come oggi si abbia rispetto per una via solo se questa, oltre che difficile, sia anche fattibile in libera del tutto o quasi. Ma il rispetto per i primi salitori, che lottarono tra chiodi ribelli, appigli friabili e altre piacevolezze delle prime ascensioni, quel rispetto che era il grande condimento dei piatti forti dell’alpinismo, sta gradualmente scomparendo; nella monotona valutazione delle vie come merce da supermercato, la più bella è sempre la più cara. L’eccezione della Scalet, nei discorsi di Manolo, conferma la regola: si può capire la storia solo se si amano le montagne, specie quelle che hanno vissuto con te i più bei momenti.
Armando Aste impegnato nella prima solitaria della via Buhl alla Parete Rossa della Roda di Vael
La seconda, in ordine di tempo, è quella di Aste e Solina sulla Marmolada. Con Aste arriviamo infatti alle grandi placche. All’inizio l’istinto dell’alpinista seguiva fessure e camini, diedri e irregolarità varie della superficie della roccia. In seguito, dopo aver occasionalmente attraversato qualche liscia parete allo scopo di collegare magari due serie di fessure, ecco che viene spontaneo salire nel bel mezzo della parete, su muro verticale o placche fortemente lisce. La Via dell’Ideale è un concentrato di tutte queste particolarità, ma le placche e la parete aperta vi dominano quasi costantemente. Sulla via dell’Ideale infatti fu il grande passaggio: le placche della Marmolada non erano più tabù. Al tempo di Aste l’arrampicata libera non era certo ai livelli attuali, Aste arrampicava in scarponi; perciò usò 154 chiodi (di cui 14 a espansione) e 5 cunei, che sono comunque pochi su 900 metri, con un itinerario che non è certo diritto come può esserlo una fessura. Messner dice: «sarebbe la più bella via delle Dolomiti se non ci fossero quei chiodi a pressione!». Ma anch’egli li usa, nella prima ripetizione.
Armando Aste così racconta: «Claudio Barbier, un antesignano dell’alpinismo attuale… era al rifugio Falier in quei giorni. Al mattino della partenza, mi ha chiesto dove andavo. Gli ho detto che tentavo la linea nera, quella colata che scende dalla cima dell’Ombretta. “Sei matto, ci vogliono un sacco di chiodi a pressione!” mi ha risposto. “Io ne ho dietro una ventina, ma vedremo insomma…”… Non accettavo i chiodi a pressione se non come strumento che mi permettesse di superare un breve tratto di via che sembrava impossibile».
«Ricordo che mangiavamo carne in scatola, pezzettini di grana – poco, perché costava – di cioccolato, qualche scatola di frutta sciroppata, poca perché era pesante da trasportare e acqua, una buona riserva d’acqua valida per sei giorni» racconta invece Solina.
In seguito fu costruita la funivia e la stazione terminale fu sistemata proprio all’uscita di questa via. Il camino terminale divenne perciò uno scarico maleodorante, non più molto “ideale”. Ma per fortuna furono trovate delle varianti. Dopo che Bruno Pederiva con Sergio Valentini, il 3 settembre 1982, riuscì a salirla in libera, la via dell’Ideale divenne molto ripetuta, perché viaggia continuamente sul VI, con alcuni passaggi di VII e VII+ e svariati di VI+.
Due parole merita anche il nome. Come s’è visto l’alpinismo è sempre stato avaro di battesimi di vie. Solo col free-climbing si è avuta un’orgia di battesimi. L’alpinismo ha sempre preferito dare importanza ai salitori. L’usanza però risale al 1907, quando Luigi e Mario Scotoni con sette compagni salirono una via nuova sulla Cima Tosa e la chiamarono via Audax. Severino Casara commentò «si inizia così a spersonalizzare le ascensioni con aggettivi sportivi». Ma Audax altro non era che il nome della società di bravi arrampicatori in seno alla SAT. Il primo vero nome fu via della Disperazione, parete nord-est della Ovest di Lavaredo, 16 agosto 1909, Otto Langl e Richard Löschner: essi infatti non erano riusciti ad avvicinarsi più di tanto alla risoluzione del problema della parete nord. In seguito vi fu la Weg der Jugend, di Hans Steger e Paula Wiesinger, 1928, alla Nord di Cima Una.
Con la moltiplicazione delle vie del giorno d’oggi i nomi sono diventati del tutto necessari e ormai ci siamo abituati ad assistere alla proliferazione di nomi belli e nomi brutti. Spesso, dal nome scelto si risale alla personalità del primo salitore e si può sapere che tipo è. Con criterio non più soggettivo di altre valutazioni caratteriali. Quindi Aste fu precursore anche in questo.
Nella panoramica di quell’estate abbiamo (14 e 15 luglio 1964) Bruno Menardi, Lorenzo Lorenzi, Luciano da Pozzo, Sergio Lorenzi e Giusto Zardini che salgono il pilastro nord-ovest della Rocchetta Alta di Bosconero, dedicandolo ad Albino Strobel Michielli. Bella riuscita, in ambiente quasi esplorativo, 150 chiodi + 2 espansione, 650 metri. Dal 13 al 17 luglio 1964 Franco Baschera, Claudio Dal Bosco e Milo Navasa superano con grandi mezzi artificiali il pilastro rosso della parete est della Cima Brenta 3150 m: via Verona, 650 m, VI, A3 e AE, 150 chiodi, 18 a pressione e 10 cunei. Poi ancora, 22/24 agosto 1964, Donato Zeni, Aldo Gross, Enrico Pederiva e Luigi Iaquaniello salgono una via nuova sulla parete sud del Gran Mugone, V e A2). Tra i liberisti a oltranza, il 29 agosto 1964, Claudio Barbier e Marco Dal Bianco salgono sulla parte superiore della parete sud della Marmolada d’Ombretta per una linea di belle fessure, 400 m, V+.
Dal 22 al 27 giugno 1965 Milo Navasa, Claudio Dal Bosco e Franco Baschera salgono la parete nord della Rocchetta Alta di Bosconero: forte uso di mezzi artificiali, ma niente chiodi a pressione, il che per quegli anni era già un bel successo. Dal 29 luglio al 2 agosto 1965 Ignazio Piussi, Roberto Sorgato e Pierre Mazeaud salgono la Punta Tissi per un itinerario a sinistra della via Philipp-Flamm che fece molto scalpore ma senza molti contenuti innovativi, perché prevalentemente artificiale, la via del Miracolo. Anche qui però, niente chiodi a pressione. Dal 20 al 23 agosto 1965, i polacchi Jan Junger, Tadeusz Laukaitys, Josef Nyka e Jacek Poreba salgono il diedro nord-ovest dell’Anticima Nord-ovest della Schiara, una via molto artificiale con uso di chiodi a pressione. Il 4 agosto 1965 i francesi Jean Fréhel e Dominique Leprince-Ringuet salgono il pilastro nord-est del Crozzon di Brenta, VI-, un’impresa magari non al massimo dei tempi ma da segnalare per la bella arrampicata libera, in contrapposizione all’andazzo del tempo.
