Arrampicare a sud prima del 1981
(da La Pietra dei Sogni di Alessandro Gogna)
L’ascensione dell’Etna da parte dell’imperatore Adriano avvenuta nel II secolo d.C. costituisce una data certa nella storia alpinistica. Purtroppo dopo quella vi è stato il nulla per quasi 2 millenni.
È solo grazie alla cultura illuministica del ‘700 e al diffondersi del costume del Grand Tour nelle classi aristocratiche e letterarie che iniziarono i viaggi nel pittoresco Meridione d’Italia: all’inizio la grande curiosità era solo rivolta ai vulcani. Il botanico Michele Tenore sale il Monte Terminio nel 1842, lo statista Giustino Fortunato (1848-1932) percorse in circa venti anni tutto il crinale appenninico dai Monti Sibillini all’Aspromonte. Siamo ancora lontani da qualunque forma di arrampicata.
Il piemontese Guido Cibrario nel 1921 sale alcuni rilievi del Monte Limbara e dei Monti di Àggius (Sardegna). Anche se non si trattò di vere e proprie vie, Cibrario superò, a volte da solo, difficoltà di III+.
Cesare Capuis (1881-1932), accademico del CAI, livornese d’origine e veneziano d’adozione, si trasferisce a Napoli per motivi di lavoro nel 1920 e per sei anni esplora con diversi compagni i Monti Lattari (Cresta della Conocchia, spigolo sud-sud-ovest del Molare, traversata delle Creste del Demanio), i Monti Picentini e naturalmente anche Capri, arrivando al IV+ nella scala della difficoltà. È lui a salire i Faraglioni e a fare la prima traversata dell’Arco Naturale. Contribuisce alla fondazione della prima scuola di alpinismo a Napoli, creando così un primo gruppo di arrampicatori. Tra questi ricordiamo Arnaldo Fusco e Francesco Cannavacciuoli che il 18 maggio 1927 mettono piede per primi sulla svettante guglia del Pistillo. Nel 1926 abbandona Napoli e nel 1932 è vittima di un incidente mortale sulla Torre mediana di Alleghe.
Un successivo passo avanti nella storia alpinistica campana è il superamento di difficoltà del V grado. Da una parte, operano a Capri il monacense Hans Steger e la bolzanina Paula Wiesinger, che nel 1936 aprono la via diretta al Faraglione di Terra, ancora oggi normalmente seguita. Il loro è però un viaggio lampo. Invece i fratelli Riccardo e Bruno Luchini sono attivi ben più a lungo sulle vicine rocce dei Faraglioni.
Subito dopo la seconda guerra mondiale, caposcuola dei rocciatori partenopei è Francesco Ciccio Castellano (1916-1978), attorno al quale si riunisce un folto gruppo di giovani (tra i quali spiccano Antonio De Crescenzo, Adolfo Ruffini, Franco Guerrini, Alfredo Ammendola, Franco Leboffe, Paolo Bader, Raffaele Lombardi e numerosi altri compagni) che si dedica alla scalata delle ultime vie classiche più evidenti (parete nord-ovest e spigolo sud-ovest del Faraglione di Terra; diedro-camino sud-ovest della Torre Comici, ecc.
Se Castellano è l’animatore e l’ispiratore del gruppo rocciatori napoletani, il protagonista più tecnicamente dotato è Antonio Nino De Crescenzo, che riesce nel superamento delle ultime pareti inviolate e spinge le difficoltà superate oltre il VI (la sua via più bella, oggi ancora apprezzata e ripetuta, è la direttissima di 200 m sullo sperone centrale del Castiglione (Capri), aperta con Ruffini il 18 maggio 1947). Capri è suo principale teatro d’azione, ma ricordiamo alcune realizzazioni importanti come quella sullo spigolo ovest-nord-ovest del Molare (Monti Lattari), 23 giugno 1946, con Mario Potena.
Castellano e De Crescenzo hanno anche il loro cantore, il noto poeta e pittore futurista Emilio Buccafusca, anche lui bravo rocciatore, che di quelle gesta riesce a fare un mito.
In Sardegna nel 1944 un gruppo di alpini capitanato da Vittorio Cesa De Marchi sale la parete ovest-sud-ovest e cresta ovest della Punta Jacu Ruju (Oliena), 21 marzo 1944.
In Sicilia, altri alpini, nella primavera 1945 salgono la parete ovest della Roccia dello Schiavo (via Mùrtola).
A Palermo, nel 1948, la sezione del CAI chiama istruttori triestini a dirigere i corsi, poi il compito è affidato anche a Gino Soldà.
