Arrampicarsi all’inferno

Il soccorso di Claudio Corti sulla parete nord dell’Eiger.

Arrampicarsi all’inferno
di Pietro Giglio
(pubblicato su Rivista della Montagna n. 232, gennaio 2000)
Le immagini in B&N sono tratte da Ragno bianco, Garzanti, 1959

Nel secondo dopoguerra gli alpinisti europei di punta si erano interrogati sull’operato di coloro che li avevano preceduti sulle grandi pareti delle Alpi, e il periodo che più dava da pensare era quello immediatamente a ridosso del conflitto. È noto che tra il 1931 e il 1938 si era svolta l’epopea delle triade alpina costituita dalle pareti nord di Cervino, Eiger e Grandes Jorasses, e, in particolare, il 1938 aveva visto la conquista dell’Eiger da parte di una cordata mista austro-tedesca e dello sperone Walker alle Grandes Jorasses da parte dell’equipe di Riccardo Cassin. Dopo l’intervallo forzato del conflitto, gli alpinisti francesi, tedeschi, austriaci e italiani si trovarono di fronte a vie dal sapore leggendario, con le quali non era stato possibile cimentarsi a causa della guerra. Il nazionalismo esasperato che aveva caratterizzato le corsa alle pareti nord si era rinvigorito durante il conflitto e al suo termine era ancora fortemente radicato nell’animo dei giovani. Gli alpinisti non erano da meno, e di lì nacque il desiderio, alimentato dai vari club alpini, di dimostrare la superiorità delle nazioni vincitrici, o di riscattare l’onta della sconfitta militare di quelle che avevano avuto la peggio. Così si innescò la corsa alla prima ripetizione francese, tedesca, austriaca, italiana. Il seme dello spirito europeo era ancora di là dal nascere, anche se la cooperazione tra alpinisti di diversa nazionalità si era già realizzata nel 1952, quando la cordata francese di Gaston Rébuffat aveva collaborato alla riuscita della salita alla Nord dell’Eiger con una cordata tedesca e con quella austriaca di Hermann Buhl.

Nel clima dei primati si inseriscono i tentativi italiani di ripetere la storica via dell’Eiger, che avevano avuto un precedente drammatico nel maggio del 1938, quando i vicentini Bortolo Sandri e Mario Menti erano caduti sulla Nord nella corsa alla prima salita.

Il grandioso versante nord dell’Eiger alto 1800 metri.

Il dramma del 1957
Così nell’agosto del 1957 gli alpinisti lecchesi Claudio Corti e Stefano Longhi si trovarono ai piedi dell’Eiger per realizzare il sogno della prima ripetizione italiana. L’avventura dei due sulla Nord ebbe inizio il 3 agosto e dopo nove giorni e otto bivacchi si concluse con la morte di Longhi e il recupero di Corti con un’arditissima operazione internazionale di soccorso, alla quale presero parte i più qualificati tecnici d’Europa. Durante la scalata, la cordata italiana aveva incontrato i tedeschi Günther Nothdurft e Franz Mayer, che avevano lo stesso obiettivo. Italiani e tedeschi arrampicarono vicini fino sopra il Ragno, quando cadde Stefano Longhi, che rimase ferito e fu lasciato su un terrazzino. Poi Corti e i tedeschi formarono una sola cordata con in testa Claudio, che condusse fino a circa 300 metri dall’uscita, dove fu colpito in testa da un sasso e cadde, restando a sua volta ferito. Poi i tedeschi proseguirono verso l’uscita, dopo aver assicurato Corti alla parete. I due furono ritrovati molto più tardi, morti, lungo la via normale di discesa. Corti fu recuperato dalla cima dell’Eiger con un verricello che calò per 320 metri la guida tedesca Alfred Hellepart appeso a un sottile cavo d’acciaio, mentre Stefano Longhi, che era nel frattempo morto, fu recuperato due anni dopo. La vicenda, riproposta nella nuova edizione del CDA di Arrampicarsi all’Inferno, sollevò molti dubbi sulla preparazione della cordata italiana e, in particolare, sulle presunte responsabilità di Claudio Corti nella morte del compagno e dei tedeschi Günther Nothdurft e Franz Mayer, i quali sarebbero stati ostacolati nel tentativo di superare la più lenta cordata italiana. Si tratta quindi di una vicenda che ha insieme i contorni della tragedia e del giallo, e che all’epoca trovò ampio spazio sui giornali di tutto il mondo. Nell’intervista che segue, Oriana Pecchio ripercorre con le parole di Claudio Corti il dramma di quel lontano 1957, proponendo un documento che quanto meno farà riflettere e che costituisce un utile complemento per la lettura del libro di Olsen.