Ormai superiore a tutti, nel 1965 la cordata di Aste e Solina fa il bis sulla Marmolada, questa volta alla via della Canna d’Organo sulla Punta Rocca, in sei giorni, dal 13 al 18 agosto 1965. Una via di concezione moderna, questa volta senza chiodi a pressione, che anticipa di un paio di decenni l’evoluzione dell’arrampicata.
«Mi preme dire che la nostra cordata è diventata sempre più forte di mano in mano che imparavamo a conoscerci, una cordata per la vita al di là del fatto alpinistico. Ma al di là dell’aspetto umano abbiamo dato il “la” a un passo avanti nell’avanzamento dell’osare (Aste)».
«La cordata non si è sciolta. Virtualmente continua a esistere anche lontano da quelle pareti che tanto ci hanno fatto sognare e vivere forti esperienze alpinistiche e umane; indelebile patrimonio dei nostri ricordi di montagna (Solina)».
L’ultimo capolavoro di Aste è del 1968 (12-13 luglio), quando porta a termine una grande prima sulla parete ovest dell’Anticima Nord della Busazza con l’amico Josve Aiazzi, impresa a lungo tentata.
Da sinistra, Armando Aste, Bepi Pellegrinon e Franco Solina
Da vecchio leone, Aste non si arrende ancora: «Nel 1983 con Mario Manica arriviamo al rifugio Falier per realizzare sulla Marmolada un nuovo itinerario individuato giorni addietro. Percorso che però Maurizio Giordani ha già da qualche tempo iniziato. La stessa sera al rifugio giunge proprio Giordani con Franco Zenatti. Il mattino seguente, saputo dove noi stiamo andando, Giordani ci informa del suo “lavoro in corso”. “Se uno attacca una via e poi torna a casa” gli ribatto, “non è mica come mettere un cartello di riserva di caccia!”. Giordani risponde che loro saliranno per la via Conforto e poi traverseranno fino al punto massimo già raggiunto, lasciandoci liberi di attaccare la parte già da loro salita. A questo punto rinunciamo, lasciando a Giordani la possibilità di creare la via dell’Irreale».
Aste è anche il primo a portare il grande alpinismo invernale in Civetta con la prima invernale della via Carlesso-Sandri alla Torre Trieste, compiuta con Angelo Miorandi, dall’8 all’11 marzo 1957.
Aste si reca in Patagonia sette volte: «Ogni volta si stava via fino a tre mesi…». Nel 1963, con Aiazzi, Vasco Taldo, Nando Nusdeo e Carlo Casati, sale (17 gennaio) la Torre Centrale del Paine lungo un itinerario di difficoltà estrema, con grande impiego di chiodi e cunei di legno. Ma sulla parete si trova già la spedizione inglese di Don Whillans e Chris Bonington. Inizialmente vi è un po’ di dissapore tra i due gruppi, ma poi al termine dell’impresa le cordate agiscono in amicizia, anche se i primi a giungere in vetta sono gli inglesi. Il gruppo si rifa un mese dopo, quando apre un nuovo itinerario di eccezionale difficoltà sulla Torre Sud (9 febbraio).
Nell’inverno 1971-1972 Armando Aste guida una spedizione al formidabile Pilastro Est del Fitz Roy. Alto 1600 metri, di granito rosso e compatto, è caratterizzato da un immenso diedro verticale che praticamente si innalza dalla base alla vetta, più volte tentato. Ma nonostante la presenza degli amici Solina e Miorandi nonché alcuni tra i più forti alpinisti trentini come Graziano Maffei, Sergio Martini e Mariano Frizzera, il progetto non ha successo. La via fu aperta molto tempo dopo (1976) dai Ragni di Lecco Casimiro Ferrari e Vittorio Meles.
Un altro aspetto peculiare dell’alpinismo di Aste è dato dalle sue ascensioni solitarie. Al di là di una giusta ambizione, «il bisogno di trovarmi solo con me stesso e di cercare l’Infinito».
Il 25 aprile 1953 sale da solo la Steger al Croz dell’Altissimo. Il 28 luglio dello stesso anno sale la Aste-Salice alla Cima d’Ambiez, poi il 28 agosto la via Graffer-Miotto dello Spallone del Campanile Basso, con la variante Pooli-Trenti e discesa per la via Preuss. Il 30 ottobre 1954 è la volta della via Tissi alla parete sud della Torre Venezia, poi il 26 agosto 1956 supera da solo la Via Concordia sulla parete est della Cima d’Ambiez. Con due bivacchi, dall’11 al 13 luglio 1960, sale la via Buhl (Hasse-Brandler) alla Parete Rossa della Roda di Vael. Un crescendo incredibile di prime solitarie, fino al suo capolavoro: dal 3 al 6 settembre 1960 si avventura sulla via Couzy sulla Nord della Cima Ovest di Lavaredo: «Avevo dentro una carica spirituale molto forte e ci sono andato tranquillo. Ne avevo parlato a Marino Stenico, che consideravo, con Pino Fox, mio maestro ideale… “Se te vai Armando, te ghe la fai”. Lui, la Couzy l’aveva fatta con due compagni. All’uscita dell’ultimo strapiombo, detto “la grondaia”, proprio sull’orlo, per tutta la notte Marino era stato bloccato da un temporale, tanto da temere per la propria vita. Tutte queste cose mi erano rimaste impresse e ho cominciato a pensarci. Marino, al quale avevo chiesto consiglio, mi rispose che se proprio avevo deciso lui mi avrebbe accompagnato all’attacco… All’attacco, mi ha battuto una mano sulla spalla. Ho cominciato a salire. Davanti a me, 150 metri, c’era una cordata austriaci, i quali avevano delle assicelle a mo’ di panchetto per sostare o bivaccare sugli strapiombi. Io avevo solo il mio zainetto, la corda con cui mi facevo le autoassicurazione, i moschettoni, le staffe, i chiodi, il martello e il sacco da bivacco. Arrivato più su, circa 150-200 metri, dove dopo c’è un traverso, mi sono fermato e vedevo gli austriaci che recuperavano lo zaino con un cordino. Lo zaino oscillante nel vuoto mi dava tutta l’idea dello strapiombo, ma ciò non mi spaventava, mi incantava… Verso sera il secondo degli austriaci, Helmut, mi chiamò perché andassi da loro. Rifiutai. La mia era una solitaria e non potevo certo andare dietro le scarpe degli altri. Loro hanno capito. Arrivato al tratto giallo, dove c’è l’unico terrazzo, lungo un metro e mezzo e largo tanto così, mi sono fermato per passare un’altra notte. Dicevo le mie preghiere le sera, la mattina, sempre tranquillo. In tutto ho fatto tre bivacchi. Giù mi aspettavano i miei due compagni. Il Marino se n’era invece andato quando avevo superato il punto più difficile: un diedro a metà dei gialli, friabile e pericoloso».