Importante la presenza in Sicilia, a Bagheria, negli anni immediatamente successivi alla guerra della grande figura di Fosco Maraini. Soldà e Maraini, assieme ad Antonio Accolla e Luigi Di Giorgio, salgono la parete nord del Pizzo Lungo, 18 maggio 1947, in un luogo (Monti di Calamigna) che sarebbe poi caduto nel dimenticatoio per almeno 20 anni.
Negli anni ’50 a Palermo si forma un forte gruppo di scalatori: sul Monte Pellegrino si realizzano salite molto belle e destinate a divenire delle classiche, come la via Colella (di Gianni Colella e compagni, 1954), il Bunker (di Giovanni Galluzzo e Luigi di Giorgio, 12 luglio 1947), il Prisma del Diavolo (per parete est, Colella con Ruggero di Pietro e Leo Urbani, 1952, probabilmente il primo sesto grado siciliano), oppure le vie sulla parete ovest del Pizzo Vuletta salite da Filippo Buttafuoco con Lucia Pagano nel 1956 e con Rino Calderaro nel 1962.
In Basilicata, sulle remote torri di Abriola, i locali Raffaele Santoro, Michele D’Angelo e Luigi Aquino salgono nel 1971 la via del Camino alla Prima Torre (80 m, V-).
Altra sporadica attività, nei Monti Alburni. Sullo spigolo ovest della Quota 1482 m del Colle Marola, tocca ai romani Marco Geri e Geri Steve superare il 20 marzo 1970 la via dei Pionieri, 150 m, V-; altri della stessa città, Gianni Battimelli, Franco Bellotti, Piero Giorgi e Nando Vallania sono attivi il 27 marzo 1970 su uno sperone parallelo.
Anche i Ciamorces della Val di Fassa, Alberto Dorigatti e Silvio Riz fanno una visita agli Alburni, salendo la parete nord-nord-est del Braccio (14 luglio 1973).
Nel Cilento, il lombardo Pino Tartagni sale da solo il Pilastro di San Giuseppe al Monte Bulghéria (9 agosto 1976, 450 m, V): lo stesso, con Giancarlo Vassena, compie il 15 agosto un piccolo capolavoro: la prima sul Pilastro Centrale (sempre al Bulghéria), una delle più eleganti e lunghe vie di tutto il Meridione.
In Sicilia, all’inizio degli anni ‘70 viene prepotentemente alla luce il nome di Umberto Capotùmmino che, da solo o con vari compagni, abbattendo ripetutamente la barriera del VI grado, risolve alcuni tra i più bei problemi del Monte Pellegrino, come la via dei Cristalli (1974), la Diretta (con Pietro Cipolla, 1974), la via del Frate; accanto a lui si fanno notare Marco Bonamini, Sergio Cucchiara, Federico Landi e Vito Oddo che, il 7 aprile 1974, salgono il Pizzo Volo dell’Aquila, per la via dei Quattro Scoiattoli, un itinerario di grande respiro, già tentato da Soldà.
Negli stessi anni comincia, giovanissimo, la sua attività infaticabile Roberto Roby Manfrè Scuderi, che lo vedrà protagonista assoluto nell’esplorazione e aperture di nuove vie per quasi vent’anni: dapprima sul familiare Monte Pellegrino, quindi in tutta la Sicilia, prima con un piccolo gruppo di amici, tra cui il fratello Gabriele, Giulio Naselli, Maurizio Lo Dico e Giuseppe Maurici, poi, con l’aumentare del numero degli arrampicatori, si legherà ad altri scalatori formatisi nell’ambito della neonata scuola di Alpinismo Costantino Bonomo, come Nicola Federico, Gianfranco Salatiello, Mauro Bonazzi e Tonino Paladino. Tra le più belle realizzazioni del primo periodo (prima dell’ottobre 1981) ci sono le vie A Giulio (con Maurici e Alessandro Bellavista, 16 novembre 1980) e la via della Speranza (con Maurici, 1 settembre 1981), entrambe allo Schiavo.
In Sardegna, le cose vanno un poco più a rilento. Si ha notizia della visita di alcuni Scoiattoli di Cortina d’Ampezzo al Semaforo di Capo Caccia, spigolo sud-ovest, (10-11 settembre 1971, Luciano Da Pozzo, Franz Dallago, Diego Valleferro e Diego Zandanel, VI e A1).
Anche il lecchese Ivo Mozzanica è uno dei primi alpinisti a comprendere le potenzialità della Sardegna e fin dai primi anni ‘70 si dedica all’esplorazione di alcune zone galluresi, fedele all’etica dell’arrampicata libera “no chiodi”.