All’inferno e ritorno
Claudio Corti racconta la sua verità sulle tragiche giornate del tentativo di realizzare la prima italiana all’Eiger.
a cura di Oriana Pecchio
(pubblicato su Rivista della Montagna n. 232, gennaio 2000)

Non posso ricordare direttamente la tragedia che si svolse sulla parete nord dell’Eiger nel ’57, e anche nel ’62, quando fu pubblicato il libro di Olsen, il mio interesse per la montagna e l’alpinismo si limitava agli articoli che Rolly Marchi pubblicava su Topolino. Più avanti negli anni, la Nord dell’Eiger continuava a non interessarmi. Mi suscitava una sensazione di gelo mortale: John Harlin era morto per la rottura di una corda fissa proprio sull’Eiger, Clint Eastwood girava Assassinio sull’Eiger proprio lì (e non sulla Nord del Cervino o delle Jorasses), e poi la beffa della finestra della ferrovia che attraversa la montagna, inservibile per prestare soccorso, ma osservatorio privilegiato sulla scena della morte. A me interessa la montagna per il piacere di arrampicare sulla roccia calda o di risalire un ghiacciaio nel sole, non certo per misurami con l’orco, il male. Solo recentemente l’approccio storico con la rilettura delle salite nell’arco di sessant’anni, bell’esemplificazione dell’evoluzione dell’alpinismo dal punto di vista sia di tecniche che d’idee, mi ha portato a interessarmi anche all’Eiger e alla lettura di Arrampicarsi all’Inferno, libro, strano a dirsi, appassionante ancora adesso, da divorare e meditare. È stato quindi con un certo interesse che mi sono recata a conoscere Claudio Corti, uno dei protagonisti di quella lontana vicenda. Claudio Corti abita a Olginate, a pochi chilometri da Lecco, in una casetta che si è fatto da solo, mattone su mattone, perché il Claudio, come ci tiene a precisare la moglie, è sempre stato un gran lavoratore. Mi accoglie con cortesia e si mette subito a raccontarmi di quegli avvenimenti di quarantadue anni fa, prima ancora che glielo chieda, come se veramente volesse che qualcuno riportasse fedelmente le sue parole, senza travisamenti o mistificazioni. Le pesanti accuse che gli erano state lanciate nei giorni successivi al suo salvataggio: sia le terribili insinuazioni da parte della stampa germanica di aver contribuito alla morte di Nothdurft e Mayer, sia le critiche da parte italiana, (L’Europeo del 16 agosto 1957 pubblicava un articolo di Guido Tonella dal titolo “Sapremo mai la verità sul dramma dell’Eiger? Rannicchiato contro la parete di roccia Longhi sperò sino all’ultimo”), devono aver gravato come un macigno per tutti questi anni.

«Molte delle cose che ho detto subito dopo il mio salvataggio sono state travisate, non so perché. Io ho firmato una relazione, che era stata richiesta dal CAI ai primi di settembre. L’avevo fatta scrivere da un signore di Olginate, che non era un alpinista, perché non potevo ancora usare le mani che erano congelate e tagliate e io l’ho solo firmata».

La parete dell’Eiger con la sequenza delle difficoltà da superare.