Nel 1978, a cinquantadue anni, fa la prima solitaria sullo spigolo nord-ovest della Torre della Vallaccia. È il suo canto del cigno.
Franco Solina bivacca sulla Via della Canna d’Organo
Ma lui la montagna l’ha sempre avuta dentro: perciò era facile parlargli assieme, anche se purtroppo era pieno d’impegni, perché doveva assistere la moglie Nedda inferma per anni in una casa di riposo. Finita con lei, Aste va in un’altra casa di riposo dove aveva un fratello da 22 anni in stato vegetativo.
Senza perdersi d’animo pensava alla montagna e alla sua crescita spirituale. Io l’ho conosciuto un po’ da vicino quando stava scrivendo un nuovo libro con la sua corrispondenza privata. Tutti gli avevano scritto, Attilio Tissi, Georges Livanos, René Desmaison, Claude Barbier, Reinhold Messner, Pierre Mazeaud e tanti altri: «Voglio solo mostrare cosa l’alpinismo produce, non solo vette, ma pensieri alti. Ci metterò le mie 150 lettere e le cartoline che ci spedivamo l’un l’altro con il cuore preso dentro il francobollo».
Autore della bella autobiografia Pilastri del Cielo (1975), poi rieditata in veste elegante (Cuore di roccia, 1988), Aste ha tenuto centinaia di incontri e conferenze per illustrare il suo alpinismo. Inoltre ha anche realizzato qualche film: «La Parete d’Argento. Devi tener presente che questo filmato è stato realizzato nel ’64 durante l’apertura della Via dell’Ideale in Marmolada. Avevamo con noi una cinepresa, mentre le panoramiche sono state girate da un amico. Per completare e allungare in qualche modo il filmetto abbiamo poi girato alcuni fotogrammi su dei massi nei pressi del rifugio Falier. Col senno di poi era meglio farne a meno…».
Aste era un convinto alpinista ascetico, per migliorare se stesso tramite la fede e l’avventura umana. Al suo attivo aveva oltre duecento bivacchi in parete, in antitesi alla frenesia, al consumo e alla velocità fine a se stessa: «Il bivacco… è una cosa fantastica, anche con il brutto tempo è una lunga meditazione».
Ed è vero che, nella sua più che trentennale attività ai massimi livelli, Aste non ha mai avuto incidenti d’arrampicata. In più per scelta non ha mai voluto fare dell’alpinismo una professione, preferendo gli impegni di una vita civile e sociale. «Io mi definisco un cercatore di infinito. Questo desiderio di eterno, che la montagna ben incarna, ci dice che qualcosa “oltre” c’è».
Armando Aste è deceduto a Rovereto il 1° settembre 2017 alle ore 18.30.
Armando Aste secondo Motti
(da Storia dell’alpinismo di Gian Piero Motti)
Armando Aste, di Rovereto, è certamente uno dei massimi esponenti dell’alpinismo italiano del dopoguerra. Arrampicatore di straordinaria eleganza, sulle Dolomiti ha aperto moltissime vie di estrema difficoltà, veri e propri capolavori di intuito e di intelligenza alpinistica. Aste comunque è soprattutto un uomo della libera, anche se il ricorso all’artificiale nei suoi itinerari è ingente ed assai frequente. Famose le sue vie aperte sulla parete sud della Marmolada, soprattutto quella detta dell’Ideale giudicata da Messner come una delle più difficili scalate delle Alpi.
Aste è un personaggio singolare, un uomo assolutamente convinto del cammino che egli segue lungo l’alpinismo. Dotato di una fede religiosa incrollabile, Aste avvicina le montagne con animo mistico e proprio forte di questa fede riesce a superare difficoltà che potrebbero anche apparire insuperabili. Non per nulla si è cimentato in alcune prime solitarie di un’audacia incredibile. Egli è anche stato il primo a portare il grande alpinismo invernale nel Gruppo del Civetta, realizzando la prima salita invernale della via Carlesso alla Torre Trieste (1957). Famosa anche una sua via aperta sulla parete della Punta Civetta (1954), lungo la fessura parallela a quella percorsa dalla via Andrich. La via Aste conserva gli stessi caratteri di purezza e di eleganza della via del grande agordino, anzi in alcuni tratti si rivela più difficile (ma bisogna sempre tener conto del fattore proporzionale dato dalla storia!).
Va detto ancora una volta che tutte queste imprese sono caratterizzate da una scrupolosa ricerca dell’arrampicata libera. E se questi alpinisti ricorrono all’artificiale, lo sanno fare magistralmente, con grande eleganza e con purezza di stile.
Armando Aste, il cercatore d’infinito
Intervista di Corona Perer (scritto nel maggio 2009)
Non va più in montagna: lui ce l’ha dentro di sé. Si definisce un dilettante, al più un dolomitista.
Ex operaio alla Manifattura Tabacchi, in pensione da molti anni, Armando Aste ha superato gli 80 ma è sempre in piena attività. Discutere con lui fa riflettere. Lo incontriamo nella sua casa, alle prime ore del mattino. Il resto della giornata è infatti programmato: Armando Aste deve assistere la moglie Nedda da qualche anno inferma alla casa di riposo di Sacco. Quando finisce con lei riparte per l’altra casa di riposo dove ha il fratello da 22 anni in stato vegetativo. Ma Aste, uomo tutto d’un pezzo, non si perde d’animo. E pur avendo qualche problemino di salute non rallenta il passo da bravo alpinista. Terminato di assistere i familiari, primo pensiero di ogni giorno, torna in vetta e sulle corde, ma armato di penna: sta scrivendo un nuovo libro dove presenterà della corrispondenza privatissima ma ancora pregna di significato per i tempi moderni, anzi per l’alpinismo moderno. Dopo quattro edizioni di Pilastri del Cielo e Cuore di Roccia gli è stato chiesto di raccontare i suoi rapporti con l’alpinismo italiano e così il libro raccoglie pensieri di Aste e dei suoi amici: il senatore Tissi di Belluno, Livanos, Desmaison, Barbier, Messner, Mazeaud.