Nel 1973 approdano all’isola i Finanzieri di Predazzo, un gruppo di bravi rocciatori capeggiati da Alessandro Partel. Questi ha l’occhio per vedere quanti problemi sono ancora insoluti sulle montagne più in rilievo dell’isola, ovviamente nel Supramonte ma anche all’isola di Tavolara.
Partel e i suoi compagni dimostrano con una decina di vie nuove, lunghe sino a 600 metri, che in Sardegna c’è spazio per la grande avventura su pareti non di molto inferiori a quelle dolomitiche, e su roccia di ottima qualità. Le loro vie risolvono grossi problemi, anche se il quasi obbligato uso dei chiodi (ricordiamo che sono ancora dotati di scarponi rigidi!) limita alle grandi fessure (spesso ingombre di vegetazione) la scelta dei percorsi. Il loro esempio spinge anche i primi sardi a farsi avanti.
Al di là dell’esempio da alpinismo classico dei Finanzieri, verso la fine degli anni ’70 sono attivi in Sardegna due gruppi ben distinti di arrampicatori, i romani e i valtellinesi.
I primi, Fabrizio Antonioli, Massimo Di Rao, Olimpia lorio, Massimo Frezzotti e Gianni Battimelli esplorano il Supramonte di Dorgali, limitandosi però alle falesie di basso sviluppo come quelle del Dolòverre di Sùrtana e di Cala Gonone. La loro ricerca è vincolata alla gioia della scoperta e spesso s’interrogano se “promuovere” o meno le loro stupende realizzazioni che, anche se generalmente di media difficoltà, sono condotte con mezzi “puliti” e rimangono ancora oggi classici esempi di arrampicata in Supramonte. Maurizio Oviglia, nel suo Sardegna (Guida dei Monti d’Italia) osserva: «Ma l’importanza della loro opera non è tanto da ricercare nel valore alpinistico dei singoli itinerari quanto nel fatto che essi aprirono la strada (con il successivo affermarsi dello spit) all’arrampicata “sportiva” sulle brevi falesie calcaree della zona, proprio in virtù del carattere spiccatamente ludico delle loro realizzazioni. Ed è interessante notare come questo diverso atteggiamento nei confronti della roccia (da quello dei Finanzieri, ma anche da quello “esplorativo” del gruppo di Alessandro Gogna) fu importato in Sardegna proprio dal gruppo di alpinisti che in quegli anni erano (geograficamente, ma anche tradizionalmente) più lontani dalla catena alpina.
Negli anni successivi, infatti, gli spit cominciarono a proliferare proprio sulle rocce scoperte dai romani, diversamente da quelle esplorate dai “sassisti” (intransigenti all’uso dello spit) e dai piemontesi (grandi vie, di complicato accesso e di difficile ripetizione), che rimasero per lunghi anni tralasciate dagli arrampicatori sportivi».
I secondi, un gruppo di Sassisti, esperti di granito, sceglie invece le rocce della Gallura, anche in questo caso non più lunghe di un centinaio di metri. L’attività del già citato Mozzanica viene continuata e portata ai limiti. Si distingueranno Paolo Masa e Jacopo Merizzi. Essi si dedicano all’esplorazione di Capo Testa, aprendo itinerari sovente molto difficili e secondo un’etica di totale rifiuto dei chiodi a espansione. Già nel 1980 il livello delle loro vie, come a esempio Seno di Luna, sfiorava il VII grado.
Alessandro Partel
Quello che è stupefacente della campagna di Alessandro Partel (Fiera di Primiero-TN, 20 giugno 1946- deceduto nel 2019) e compagni nel 1973 è la successione impressionante di vie, un giorno dietro l’altro o quasi: un sistema molto simile a quello del team di Mezzogiorno di Pietra. Ma le differenze erano tante: scarponi rigidi, classico sistema dolomitico, rigido rispetto della richiesta permessi al comando. A dispetto di questo, una via come lo spigolo nord-ovest di Punta Cusidore (Emilio Beber, Carmelo Andreatta e Giovanni Cagnati, 1 ottobre) può a ragione essere considerata la più classica della Sardegna, “forse tra le grandi vie quella che più si avvicina allo stereotipo alpino (Oviglia)”.
Nello stesso giorno Partel con Aldo Caurla saliva la parete nord di Punta Cusidore, per la via Onorevole Emilio Colombo (IV, V e A2).
Il 2 ottobre Beber, Andreatta e Cagnati salirono il facile spigolo nord del Monte Oddeu (via XV Legione) e nello stesso giorno Partel e Caurla riuscirono su un complicato itinerario (via Fiamme Gialle) sulla parete est del Monte Oddeu.