Mi fa vedere dei fogli ingialliti, l’originale della relazione, per farmi notare che la calligrafia era diversa dalla sua. «Il Claudio – interviene la moglie – non ha mai saputo scrivere, come tanti. Per lui era più facile scalare una montagna che scrivere una lettera». Prende un manifesto della Nord dell’Eiger, che si è comprato due anni fa, quando è andato a Grindenwald a rivedere la montagna, e mi indica il luogo dove hanno fatto il bivacco, un terrazzo dove avevano potuto fermarsi tutti e quattro, prima della Rampa. «Per tutta la notte abbiamo sentito scaricare sassi e ghiaccio dal Ragno. Alla mattina abbiamo deciso di non fare la Traversata degli Dei, perché troppo esposta alla caduta di pietre e abbiamo percorso la Rampa fino a questo punto (e me lo indica sul poster) dove c’è un salto di roccia di circa 30 metri (IV e V), abbiamo messo tre o quattro chiodi, abbiamo traversato di proposito più in alto, e ci siamo fermati più in alto del Ragno, non sul Ragno, perché io il Ragno non l’ho mai visto. Al mattino io ero capo cordata, poi venivano i due tedeschi e il mio compagno era ultimo. Il Longhi, fatti quindici metri, con le mani che si erano congelate di notte, è scivolato e si è fermato su questa cengia (e me la indica sempre sul poster), a fianco dell’uscita del Ragno. Ho cercato di recuperarlo, ma non riuscivo perché il ghiacciaio ha una pendenza di 50-60° e poi c’è il vuoto. Allora mi ha detto di calarlo qualche metro sotto, su una cengia lunga tre o quattro metri e larga un metro, gli ho lasciato un po’ di corda per assicurarsi e muoversi, il mio sacco da bivacco e tutti i viveri che avevo e sono partito con i due tedeschi.

Abbiamo fatto un traversata di 40-50 metri e poi siamo saliti e mi sono fatto male. Il Ragno non l’abbiamo fatto di proposito, per le scariche, non perché ci siamo sbagliati (come dice Harrer). Quando mi sono fatto male, colpito alla testa da una scarica di sassi, ho mollato le mani, perché ero in libera e ho fatto un bel volo, fino a un quindici metri sotto ai tedeschi, a testa in giù. Mi hanno recuperato, medicato la testa, mi hanno lasciato la loro tendina e hanno proseguito. Quando abbiamo lasciato il Longhi pensavamo di uscire in due ore, due ore e mezza, perché eravamo ancora in forze».

Spettatori del salvataggio alla Kleine Scheidegg.

Stava meglio a quel punto Nothdurft, che era stato male nei giorni precedenti?
«Non è mica “ch’el morìa”. Lui era indisposto, aveva bevuto dell’acqua fredda, non aveva digerito bene, aveva dei crampi. Gli avevo anche fatto una puntura di coramina, per vedere se gli passavano i disturbi continui, “Miga che’l morìa”! La cordata unica l’abbiamo fatta qui. E i tedeschi io li ho incontrati sotto, al Diedro difficile, che io ero già al secondo bivacco e non al primo. Il primo bivacco l’ho fatto su questa via qua (continua a indicarmi i punti), fuori dall’itinerario giusto, poi abbiamo capito, perché avevamo una relazione tedesca, tradotta anche in italiano, abbiamo deciso di tornare indietro, tutto con corde doppie e siamo arrivati di fianco alla piramide. Qui abbiamo deciso di andare avanti, perché stavamo bene, non eravamo stanchi. Abbiamo fatto il bivacco su un cengione sotto il Diedro difficile e al mattino dopo, abbiamo sentito parlare e abbiamo visto delle persone che salivano e abbiamo aspettato per vedere chi erano. Ci siamo presentati: il Longhi parlava un po’ il tedesco perché era stato a lavorare in Svizzera in un cantone tedesco e abbiamo deciso che loro facevano il loro Eiger e noi facevamo il nostro. Abbiamo fatto il Diedro difficile, circa cinquanta metri, noi davanti e loro dietro, ma indipendenti. Dopo la Traversata Hinterstoisser, siamo arrivati al Nido di rondine, sempre noi due italiani davanti e loro due tedeschi di dietro. Di qui a andare al Ferro da stiro e al Bivacco della morte, non so perché gli hanno dato quel nome, non sapevo nemmeno ci fosse un Bivacco della morte, eravamo indipendenti ancora. Qui posso dire la cosa giusta, non come hanno riportato libri e articoli che non abbiamo lasciato passare i due tedeschi davanti. Questo ghiacciaio (indica il secondo nevaio) è circa duecento metri di altezza e quattrocentocinquanta metri di larghezza. Non ci sorpassavano perché non volevano loro, non era mica una fessura obbligata. Non come diceva Tonella, che ha demolito una persona per vendere l’articolo. Di queste cose non ho mai parlato prima, perché ero disgustato da come si erano comportati con me. Avevo fatto querela e l’ho fermata io, non loro, perché ho perdonato tutti. Se i tedeschi erano così forti, come dice Harrer, come hanno fatto a non sorpassarci su un nevaio alto duecento metri e largo quattrocento?».

La rassegna dei migliori materiali per la Nord dell’Eiger negli anni ’50.