“Voglio solo mostrare cosa l’alpinismo produce: non solo vette, ma pensieri alti. Ci metterò le mie 150 lettere e le cartoline che ci spedivamo l’un l’altro con il cuore preso dentro il francobollo“.
Aste, come definirebbe un alpinista?
Un cercatore di infinito. Questo desiderio di eterno, che la montagna ben incarna, ci dice che qualcosa “oltre” c’è. Questo pensiero vorrei lasciare, più ancora che un francobollo.
Oggi ci sono tanti infortuni in montagna, lei se l’è mai vista brutta?
Io non ho mai rischiato, avevo la testa sulle spalle. E’ così che si deve affrontare la montagna. Sono un credente io: la vita che mi è stata donata vale più di ogni conquista. E a casa c’era Nedda ad aspettarmi.
Aste, quanto le manca il poter andare in montagna?
In realtà ne sto scrivendo: io sono sempre lassù.
Aste sul Pilastro Est del Fitz Roy
Cosa ha rappresentato per lei salire in vetta?
Realizzare una passione: la montagna è stata la mia vita. Ero fuochista alla Manifattura, avrei voluto studiare, ma avevo una famiglia numerosa da aiutare: padre, madre e sei fratelli. La montagna è stata la mia valvola di sfogo e ha reso bella la mia vita.
Quando cominciò ad arrampicare?
A 22 anni, nel tempo libero. Oggi invece gli alpinisti lo fanno per mestiere. Io ci andavo finito di lavorare, d’altronde mi sono sposato tardi, a 36 anni.
E come guarda agli alpinisti di oggi?
Vede oggi si va in Patagonia in 24 ore con l’aereo e con gli sponsor. Io ci andai con la nave e con un permesso di lavoro non retribuito. Quanto perdevo di stipendio tornò dentro con i premi del CAI…
Lei quante volte ci è stato in Patagonia?
Sette volte e ogni volta si stava via fino a tre mesi…
Chi è stato il più grande alpinista secondo lei?
L’alpinismo è fatto di epoche prima che di uomini. E’ come una lunga scala e ognuno ci mette sopra un gradino. Ognuno deve salire dai primi, messi dagli altri, per poter andare ad aggiungerci il proprio!
Come guarda alla vita Armando Aste?
Guardi, ho molti problemi anch’io, ma non ho paura di morire perché dicono che si stia meglio dall’altra parte. La vita malgrado tutto è meravigliosa. Per questo siamo legati alla terra.
Cosa le dispiace di più?
Vedere mio fratello e non potergli dire “guarda che sono qui, ti voglio bene”.
Il nuovo libro non è solo una raccolta di ricordi, vero?
No, è un pretesto per dire qualcosa a questo mondo.
E cosa vuole dire Armando Aste ai contemporanei?
Che tutti noi dobbiamo essere megafoni di qualcosa. La vita nostra deve servire a chi viene dopo di noi. Io voglio dire che ci sono valori morali che valgono più di tutte le altre cose. Vede, ho una grande fortuna…
Quale?
Aver avuto fede, perché credere dà senso alla vita. Credere è più importante che sapere. Perché il sapere a volte ci porta davanti ad un muro.
Verso la vetta dei novant’anni
di Diego Andreatta (scritto nel 2015)
“Quando sarà giunta la mia ora e mi presenterò davanti a Dio Padre penso che non mi chiederà quante scalate ho fatto durante il tempo che mi è stato concesso. Ma vorrà sapere, anche se Lui lo sa già, se ho amato veramente, se ho fatto concretamente qualcosa per quelli meno fortunati di me”. Dalla vicina vetta dei 90 anni (ne ha compiuto 89 il 6 gennaio 2015), l’alpinista roveretano Armando Aste guarda avanti, non indietro. Anche se nella sua casa-museo dalle immagini in bianconero verrebbe naturale fermarsi sulle vette conquistate in una carriera strepitosa, farsi svelare i retroscena della prima vittoria italiana sulla nord dell’Eiger nel 1962 o i dialoghi di amicizia con altri grandi alpinisti laici come Walter Bonatti e Cesare Maestri.
“Il passato è passato, quello che ho scelto di raccontare nei miei libri sono valori più importanti dei risultati alpinistici”. Basta rileggersi il capolavoro Pilastri del cielo (quattro edizioni) per capire come il buon Armando Cuore di roccia (titolo del suo secondo libro) abbia sempre vissuto la sfida verticale come un dono di Dio, non un successo personale. Un dono da raccontare, da far gustare agli altri. Anche davanti a imprese sportive oggi impensabili con i mezzi di allora – come la solitaria sulla parete nord della Ovest di Lavaredo – Armando sposta l’attenzione sui riflessi umani dell’impresa.
“Vedo nella bellezza delle montagne – taglia corto, come avessi distillato il meglio della lunga esperienza – uno strumento per poter raccontare l’amore di Dio”. Uno strumento relativo, tanto che per 23 anni della sua vita ha scelto di ritirarsi dal mondo alpinistico per dedicarsi all’assistenza quotidiana del fratello disabile. “Il mio posto non può non essere qui, accanto a lui”, ci diceva allora.
Negli ultimi anni Armando ha ripreso a partecipare a qualche festival, rende la sua testimonianza in qualche incontro con gruppi di ragazzi e giovani. Nonostante gli acciacchi dell’età, legge molto, si tiene informato per poter formare. “Credo che tutti noi dobbiamo essere trasmettitori della fede ricevuta dai nostri nonni, quelli che ci hanno dato le radici a cui siamo rimasti attaccati. Mi sento un po’ un catechista, tutti dobbiamo sentirci annunciatori”.
Fin dal titolo, il suo recente volume Nella luce dei monti (edizioni Nuovi Sentieri) dichiara l’intenzione di offrire pensieri spirituali: “Mi rifaccio al salmo: “Alzo gli occhi verso i monti: da dove mi verrà l’aiuto?” perché sono convinto che l’esperienza della montagna, della trasfigurazione, ci offre luce per la nostra vita. E mi sento in dovere di farlo in un mondo ormai secolarizzato, dove talvolta anche gli stessi credenti si vergognano della loro fede”.
La conversazione durerebbe a lungo, ma Armando rinvia al prossimo libro: “Lo sto scrivendo… se il buon Dio mi lascia portarlo a termine” e anticipa il desiderio di arrivare ai giovani, di confidare nella loro sensibilità: “Un tempo si credeva anche per paura dell’inferno, ora in chi crede c’è più consapevolezza della misericordia di Dio”.