Anche un’altra salita su questa parete (via Dario Cinus e Martino Cossu, VI/AO, i due capicordata assieme, Partel e Beber, 3 ottobre) è una bella realizzazione che sfida ancora i nostri canoni moderni. In vari casi i finanzieri ricorsero a uso spinto di mezzi artificiali, raggiungendo quindi gli obiettivi prefissi senza però realizzare vie belle davvero. Ma in ogni caso senza mai usare chiodi a pressione. Il 6 ottobre la squadra era a Tavolara, raggiunta con la motovedetta e ricevuta con tutti gli onori da Tonino, il “Re di Tavolara”: nei due giorni del 6 e del 7 ottobre tracciarono due vie sul più evidente pilastro di Tavolara, quello di Punta di Lucca: Partel e Caurla su Caduti dell’Hercules e Beber, Andreatta e Cagnati su Sergente Gavino Caria. Questi itinerari sono stati sicuramente ripresi, almeno in modo parziale, da successive esplorazioni di altri che però vantarono prime ascensioni, nonostante i numerosi chiodi lasciati dai finanzieri, che non avevano alcun problema di sperpero materiale. Ciò che invece è sicuro è l’annuncio alla stampa di Cesare Maestri che programmava una visita a Tavolara: viaggio abortito non appena informarono il Ragno delle Dolomiti che i due “problemi” dell’isola erano già stati risolti.
I nostri, non contenti, si spostarono a Capo Caccia, dove sulle rocce del Semaforo aprirono il 9 ottobre la via Finanziere Farci Antonio (Partel e Caurla), il 10 la via CAI Cagliari (gli altri tre). Dopo un bottino di questo genere, abbastanza pubblicizzato dalla Guardia di Finanza, Alessandro Partel è invitato dal CAI di Cagliari a dirigere i corsi di alpinismo sezionali: e questo andrà avanti per dieci anni, fino a che Corrado Pìbiri non assumerà in prima persona la direzione. Nel frattempo è anche merito di Partel l’istituzione del soccorso alpino.
Quando, nel 1980, Partel ritorna in primavera affiancato da Giovanni Soma per altre vie nuove ci sono delle novità: la cordata è dotata sia di scarponi rigidi che di scarpette lisce. Aprono altre due vie a Bruncu Nieddu, lo spigolo delle Fiamme Gialle e la via Gonario Sanna senza dire però niente di diverso da sette anni prima. I tempi sono maturi per altro. Ma c’è un episodio curioso: i due non riescono ad avere in tempo un permesso, decidono però di salire ugualmente una via che gli stava a cuore, lo spigolo del Pizzo Lungo. Nulla dicono di questa salita, per paura di essere ripresi dal comando, e solo oggi la cosa salta fuori. In realtà Partel e Soma hanno salito, senza lasciare alcun chiodo in posto, quello spigolo che poi salii io con Marco Bernardi, Stupidi e malprotetti! Secondo Partel, la Punta Carabidda è infatti conosciuta anche con il nome di Pizzo Lungo.
Partel torna ancora in autunno con Giacomo Corona, altra retata di prime: il 31 ottobre sul Bruncu Nieddu, via Ermanno Gugiatti; sul Monte Uddè, parete nord-ovest, via Remo Felicetti (1 novembre 1980) e via Davide Buzzi (3 novembre 1980); il 4 la via Raffaele Cugusi a Cusidore e il 7 il lungo spigolo nord-est di Pedra Mugrones. L’avventura è dunque durata a lungo per Partel e compagni, in un tempo in cui per chiamare soccorso lui si affidava all’autista della camionetta che, se non li avesse visti indietro per una cert’ora, avrebbe dovuto chiamare la caserma della Guardia di Finanza di Passo Rolle!
Il contributo dato da Partel allo sviluppo dell’arrampicata in Sardegna è innegabile: i vari Bruno Poddesu, Corrado Pìbiri, Beppe Domenichelli, Raimondo Mondo Liggi, Alessandro Cattaneo e tanti altri sono passati attraverso i suoi corsi.
Corrado Pìbiri
Corrado Pìbiri nasce a Sanluri (CA) il 18 febbraio 1959. Inizia ad arrampicare nel 1976 con gli scarponi, poi adotta le Superga e infine passa alle scarpette, un iter a quei tempi del tutto normale. Ciò che non è normale è che, da cagliaritano, ha ben pochi riferimenti alpinistici. Abbandonata una carriera da saltatore in lungo, per infortunio, da autodidatta per forza, è ben felice che Partel diriga i corsi di alpinismo: ma Alessandro è una “meteora”, come arriva poi riparte. Non riesce a programmare nulla, neppure con il sardo Giovanni Soma, compagno di Partel, che per un periodo lo ospita al campo dei finanzieri, dove si mangia e si beve, facendolo passare per un cugino in modo da non far incazzare più di tanto il colonnello. È Istruttore Nazionale del CAI e direttore della Scuola del CAI di Cagliari, avendo preso il posto di Partel nel 1985.