Non è che fosse troppo ripido?
«Potevano stare sopra dieci metri e andarsene, se erano così veloci. In questo punto Nothdurft cominciava ad accusare dei disturbi. Al mattino del bivacco al Nido di Rondine Stefano vede che non mangiano e gli chiede perché e loro rispondono che gli è caduto il sacchetto dei viveri, non lo zaino, né i ramponi, questo non l’ho mai detto, e noi gli abbiamo dato da mangiare. Alla sera abbiamo bivaccato tutti insieme sopra al Ferro da stiro, nel posto che loro chiamano Bivacco della morte, poi il mattino dopo siamo scesi con una doppia alla Rampa. L’abbiamo risalita fino a metà. Prima della Traversata degli Dei abbiamo bivaccato, bloccati da una cascata d’acqua. Poi, dopo il mio incidente, Harrer dice che non mi sono più interessato dei tedeschi. Ma non è vero, avevo la testa fasciata per fermare l’emorragia e sono stato lì fermo. A un certo punto ho anche pensato che i tedeschi fossero scappati in Germania e mi avessero lasciato lì. Un’altra cosa che non ho mai capito è come alcuni soccorritori abbiano fatto a sentire la voce di Stefano, a circa quattrocento metri di distanza, dalla normale. Io che ero sopra di lui a piombo, “l’ho ciamà, ma el rispundeva minga”».

Corti continua riferendo che i danni che gli sono derivati dall’Eiger se li è dovuti pagare da solo. Gli svizzeri gli avevano mandato un conto di un milione e duecentomila lire tra soccorso e ospedale e allora l’operaio guadagnava ventimila lire al mese. Quel che era riuscito a recuperare, trecentomila lire, gliel’aveva mandato e non poteva certo andare a rubare per pagare il debito. In una lettera gli avevano infine risposto che il debito era saldato.

Adesso si cura molto di più la preparazione fisica, l’allenamento. Lei pensa che voi foste sufficientemente preparati, fisicamente, per quella parete?
«L’allenamento si fa sulla roccia e andando a camminare, non con le vitamine. Ho fatto delle vie più impegnative di quella lì, per esempio nel ’52 ho aperto una via sulla Est del Badile, strapiombante».

Però era la metà come lunghezza.
«Settecento metri, roccia viva però, mica da camminare. Il mio compagno e io ne avevamo di resistenza: siamo partiti da Bagni di Val Masino, a piedi, perché non avevo il passaporto, siamo andati al rifugio Gianetti, abbiamo fatto il ghiacciaio di Bondo in discesa e siamo andati all’attacco. Abbiamo impiegato un giorno e mezzo. Molti hanno detto che Longhi era anziano, però Longhi non ha mai ceduto: è stato sfinito dalla fame e dal freddo la domenica notte. Era allenato. Io non ho mai fatto l’impiegato, facevo il camionista e tutto il giorno a lavorare ci si faceva il fisico».

Numerosi bivacchi in parete, bevendo poco possono sfinire anche i più forti.
«Io ne ho fatti tanti bivacchi e da bere c’era tanta di quella neve. I viveri li ho dati tutti a Stefano e gli ultimi giorni non ho più mangiato».

Claudio Corti risale la Nord sulle spalle di Hellepart.

È vero che ha perso quattordici chili? Così tanti chili sono costituiti soprattutto da acqua. Forse non avevate bevuto a sufficienza?
«Ero lì con la testa rotta e per un giorno e mezzo solo, senza mangiare e avevo già fatto sei bivacchi».

Proprio questo volevo sottolineare: c’è stato un deterioramento progressivo, non mangiavate e non bevevate a sufficienza.

«Avevamo il mangiare per due e abbiamo mangiato per quattro giorni in quattro. Non so perché i tedeschi non siano tornati indietro, perché Nothdurft l’aveva fatto poco tempo prima, da solo, dal Nido di rondine. Comunque solo quando sono andato lì all’Eiger ho capito che non merita farlo. Ho fatto un sacco di vie nuove, delle grandi ripetizioni di vie durissime, ma non ho mai più voluto andare all’Eiger».