Un capitolo è intitolato Non lasciatevi rubare la speranza escatologica e Aste sorride quando gli facciamo notare l’assonanza involontaria con Papa Francesco.
Come si va in montagna oggi, Armando? “E’ scomparsa la poesia, le motivazioni. Oggi hanno trasformato l’alpinismo in uno sport, ma non è uno sport. E’ un’arte. E opere d’arte sono le nuove vie, che resteranno sui monti finché essi ci saranno, come diceva Emilio Comici”. Riconosce poi che “non tutti possono essere artisti”, ma aggiunge che la montagna in modo originale e irripetibile può arricchire tutti.
Dalla vetta dei suoi novant’anni Armando Aste, posa i suoi occhioni profondi su una nuova Quaresima da affrontare con animo scout: “Dico che per un cristiano dovrebbe sempre essere Quaresima; dovremmo prepararci. Estote parati!, come dicevamo da esploratori… Dentro di me, nello spirito, sono sempre rimasto uno scout: in quella Promessa ci sono i dieci comandamenti”.
La Fede per Armando Aste
“Un uomo vero senza complessi è quello che è, cioè rimane se stesso ovunque. Io sono un credente e sono un alpinista. Voglio dire che non vivo la mia vita a settori.
Se sono un credente lo sono a trecento sessanta gradi, cioè sempre. Anzi direi che mi scopro tale soprattutto proprio in montagna che suggerisce ancor più il bisogno di trascendenza che è insito nell’animo umano. Per sentirsi spuntare le ali.
Io sono orgoglioso della mia Fede che considero l’unica vera ricchezza che possiedo.
Mi piace guardare alle montagne come immagini materializzate dell’ascendente cammino dell’uomo e sono grato ad esse che fin dagli albori della conoscenza certamente aiutarono e quasi costrinsero il pronipote degli ominidi, l’uomo, a levare lo sguardo, camminare in posizione eretta e così accorgersi dell’esistenza del cielo.
La montagna è sempre presente nella storia dell’evoluzione umana, la montagna sinonimo di positività e di elevazione. Nella Sacra Scrittura troviamo la consegna a Mosè delle tavole della Legge sul Monte Sinai. Nella storia della Redenzione leggiamo della Trasfigurazione di Gesù “su un alto monte”. E ancora l’Ascensione di Gesù al cielo dal Monte Oliveto.
Al di là della supposta realizzazione di sé, del gioco edonistico e addirittura della possibile creazione artistica ideale, se penso all’inestinguibile sete che mi spinge ai monti, sete di bellezza e di poesia, ansia di superamento, bisogno di coraggio, sento che è soprattutto un insopprimibile bisogno di trascendenza che sta alla base del mio alpinismo. Sento di essere un cercatore di infinito.
Si possono fare altre scelte. Diversamente da un alpinismo ascetico, si possono trovare motivazioni, giustificazioni e pretesti “laici” più disparati. E’ tutto da rispettare.
Mi rendo conto che l’idealità che ispira l’alpinismo non può essere compresa da coloro che riguardano ogni cosa sotto l’aspetto utilitario e che nella frenetica ricerca di orgogliose ambizioni da soddisfare non hanno tempo di pensare. Perciò a molti sfuggirà l’intimo e più alto valore di ogni salita alpina. Ma le vittorie dello spirito, come lo sono anche le ascensioni alpine, segnano le tappe del faticoso sofferto cammino dell’uomo verso la meta eccelsa, la Conoscenza Suprema. Che in ultima analisi per un credente non può essere altro che l’incontro con Dio (Da I pilastri del cielo di Armando Aste)”.
Ricordi di famiglia
“Rovistando nei fotogrammi della mente mi ritrovo bambino nella casa del nonno Luigi addossata al vecchio mulino alla base di una gran rupe gialla ai piedi della quale usciva una zampillante sortiva fresca e canterina che hanno imprigionato. Ricordo quando il nonno mi portava sottobraccio alla fontana davanti al casolare. Ma il ricordo più bello, l’importanza del quale ho capito solo più tardi, è quella della recita del Rosario quando il nonno ci riuniva nella grande cucina fuligginosa con le pareti annerite dal tempo; si pregava attorno al focolare. Poi si andava a dormire su un pagliericcio imbottito dai cartocci delle pannocchie del granoturco. Ninnati dal gradevole rumore del ruscello che a volte diventava torrente che incide tutta la valle, un fruscio continuo come un gran respiro senza fine.
E la zia Giuseppina che mi attendeva e mi allevava come una mamma. Ho saputo poi che si era ridotta a darmi il latte da bere con il ciuccio in un fiasco perché era rimasta sprovvista di bottiglie poiché ogni volta, dopo aver succhiato il latte, io buttavo sempre dal poggiolo i vuoti nel cortile.
Mia madre era al lavoro alla Manifattura Tabacchi di Borgo Sacco. La nonna Anna era morta che non aveva ancora 50 anni a causa di un tumore. Eravamo rimasti in pochi al vecchio mulino ormai inoperoso da tempo, io il nonno e una vecchina “la Marietta” una donna sola che non aveva nessuno e che era stata adottata dai miei avi materni. Poi c’era lo zio Mario, vent’anni di differenza tra me e lui. Non aveva amici perché vivendo in una remota valle selvaggia, la valle di Cavazzino, non aveva tante occasioni di stabile dei contatti umani. Ero io il suo amico, come lui era il mio amico…
Intanto la zia Giuseppina si era sposata, ricordo con commozione ed infinita riconoscenza quando suo marito, lo zio Eugenio, nascondeva “nella falda”, una specie di grembiule verde, che allora usavano i contadini e conteneva un corposo pezzo di pane casalingo che la zia era maestra nel saper confezionare. Un pane alto, morbido, soffice e profumato. Perché noi scesi dalla montagna, ci eravamo trovati nelle ristrettezze e nella povertà.
Il nonno paterno Toni, che io non ho conosciuto, e che nemmeno mio padre aveva conosciuto perché era morto a 42 anni in seguito ad una caduta da un gelso perché allora si allevavano in bachi da seta che dovevano essere nutriti unicamente dalle foglie del gelso….
La nonna paterna Luigia, rimasta vedova ancora giovane, con un solo figlio, mio padre Giuseppe, che era tutto per lei. Mentre era in Africa, perché mio padre nelle vesti di contadino ci stava stretto, la nonna Luigia è morta, forse di crepacuore, a 65 anni senza che il figlio arrivasse in tempo per riabbracciarla. Storie di povera gente che hanno solcato dentro.