L’inizio è a Villacidro, fa molte salite con Alfredo Papini, un ottimo alpinista di Calolziocorte (LC) che sarà suo amico e compagno per molti anni. «Ero ancora un alpinista in erba quando cominciai a legarmi alla sua corda, puntualmente ogni estate, quando veniva giù in Sardegna con “la Meloni” (come affettuosamente chiamava lui la moglie) e le bambine. Venivano a trovare i parenti della moglie, per andare al mare e per scalare, lui, il fine settimana, lontano dalla calca che affollava le spiagge… una persona che dietro a un’umiltà unica celava una conoscenza della montagna che aveva pochi eguali. Con le sue oltre 2000 ripetizioni su tutto l’arco alpino, chiunque altro si sarebbe posto in una certa posizione di prestigio. Ma non lui».
È però con Beppe Domenichelli e Bruno Poddesu (nato a Cagliari il 12 marzo 1950) che il 13 aprile 1980 sale Strike al Garibaldi (Perda ‘asub ‘e Pari), la fessura in granito assai difficile (senza friend, solo cunei di legno) che gli aprì il mondo dei sogni futuri. Pìbiri si lancia allo spigolo della Cusidore, vuole assolutamente riuscire sulla salita più rappresentativa, che nessuno aveva ancora ripetuto. Ci riesce con Poddesu nel novembre 1980, aprendo, con le Superga, anche una variante diretta da tutti ripresa in seguito. Lo spigolo della Cusidore strega Corrado al punto che lo ripete (anche più volte) ogni anno. Sua è anche la prima solitaria (23 marzo 1981). Con la ripetizione nello stesso anno della via Onorevole Emilio Colombo (con Alessandro Cattaneo), Pìbiri è ormai allo stesso livello tecnico: avrei dovuto invitarlo nella nostra campagna sarda, ma non lo conoscevo. Avremmo potuto operare con quello spirito collaborativo che invece fu ben presente con i locali siciliani. E invece fa la sua strada con Ercole Ambu e gli amici Domenichelli e Poddesu: il 5 settembre 1981, a Ulàssai, salgono un itinerario sul Bruncu Pranedda. L’artista Maria Lai, nativa di lì, ha avuto l’idea di cingere di nastro azzurro le strade del paese in occasione della festa della Vergine di Monserrato Santa Maria. I nostri riescono a portare il nastro anche in parete, fino alla cima del Bruncu Pranedda, provocando il delirio dei fedeli.
Con Massimo Marcheggiani, l’11 maggio 1982, sale il primo pilastro sulla muraglia nord-ovest del Bruncu Nieddu, oggi molto ripetuto. Con lo stesso e Andrea Scano, il 4 aprile 1983, sale Le pecore sono sole, una via a Monte Uddé a destra di Tempo reale. Il 25 marzo 1984 con Francesco Salis apre la via Daniela sulla Ovest di Punta Cusidore, che rimarrà per parecchi anni l’unica della parete. E in aprile, il 22, sul settore sinistro della parete nord di Cusidore con Salis apre la via del Gas, un pilastro individuabile per la caratteristica forma a mezzaluna. L’11 agosto è a Gorropu con Cattaneo e Papini per salire il lungo spigolo nord della Punta Cucuttos (via Olimpico), mentre nell’ottobre 1985 nel tentativo di ripetere il Pilastro Comino, fa una variante sulla destra fino alla cengia (Fumakilla).
Corrado Pìbiri è laureato in lingue e insegna inglese a Elmas. È sposato con Alessandra Boi.
Massimo Frezzotti
Che cosa ricorda Massimo Frezzotti, romano (26 agosto 1956), responsabile dell’Unità tecnica Antartide dell’Enea e glaciologo di fama internazionale, di quei due anni di viaggi brevi ma spensierati per la Sardegna alla ricerca di rocce nuove?