Allora non è vero, come è stato scritto, che lei volesse tornare su quella parete.
«Sono tornato alcune volte a vedere la zona, che è bellissima. Sono andato poi al Cerro Torre con la spedizione del ’74, molto più impegnativa. L’Eiger è “na marcida “. Prima dell’Eiger ho fatto la prima ripetizione della via Stenico al Campanile Basso, dopo ho fatto la Comici alla Grande di Lavaredo, la Cassin alla Ovest, lo Spigolo degli Scoiattoli alla Ovest, una delle vie più dure di sesto grado, alla Roda di Vael la via Maestri, la via Maestri sul Castelletto del Tuckett».

Tutte dopo?
«Io son sempre andato a arrampicare, non ho smesso, ma non ho mai più pensato di andare all’Eiger, non merita».

Anche il libro di Olsen termina riportando la sua volontà di tornare sulla Nord dell’Eiger.
«Mai, non mi ha mai più interessato, perché non merita. Forse l’ho detto quando ero stato appena recuperato, forse quando mi hanno interrogato che ero via con la mente. Sa, sono tornato a lavorare dopo sei mesi».

La signora Fulvia interviene per precisare che il Claudio non è mai andato in montagna per prendere soldi, è andato perché aveva la passione, invece a Lecco c’era chi voleva guadagnare di più, chi voleva avere il cliente…

E i suoi rapporti con gli altri Ragni?
«Io andavo in Grigna ad arrampicare, al Nibbio e poi andavo ad allenarmi, senza farmi vedere dagli altri. Tutti i Ragni allora andavano ognuno per conto proprio ad arrampicare per non farsi vedere l’uno con l’altro. Riguardo agli altri Ragni, domani se viene su ai Resinelli ce ne saranno una cinquantina a mangiare a casa mia. I rapporti sono buoni».

A quanti anni ha smesso di arrampicare?
«Ho smesso nell’81, quando mi hanno operato di doppio by-pass aorto-femorale. Perché io fumavo tanto. Dopo sono ancora andato a sciare.

Due anni fa è venuto qui il cliente che era con Terray, Tom de Booy. Hanno fatto un filmino per la televisione olandese e sono venuti a intervistarmi. De Booy mi ha fatto vedere come era innevato allora rispetto ad adesso. Erano altre condizioni».

L’Eigerwand con i materiali, la tecnica dell’epoca e le condizioni oggettive doveva essere un osso ben duro per tutti, e si capisce anche la voglia di competizione di quegli anni tra alpinisti di nazioni diverse e all’interno di associazioni di alpinisti: la preparazione avveniva di nascosto per non farsi soffiare la via. Anche se Corti era stato il facile bersaglio di ingiuste accuse, tuttavia va riconosciuto che bisognava affrontare la montagna non solo con la forza bruta, ma anche con astuzia e modestia e piena consapevolezza dei propri limiti.

Salutando Claudio Corti non posso far altro che condividere il giudizio che ne aveva già dato Jack Olsen, quarant’anni prima: «Avevamo trovato un uomo semplice e ingenuo, che aveva fatto della montagna il suo mondo, la sua unica realtà, il luogo dove si liberava delle delusioni e delle umiliazioni che tormentano la vita del povero».

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Arrampicarsi all’inferno ultima modifica: 2021-12-04T05:25:00+01:00 da GognaBlog

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4 pensieri su “Arrampicarsi all’inferno”

  1. Il Corti era un uomo semplice , genuino e ruvido.  Di quelli di una volta. 
    Era comunque un esperto di roccia più che di misto. Forse si sarà fatto fregare leggendo i gradi della nord dell Eiger. 
    Ancora oggi alcuni pensano che la nord del Cervino sia semplice perché con passaggi di IV

  2.  Tragedia, competizione , menzogna, ipocrisia, gelosia s’ incontrano spesso nell’ambito alpinistico, quando vivere la montagna dovrebbe essere gioia ( sofferta) e condivisione  Questa incredibile impresa di cui si conosceva ben poco fino ad ora ( dopo l’umile e sincera dichiarazione del Grande lecchese) si discosta notevolmente da quello che ho  appena espresso.Il racconto è molto esplicito!!!! Ho soltanto voluto enfatizzare quello che di solito succede .Saluti.

  3. Belli chiari e giustizialisti questi brani che toccano le avventure e spesso disgrazie di un passato alpinistico ricco di “”passaggi””molto umani e che è giusto non far sbiadire. 

  4.  1975: Libro  di Olsen acquistato per 500 lire su bancarella ad Orvieto…poco dopo il film di Eastwood , sempre  in stessa localita’ , invasa da reclute al car o gruppo sportivo Ei,  varie  caserme.

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