Mia madre Maria una eroina che da sola ha tirato su la famiglia. Se mio padre mi ha trasmesso in eredità l’intelligenza della mente mia madre mi ha dato quella del cuore. Per questo credo che alla mensa del Padre celeste sarà invitata a sedersi nei posti più avanti. Per un disegno della Provvidenza ho poi avuto la fortuna di incontrare la mia Nedda, che non è stato un colpo di fulmine, ma l’inarrestabile conquista di ogni giorno. Ci siamo sposati, abbiamo fatto la nostra casa nuova e spaziosa per poter essere vicini ai miei genitori e a mio fratello Antonio ultimo.
Mentre con noi due viveva anche mia suocera “Mincota”, la mia prozia Angelina, sorella del nonno Luigi. Zia Angela 103 anni e mia suocera Domenica 94 anni andavano d’accordo e passavano il tempo sedute una acanto all’altra, su un piccolo divano, lavorando ad uncinetto e pregando…
Mia madre ha avuto sei figli cinque maschi e una sola femmina, Anna, morta ancora in fasce. Sebbene annebbiato da un tempo lontano conservo ancora un vago ricordo di quella perdita immatura. Poi la mancanza del piccolo Antonio primo. Il secondo è morto a 11 anni per un tumore all’inguine. Lui si rendeva conto del male che lo avrebbe reso handicappato ma a mia madre sconsolata gli diceva: Mamma non preoccuparti perché se non potrò camminare farò il sarto. Poi il terzo Antonio, l’ultimo. Immigrato in Svizzera non ancora sedicenne assieme a mio fratello Franco che ha 4 anni meno di me. Poi Antonio è rientrato a casa in Italia e ha trovato lavoro a Rovereto in ospedale come aiutante di cucina. Non si sa come né dove è stato colpito da meningoencefalite virale e dopo 23 anni di vita inconscia è spirato a 65 anni di età. Anche papà e mamma ci hanno lasciato nel giro di 40 giorni l’Uno dall’Altra, in precedenza pure lo zio Mario se n’è andato perché lui non era di questo mondo…
Mi è rimasto ancora un solo fratello Franco che è me come io sono lui. Il tempo e lo spazio non contano perché in nostri genitori e i nostri cari ci hanno lasciato in dono l’eredità della Fede. Anche se sono solo nella mia bella casa di Borgo Sacco, assistito da Svetlana la mia bravissima badante cattolica ucraina, rimango in fiduciosa attesa, anche se come dico spesso, non ho fretta di andarmene perché mi piace sempre essere ottimista. Poiché malgrado tutto la vita è bella e degna di essere vissuta.
Per questo ringrazio sempre il Signore anche per quello che mi ha tolto e per quello che mi ha dato…
Anche mio fratello Franco che vive a Basilea, con la sua bella famiglia, è sul viale del tramonto, ma ci sono tramonti che tutti si fermano ad ammirare. Questa è una frase che ho letto in un corridoio del reparto di geriatria dell’ospedale civile di Rovereto (da Commiato, di Armando Aste)”.
Pubblicazioni
– Pilastri del Cielo (1971, poi rieditato da Nordpress, giugno 2000);
– Cuore di Roccia (Manfrini Editore, gennaio 1988).
– Alpinismo Epistolare – Testimonianze (Nuovi Sentieri Editore, Falcade (BL), 2011. pp. 211 con foto a colori e b&n);
– Commiato – Riflessioni conclusive di un alpinista dilettante in congedo. (Nuovi Sentieri Editore, Falcade (BL), 2013. pp. 93 con foto b&n);
– Nella luce dei monti – Pensieri e sguardi d’insieme (Nuovi Sentieri Editore, Falcade (BL), 2015. pp. 211 con foto a colori e b&n);
– Stagioni della mia vita (Nuovi Sentieri Editore, Falcade (BL), 2016. pp. 150 con foto a colori e b&n).
Aste ha anche realizzato documentari a soggetto alpinistico (ora affidati alle civiche raccolte di Rovereto dove è considerato uno dei cittadini più illustri) e tenuto centinaia di incontri e conferenze in tutta Italia per illustrare il suo alpinismo. “E’ vero, sono stato profeta a casa mia, mentre a Trento, che dista solo 25 km, mi sarei aspettato qualche riconoscimento in più. Non che la cosa abbia però molta importanza. Io ho sempre arrampicato per me stesso, non per gli altri. Era una mia esigenza e basta. Il mio era ancora un alpinismo ideale, pieno di poesia. E tanto mi basta”.
(continua)
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Per me è stata una persona importante.
questo è quello che avevo scritto per la rivista Le Alpi Venete dopo la sua morte.
IL MIO INCONTRO CON ARMANDO ASTE
“Ero fuochista alla manifattura, avrei voluto studiare, ma avevo una famiglia numerosa da aiutare…La montagna è stata la mia valvola di sfogo e ha reso bella la mia vita”.
Due settembre 2017, arriva una brutta notizia: ieri se ne è andato Armando Aste. Lo so, aveva 91 anni, ma ci sono rimasto veramente male.
Inizio a sentire parlare di Armando Aste parecchi anni fa, nella prima metà degli anni ’80. Anche se il suo libro “Pilastri del Cielo” era ormai esaurito, avevo comunque letto di lui e delle sue imprese su riviste e libri di alpinismo. Il grande alpinista inglese Doug Scott ne parla nel capitolo dedicato alla Marmolada del suo bel libro “Le Grandi Pareti” del 1973. In particolare mi colpì il racconto che R. Messner fece a proposito della prima ripetizione della via dell’ Ideale nel suo libro L’AVVENTURA ALPINISMO :
“Senza dubbio una delle più dure vie delle Dolomiti, se non delle Alpi. Una via da farci tanto di cappello….” .
Bellezza delle linee, grandiosità, alpinismo estremo ma dilettantesco, una grande e personalissima capacità di vedere e risolvere problemi alpinistici, mai uno sponsor, senso dell’amicizia, solidarietà, serenità e calma nell’affrontare la montagna. Questi sono stati da subito gli ingredienti dell’alpinista e dell’uomo Armando Aste che hanno esercitato su di me fascino e attrazione.