– Il suggerimento mi è arrivato da Gianni Battimelli, che già la conosceva. Nell’agosto 1979 ero alla base del Grand Capucin e volevo salire la via Bonatti con la mia compagna di allora, Olimpia Iorio. Nevicava. Tornammo col treno a Roma, prendemmo la mia Vespa 150, la roba e la tenda e via sul traghetto. Prima andammo alle Torri di San Pantaleo, ma il caldo torrido ci respinse. Così andammo al mare, a Cala Gonone, dove vedemmo prima Gorropu e poi le strutture caratteristiche della Poltrona e del Budino. Fu così che salimmo le Placche di Woodstock il 20 agosto, dal basso, 2 chiodi in tutta la via. Erano placche lavorate, ma non potevo piantare nulla. Nell’ultimo tiro difficile, dato poi in seguito anche da altri di VI-, misi solo una o due fettucce in clessidra…
Per quell’agosto ci bastò, faceva un caldo…
Nell’aprile 1980, dopo Ayatollah al Budino dei Giganti e lo Sperone Lilith alla Poltrona, tornai con Olimpia e Gianni, salimmo la via di Partel sullo spigolo nord del Monte Oddeu, e da lì potemmo osservare lo splendore del canyon roccioso del Dolòverre di Sùrtana. Era fantastico… chilometri di roccia a nostra disposizione. Facemmo Lunghi coltelli e Paradiso perduto: i due nomi la dicevano già lunga sulle difficoltà che avevamo, quella di riuscire a non tagliare le corde su quella roccia così affilata e quella di tacere con tutti di quel paradiso terrestre. Già il Natale dello stesso anno eravamo giù in gruppo assai più numeroso. Oltre a Olimpia, Gianni e me, Sùrtana vide arrampicare anche Fabrizio Antonioli, Massimo Di Rao, Simone Gozzano, Tullio Bernabei e Fabio Delisi. Con il Paese delle Meraviglie e altre vie, alla fine erano già dodici i percorsi tracciati senza traccia.
– Poi arrivammo noi, nel 1981…
– E io non tornai per un bel po’. Ricordo che c’incontrammo nell’80 a Roma e parlammo se era il caso di tacere su quel posto meraviglioso. L’idea di arrivare a Sùrtana e di poter andare senza tracce ovunque era stupenda. Solo spuntoni, dadi e clessidre.
Poi la storia andò diversamente, ma io ero d’accordo con Battimelli: lasciare tutto senza relazione, permettere ad altri la vera esplorazione. Lì era possibile, la roccia lo favoriva. Oggi questo non può essere proposto, se non in luoghi assai remoti nel mondo. Anche in Marocco, sono stato recentemente in Tafraoute (Anti-Atlante) dove gli inglesi hanno sviluppato un’enorme area trad. C’è una guida con duemila itinerari… se li ripeti li fai sempre con qualche variante, perché non c’è nulla di fisso, neppure tracce di magnesite.
– Però, ricordo che allora, quando vi ho chiesto le relazioni, me le avete date…
– Ma sì, certo. La nostra non era una posizione antagonista, era filosofia. Sei stato tu a tracciare con i Cento Nuovi Mattini l’idea, lì era un nuovo terreno di gioco. Non era più la sfida alla montagna ma “arrampicata ludica”, senza conflitto né competizione.
– E poi? Che mi dici della via del Medioverme, alla Est del Monte Oddeu, alta 250 m? Tra l’altro fatta il 19 aprile 1981, pochi giorni prima del nostro arrivo primaverile con Marco Bernardi sotto la Est dell’Oddeu.
– Beh, lì loro hanno cominciato a riportare in parete, e quindi su un piano di maggiore serietà, quella sensazione di freschezza che allora permeava tutto il gruppo romano. La salita fu fatta dal gruppo di Roberto e Giuseppe Barberi (ma Roberto non c’era quella volta) al gran completo: c’erano infatti anche Maurizio Tacchi, Giancarlo Cicconi, Marco Forcatura e Stefano Finocchi. Un gruppo che andava fortissimo e che avviò i primi itinerari con qualche spit piantato dal basso sulle pareti di Sperlonga.
– Una gran bella via. La parete era già stata salita da Alessandro Partel e Aldo Caurla il 2 ottobre 1973, via Fiamme gialle e ancora da Partel con Emilio Beber il giorno dopo, via Dario Cinus e Martino Cossu: ma erano itinerari con molta artificiale. Perciò la via del Medioverme è stata un vero passo avanti, che ancora oggi non sfigura nei confronti delle nuove belle vie fatte, come a esempio La mia Africa di Oviglia.
– Cosa ne pensi delle difficoltà di diffusione del free climbing in Sardegna?
– Non siamo più abituati ad andare per fratte, come eravamo allora perché eravamo costretti a cercare le fessure che, a bassa quota si sa a volte sono invase di vegetazione. Poi allora c’erano anche più incendi… Per fortuna a Sùrtana questo problema non c’era, c’era il ginepro e basta, senza erba. E poi, per il free climbing più diffuso, la roccia dev’essere in grado di accettare le protezioni veloci. Se no intraprendi dei “viaggi” senza sapere dove stai andando… non è come in granito.