Una delle doti che lo rendono, almeno ai miei occhi, unico è la tranquillità con la quale Armando Aste ha sempre realizzato le sue ascensioni. Aste ha spesso dichiarato: “Si, sono lento”. Non riusciva a capire perché avrebbe dovuto andarsene in fretta da un luogo dopo averlo tanto desiderato. Che cosa è questa se non una grande sintonia con la montagna? Nella sua carriera alpinistica ha collezionato più di 150 bivacchi. Emblematico un episodio che ci spiega la sua grande calma interiore, ovvero il non sentire il peso dell’ambiente circostante, ma anzi, il volerlo gustare fino in fondo: è il bivacco durante l’apertura della via alla parete nord della Torre del Focobòn. A un solo tiro di corda dall’uscita, “…trovammo una bellissimo terrazzino con fine ghiaino. Il tempo era bello e pensammo di fermarci a bivaccare” . Che bisogno c’è di affrettarsi a scendere? Le condizioni sono buone, il tempo è bello, cosa c’è di meglio di un bivacco per godersi la montagna.
Allo stesso tempo, però, la grandiosità della sue vie un po’ mi intimoriva. Sarei stato alla loro altezza? Oltre al talento e alla determinazione, Aste aveva dalla sua una grande carica interiore data sicuramente dalla fede . Comunque dovevo provarci.
Il primo incontro con l’alpinismo di A. Aste non fu programmato, anzi avvenne in modo del tutto inaspettato. Nell’estate del 1985, scappando dal brutto tempo del monte Bianco, assieme agli amici: Alessandro, Fabrizio e Giancarlo dopo un bel viaggio di trasferimento alla ricerca del bel tempo arriviamo in Brenta, con l’idea di andare a fare la via delle Guide.
Avevamo tempo a disposizione quindi perché non fare prima anche un’ altra via? La scelta cade sulla via Rovereto aperta da A. Aste e A. Miorandi nel settembre del 1961 sullo spallone del Campanile Basso.
La via, bella e impegnativa, pretese da noi più di quello che ci aspettavamo. Dopo nove ore di arrampicata, beffati dal mio martello nuovo di zecca della Stubai, che alla seconda martellata, pensò bene di spezzarsi e finire sui ghiaioni basali, sbuchiamo piuttosto tardi sullo Stradone Provinciale. Rinunciammo alla vetta e giù di corsa verso il rifugio Brentei, dove un po’ preoccupato per il nostro ritardo, c’è Bruno Detassis. Dopo una prima occhiata un pò severa, il burbero Re del Brenta ci fece i complimenti, perché la “Aste al Basso” è una via rognosa, dura e poco ripetuta. La via fu una scelta dell’ ultimo minuto, ma pienamente azzeccata, che ci ripagò della delusione per la rinuncia sul Monte Bianco.
Come primo incontro non mi posso lamentare, non poteva andare meglio. Ma non posso certo fermarmi qui. C’è ancora tanto da fare per conoscere l’ alpinismo di Armando Aste. Via dell’ Ideale, Canna d’Organo, Ezio Polo, Madonna Assunta, sono il suo poker in Marmolada. Ma c’è anche la Civetta, le Pale di San Martino e ancora il Brenta. Poi lui ha fatto anche tante prime solitarie e anche invernali, ma questo è un’altra cosa.
Passano alcuni anni dove cerco di reperire informazioni sulle sue vie. Purtroppo leggo anche di alcune critiche più o meno velate, alle sue vie in Marmolada. Critiche del tutto fuori luogo, senza senso, perché ogni impresa va inquadrata nel suo tempo. Così a novembre del 1988 decido di conoscerlo scrivendogli una lettera:
“Caro Armando, scusa se mi permetto di darti del tu anche se non ci conosciamo personalmente ma, visto che come te sono un appassionato alpinista dilettante, mi è sembrato la maniera migliore per scriverti. Sono un giovane alpinista delle Apuane molto interessato alle tue vie che considero di valore storico, come ad esempio la via dell’Ideale…“.
Passono pochi giorni e arriva la sua risposta :
“caro Alberto, grazie per la tua lettera e le gentili espressioni a mio riguardo che non voglio chiedermi se sono meritate. Evidentemente ognuno dà e fa quello che gli è concesso dal suo essere uomo (…)” .
Neppure un mese dopo gli scrivo nuovamente. Oltre a chiedergli alcune relazioni di sue vie, lo invito a tenere una conferenza qui a Pietrasanta, in Toscana, e magari ad arrampicare sulle nostre Apuane che mi piacerebbe fargli conoscere. Nel frattempo acquisto il suo nuovo libro “Cuore di Roccia” che divoro un rigo dopo l’altro. Dopo qualche giorno giunge una sua nuova lettera:
“Se vi può interessare, sarà senz’altro un piacere venire da voi a fare una proiezione quando vorrete…..”
Aste, quindi, accetta. E gli piacerebbe visitare le Apuane, ma di arrampicare non se ne parla. Mi confessa che per poter meglio assistere suo fratello, colpito da una grave malattia, ha deciso di chiudere con l’ alpinismo. Anche se gli ha dato tanto, nella vita ci sono cose più importanti e bisogna fare delle scelte:
“…A me l’alpinismo ha dato ha dato molto, ma ora ci sono cose più importanti che reclamano il mio impegno”.
“Le montagne rimarranno sempre una indicazione, un simbolo verso cui sollevare lo sguardo e attingere ancora un riflesso di bellezza, di gioia e di coraggio”.
Così il 26 maggio 1989 organizziamo a Pietrasanta una sua proiezione dal titolo:
“ARMANDO ASTE – IMMAGINI E RIFLESSIONI DI UN ALPINISTA”
Il pubblico interviene numeroso. Ci sono tante domande. Aste racconta, fa vedere le immagini di una vita sulle montagne. Insomma: la serata è un successo. Naturalmente mi faccio autografare “Cuore di Roccia”.
Dopo la sua serata a Pietrasanta rimaniamo in contatto ed una domenica di maggio con la mia compagna Sabrina andiamo a trovalrlo a casa sua a Rovereto. Conosciamo anche sua moglie Nedda.
La casa ci accoglie con belle foto delle pareti dove ha tracciato le sue vie. Poi Armando ci fa vedere il suo studio che trabocca di montagna: fotografie, libri, lettere e cimeli vari. Dopo pranzo ci rechiamo alla falesia di Castelcorno dove Aste, da ragazzo, ha mosso i primi passi d’arrampicata. Ci racconta che di nascosto osservava i più esperti arrampicare per poi imitarli.
Come ebbe a dire in un’intervista:
“ero tutto nervi, di un’agilità naturale e mi sentivo tagliato per la roccia” .
Passammo una bella giornata insieme, e quando a sera ci salutammo volle farmi un bel regalo, con tanto di dedica: il libro “Racconti impossibili e dintorni- evasioni di un alpinista” del suo amico e compagno di scalate Armando Biancardi, oltre ad una piccola guida di scalata delle palestre roveretane.
Settembre 1989 alcuni amici organizzano per andare a fare la Aste-Susatti alla Civetta. Lo sanno che ci tengo e mi invitano ad andarci ma sanno anche che non posso, visto che in quei giorni mi sposo. Che amici…vero?
Con Gianluca pensiamo ad una sua via non alla moda: la Ezio Polo all’ Antecima del Serauta nel gruppo della Marmolada. La via che sale nell’evidente diedrone centrale, è da subito tosta, chiodatura praticamente inesistente e roccia richiede attenzione. Profondi camini di melafiro e roccia dagli intensi colori che sfumano dal giallo al grigio, al nero, rendono la parete decisamente severa e affascinante. Aste paragò questa via alla Livanos-Gabriel alla Cima Su Alto, mica robetta!
Arriviamo alla famosa fessura, dove Aste, per superarla, escogitò l’ espediente dei manici di scopa, tagliati su misura e incastrati.
Non abbiamo materiale adatto per una buona protezione tentiamo comunque di salire ugualmente. La relazione che abbiamo da solo VI… ma la fessura è liscia e strapiombante, il timido chiodino, posto alla sua base, non fornisce sufficiente garanzia di tenuta in caso di caduta. Ci provo, ci prova Gianluca, ci riprovo io, ma non riuscendo a posizionare niente non ce la sentiamo proprio. Allora cerchiamo di aggirare la fessura a sinistra, ma dopo un volo diretto sulla sosta, ci guardiamo negli occhi e senza troppi dubbi stabiliamo che per oggi è abbastanza. Che non è il caso di sfidare ulteriormente la sorte.
Passano gli anni e le ripetizioni delle via di Aste si susseguono: Spiz d’Agner Nord spigolo N. O. via Oggioni con Giancarlo, grande ambiente ; Aste-Susatti alla Civetta con Giuseppe, superba arrampicata libera; Canna d’Organo alla Marmolada con Giancarlo e Alessandro, gran vione; Aste-Susatti alla Cima di Pratofiorito sempre con Giancarlo e Alessandro.
Di rientro dalla ripetizione del diedro Aste-Navasa al Crozzon di Brenta propongo a Giancarlo di passare da Rovereto a casa di Aste. Giancarlo è titubante, sarà il caso ? Magari disturbiamo? Riesco a convincerlo, sono sicuro che ad Aste farà piacere. Oltre che fargli i saluti, cogliamo l’occasione per portargli un vecchio cuneo di legno che abbiamo recuperato sulla via. Felice della visita e del regalo, ci ricambia gentilmente con un bel piatto di apprezzati spaghetti!
A questo punto di vie dell’Armando ne ho salite tante e mi potrei considerare soddisfatto , ma quella più rappresentativa, la via dell’Ideale, ancora manca alla collezione.
Aste chiamò questo settore della parete sud della Marmolada d’Ombretta “la parete d’argento” con una lunga striscia nera che dalla cima scendeva lungo tutta la parete come una linea appunto “Ideale”.
“Armando Aste racconta: «Claudio Barbier, un antesignano dell’alpinismo attuale… era al rifugio Falier in quei giorni. Al mattino della partenza, mi ha chiesto dove andavo. Gli ho detto che tentavo la linea nera, quella colata che scende dalla cima dell’Ombretta. “Sei matto, ci vogliono un sacco di chiodi a pressione!” mi ha risposto. “Io ne ho dietro una ventina, ma vedremo insomma…” .
Non fu come Barbier aveva predetto. Qualche pressione ci volle ma non più di quattordici.
Ad Aste sono stati necessari dieci anni per prepararsi e sentirsi pronto ad affrontare questa salita innovativa. Ma dal 24 al 29 luglio del 1964 Armando Aste e Franco Solina, con calma, come era nel loro stile, disegnarono sulle placconate della Marmolada d’ Ombretta la loro via “Ideale”. Diversi tentativi di ripetizione si arenano quasi subito. La prima ripetizione tre anni dopo ad opera di quattro fuoriclasse: R. Messner, S. Mayerl, H. Holzer e H. Messner il 16 e 17 luglio 1967.
“Se non fosse per quei chiodi a pressione sarebbe la via più bella delle Dolomiti” , dichiarò R. Messner, ma anche lui li usò.
Sinceramente oramai non ci speravo più di poter salire il suo “capolavoro” un itinerario decisamente d’avanguardia rispetto ai tempi, dove A. Aste e il suo grande amico F. Solina, dimostrarono grande fiuto e determinazione.
Invece, ecco che a luglio 2010 arriva una bella e inaspettata sorpresa. Mi telefona Sabrina per avvertirmi che mi ha cercato Alessandro, di Firenze. Non è da molto che ci conosciamo, ma quel poco che abbiamo arrampicato insieme ha creato un ottima intesa. Siamo in quattro così possiamo fare due cordate: io con Alessandro (i vecchietti), Carlino con Leo (i giovani). Il meteo è bello, caldo e stabile. Si potrebbe anche bivaccare, così facciamo concorrenza ad Armando.
Sono incerto: “vado? … o non vado? “
La Sabri mi incita: “ci tieni a farla? Ti sei preparato? Ti fidi delle persone che ti hanno invitato?” –
“Certo che ci tengo, mi sento preparato e mi fido di Alessandro…” – “Allora vai! “ .
La via è lunga, impegnativa, ma sopratutto bellissima! Come la “Rovereto” tanti anni fa, anche “l’ Ideale” è arrivata inaspettata. E sono molto felice d’averla condivisa proprio con Alessandro: grande via! Grande Aste!
Infine, mi torna alla mente quanto egli stesso scrisse
“Lo so, questa via che ha noi è costata tanto, potrà svilirsi, scadere. Essere ripetuta molto più velocemente…ora che l’abbiamo indicata agli altri, diluendone l’ostacolo psichico. Ma non mi curerò molto di quello che verrà” .
Alberto Benassi
pubblicato sulla rivista Rassegna Triventa del CAI “LE ALPI VENETE” secondo semestre 2017
La continuazione della conoscenza delle sue vie è continuata. L’anno scorso è stata la volta della Aste-Salice all’Ambiez e l’estate scorsa della Concordia sempre all’Ambiez.
L’ho sempre stimato. Ho cercato di capirlo salendo le sue vie. Non sono mai riuscito. Forse il suo profondo “senso” mistico-religioso me lo impedisce ancora oggi. Ma lui ha vissuto così.
Ottimo articolo
Bellissimo ricordo di un grande Uomo prima che Alpinista.
Una Storia..fantastica , racconto di un Uomo di un Alpinista, che dalla montagna , a ricevuto tanto per la sua capacità.., ma la vita gli a riservato un grande impegno..! Bellissima lettura…G.C.