A ogni modo, con la riclassificazione dei siti cui assistiamo, dove è possibile farlo sarebbe opportuno lasciare libero da descrizioni e attrezzature. Mi capita di trovare spit con accanto una clessidra che probabilmente tiene dieci volte lo spit… Io non sono contrario, però per i problemi di ossidazione e per maggiore semplicità, inviterei tutti a riflettere…
Marco Bernardi
Da Genna Silana o dalla Strada Orientale Sarda la visione di su Gorropu, orrido ristretto tra pareti una volta inaccessibili, è indimenticabile. Si indovina un tortuoso meandro, profondo fino a 500 metri, in cui si stenta a credere che il cielo possa ancora vedersi aperto. Possiamo immaginare rapaci che volano sicuri in luce crepuscolare lanciando strida che l’incassato corridoio di roccia porta poi a rapida risonanza.
– Quello che mi ricordo è una gran sete in una giornata bellissima – mi racconta Andrea al riguardo del Pilastro Comino.
Era il 28 giugno 1980. Anche io ero in Sardegna e se avessi saputo che Marco Bernardi e i suoi compagni Andrea Gobetti e Claudio Persico dalla cantoniera di Genna Silana avevano esaminato l’Orrido di Gorropu e scelto di salire quello splendido pilastro, a destra dell’Orrido e alla fine meridionale del Monte Oddeu… quella Punta s’Iscopargiu che tanto avrei ammirato in seguito… beh, avrei mendicato una presenza nella cordata!
Presa la decisione, si erano accampati al ponte sul Flumineddu: faceva caldo e si erano fatti un bel bagno nei laghetti. Fatta amicizia con il pastore.
– Avevo una ragazza meravigliosa – continua Andrea con il tono delle grandi occasioni, quello professorale in aulica caricatura – … bei tempi. Il 27 sono saliti su solo Marco e Claudio, e sono arrivati alla cengia. Il 28 mi hanno preso con me, loro salivano bravissimi, io li seguivo a jumar… la risalita a jumar è il mio forte…
– Certo, come speleologo… anzi, avrai anche detto: “fantastico, non solo salgo bene, ma oggi ci vedo anche benissimo!”.
– Doveva esserci anche Icaro (Corrado De Monte), ma poi non arrivò. Marco arrampicava forte… e poi la discesa… una sete bestiale!
Il Pilastro dedicato a Gianni Comino fu il primo capolavoro di Marco Bernardi, la prima grande salita che aprì le porte a tutto ciò che seguì. Anche se, nell’immediato, non se ne ebbe notizia.
– Si sa solo di una ripetizione.
– Lo credo – esclama Andrea – Marco è temutissimo da tutti… guarda che quando Yves Remy è andato a fare in solitaria Tempo Reale al Monte Uddè si è cagato addosso, è tornato sconvolto, ben felice di essere ancora vivo. A Su Bentu, Gianni Pinna gli offrì un bicchiere di Oliena, e quello se ne tracannò due o tre!
Il Pilastro Comino raccontato da Marco sembra essere soltanto una gloriosa uscita in vetta alla luce del tramonto, poi giù di corsa a bere e a incontrare l’equipe di RAI Tre che girava su di loro un video, Alpinismo mediterraneo, da lui mai visto (e neppure da noi!). L’unica curiosità di cui si rammenta è il rotolone di corda statica che Gobetti voleva assolutamente fosse portato su e piazzato: una piccola scarica di sassi lo rese inservibile per il giorno dopo!
Il Supramonte di Baunei si appoggia su un’immane scogliera, gigantesca falesia che si prolunga fino a Capo Monte Santu. Anche se le rocce per lo più non strapiombano direttamente sul mare, l’effetto è comunque grandioso e quella più o meno sottile banda verde tra l’azzurro del mare e la verticalità delle rocce è un colore fondamentale nella grandiosa tavolozza dello scenario.
Il 2 luglio 1980 Marco e Claudio hanno salito a comando alterno la Via del Carasau sulla Punta Giràdili, uno stupendo pilastro di notevole altezza, certamente la più bella struttura di tutta la Scogliera di Monte Santu. Hanno dedicato la loro impresa al carasau perché si sono accorti che esso è una delle cose più squisitamente sarde. I pastori alla mattina mangiano un po’ di carasau bagnato e un pezzo di pecorino. Alle dieci fanno uno spuntino ancora con «carta da musica» e formaggio. A mezzogiorno, durante i lavori primaverili ed estivi, gli uomini portano nelle campagne un po’ di carasau, un altro pezzo di formaggio e una bottiglia di vino.
All’attacco della via, sul primo tiro e sotto ripresa video, Marco rischia di cadere. Si attacca al bordo di un buchetto, mal valutandolo, questo si spezza. Ma con un colpo di reni da gatto Marco blocca la caduta afferrandosi mezzo metro più in basso.
– Se non lo riprendevo, non ci credevo – mormora l’operatore.
Non dobbiamo dimenticare Claudio Persico, a quei tempi davvero in forma. Meravigliava il regista che li ospitava nella sua villa facendo trazioni su una trave: perché riusciva ad alzarsi comprimendo le palme delle mani sui lati della trave, alzandosi quindi a squadra a pressione! Secondo Claudio era il regista che gli faceva vedere, in giro per il Supramonte, le pareti più belle. A loro non rimaneva che andarci con entusiasmo, senza sapere neppure da che parte approcciarle. La trasmissione durava in tutto una cinquantina di minuti, divisa in due puntate: le due grandi scalate del Pilastro Comino e della via del Carasau erano precedute da una discesa della Gola di Gorropu.
– Mi sentivo una giovane marmotta un po’ hippy – commenta oggi Claudio, che comunque ci tiene anche un po’ a far sapere di non essere stato il “secondo” di Marco, ma che pure lui andava da capocordata.
– Da che parte siete andati all’attacco della Punta Giràdili? – chiedo a Marco.
– Ah, dal mare… una bella cinghialata!
Oggi tutti conoscono la famosa cengia, percorsa anche da Selvaggio Blu, con la quale in una comoda mezzoretta si scende all’attacco…
La via del Carasau è stata ripetuta una sola volta (con una variante che evita il tiro di A3) da Marcello Cominetti e Sandro Pansini il 18 giugno 1991. Nella parte alta oggi è ricalcata dalla via moderna Wolfgang Güllich.
Racconta Maurizio Oviglia: «Ieri 27 febbraio 2014 ho ripetuto un’altra delle grandi vie di Bernardi in Sardegna, il Pilastro Comino… Assieme a Fabio Erriu, cui ho regalato questa via per i suoi 70 anni (era un suo sogno), abbiamo pensato che potremmo fare un restyling rispettoso di alcune di esse, e cioè togliendo invece che aggiungere. Nella fattispecie vorremmo ripulirle dall’erba, tagliare i rami che ostacolano la progressione, mettere qualche cordone intorno alle piante più sicure per esempio quelle su cui faceva sosta. Chiodi già non ce ne sono o quasi, ma al limite qualche chiodo normale, non più di uno o due si potrebbe aggiungere. Questo anche per far conoscere la bellezza e la modernità di queste vie (Marco faceva senza spit quello che in Verdon facevano con gli spit, a quei tempi!) e magari portare qualcuno in più a ripeterle. E poi per evitare che qualcuno le spitti…».
Claudio Persico (Torino, 5 settembre 1956) oggi è in pensione per invalidità. Una brutta caduta sulle rocce delle Striature Nere in Val di Susa lo ha menomato per molto tempo, compreso un lungo periodo di black out di memoria. Gli piace sciare, dopo aver ricominciato dallo spazzaneve, ma alla roccia si sente estraneo.
Marco Bernardi, nato a Torino il 6 febbraio 1958, dopo l’orgia di roccia della primavera ’81, iniziò la preparazione in montagna per ottenere il diploma di aspirante guida nello stesso anno. Fino al 1987 fu professionista, guida alpina e testimonial di aziende sportive: questa carriera, sottolineata da altre splendide realizzazioni sulle Alpi, fu però interrotta da una serie di problemi muscolari che lo costrinsero a limitare l’intensità degli sforzi. Allora Marco iniziò una seconda vita, quella del consulente informatico di grande successo, attività che lo portò in giro per il mondo e lontano dalle scene alpinistiche e arrampicatorie. Non abbandonò però la scalata, limitandosi a quella sportiva: e nel 2010 riattivò il suo diploma di guida alpina. Sposato con Daniela, ha adottato due bambini etiopi, Betremariam e Sosina, fratello e sorella, che oggi hanno 14 e 10 anni.
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Complimenti Alessandro, molto bello!
Inchino a Bernardi e a quanto era avanti. “Spalle al muro” al Bruncu Nieddu, di cui facemmo la prima (unica?) ripetizione nel 1994, la ricordo come una bella legnata in fessura, considerando che lui l’aveva aperta (penso) senza friends.
https://gognablog.sherpa-gate.com/ben-laritti-storia-meteora/
letto anni fa il libro, mi pare ci sia passato anche Ben Laritti ..tra Sardegna e Capri…nel gruppo dei Finanzieri-..ci deve essere stato un gran passaparola…forse per variare ambiente.
Molto interessante e ben fatto, grazie redazione di G.B.
La storia è fondamentale per capire l’oggi e il domani. Bello leggere di questi giorni grandi e di cosa sono diventati alcuni protagonisti che avevo perso di vista, come Marco Bernardi… Grazie!