Arrampicata e rapaci – 1

Nel 1982 sulla Rivista della Montagna si ebbe un confronto tra naturalisti e arrampicatori che ancora oggi merita di essere riproposto anche perché non sono certo molti gli esempi di una più recente discussione. Il problema era importante, lo è rimasto e continua la necessità di un approfondimento. Senza dimenticare che le ragioni di chi (uomo o animale) vive in montagna o sulle scogliere contano di più, qualunque siano, di chi usa la montagna per divertirsi. E senza chiedersi se il mondo ha bisogno dell’aquila: fa parte di questa terra ed ha comunque diritto di vivere. Poi sarà necessaria una riflessione sul tipo di alpinista descritto da Bernard Amy: siamo davvero tutti così? È proprio impossibile un trekking o un’arrampicata «rispettosi» a livello di massa?

A dare il la sono stati due articoli. Il primo, En sursis: les grands rapaces de montagne, apparve sulla rivista francese La Montagne et Alpinisme (n. 4-1981); il secondo, sulla Rivista della Montagna, n. 48-1982 (allora il più quotato e attendibile periodico italiano sull’argomento), era un servizio sulla Sardegna e sulle sue possibilità escursionistiche e d’arrampicata. I firmatari di La rupe, la terra, il ginepro e altre storie erano Gianni Battimelli (Sardegna terra di scoperta), Fabrizio Antonioli (Una risposta a Battimelli), Andrea Gobetti (Mi pento), Carlo e Gianni Valente (Trekking da Oliena al Golfo di Orosei) e Alessandro Gogna (Tra gabbiani e aquile e Tre arrampicate).

In questa prima puntata pubblichiamo entrambi gli articoli, mentre nella seconda pubblicheremo la discussione vera e propria.

Falco pellegrino adulto. Foto: D. Choussy.

In sospeso: i grandi rapaci di montagna
di Jacques Trotignon (nel 1981 Direttore del FIR)
(pubblicato su La Montagne et Alpinisme, n. 4-1981)

Se per molti amanti dello spazio e dell’esplorazione la montagna è diventata un dominio privilegiato di conquista, i grandi massicci costituiscono oggi anche un rifugio di primo valore per un’intera specie di natura da tempo bandita dalle regioni più frequentate dei nostri Paesi occidentali. Alcuni uccelli, soprattutto i grandi rapaci, sono una chiara testimonianza del diffuso ritiro della flora e della fauna da molte aree di bassa quota e del loro progressivo ripiegamento verso le zone meno accessibili dell’area conquistata dall’uomo. La difesa dei rapaci nelle Alpi, nei Pirenei, nel Massiccio Centrale, nel Giura, nei Vosgi e in molte altre catene montuose minori ha quindi acquisito un valore simbolico agli occhi dei naturalisti, e in particolare degli ornitologi che si preoccupano di garantire la sopravvivenza di questi straordinari rappresentanti del nostro patrimonio naturale.

Questo ultimo sforzo è una delle ragioni d’essere della FIR (Fonds d’intervention pour les Rapaces), creata per salvare i rapaci e, in particolare, per coordinare la sorveglianza dei siti di nidificazione degli avvoltoi, delle aquile e dei falchi più minacciati del nostro Paese ogni primavera.

Grifone che nidifica con il suo pulcino. Disegno di Alain Jean.

Proteggere i siti di nidificazione
Un compito ingrato e faticoso, se mai ce n’è stato uno, che consiste nel garantire, giorno e notte e per un periodo che va dai tre ai cinque mesi, che nessun disturbo contrasti la riproduzione degli uccelli, compromettendo così la sopravvivenza dei rapaci protetti. Posizionati a distanza di sicurezza dai nidi, i volontari riuniti per l’occasione hanno il compito di informare gli escursionisti, o qualsiasi altra persona che frequenti le aree abitate dagli uccelli, delle conseguenze dannose della loro presenza in prossimità dei siti di nidificazione.

Semplici binocoli e cannocchiali sono sufficienti per individuare eventuali intrusi nella maggior parte dei casi, ma in alcune zone collinari è necessario utilizzare sistemi di allarme posizionati in modo tale che qualsiasi visitatore venga immediatamente segnalato al guardiano del sito, prima che venga commesso l’irreparabile. L’uso di questo tipo di apparecchiature può rivelarsi essenziale anche quando si ha a che fare con intrusi molto più pericolosi per gli uccelli rispetto ai normali escursionisti, come i trafficanti di rapaci che agiscono per conto dei falconieri o degli addetti agli zoo. Poiché questi razziatori senza scrupoli sono ormai disposti a correre qualsiasi rischio pur di mettere le mani sui pulcini che vendono a caro prezzo, è importante prendere ogni precauzione per evitare il furto degli ambiti pulcini, di giorno o di notte.

Falco pellegrino adulto. Disegno di Alain Jean.

Il lavoro dei supervisori della FIR è quindi soggetto a molti ostacoli e, nonostante gli sforzi delle diverse centinaia di persone mobilitate ogni anno, molte nidiate di rapaci falliscono ancora nel bel mezzo della riproduzione, per ragioni non semplicemente naturali. La pratica dell’alpinismo è una di queste in alcune regioni, poiché un numero significativo di siti di riproduzione è stato abbandonato o è ancora minacciato da questo sport in rapido sviluppo. È per questo che oggi scrivo queste righe, per fare appello alla buona volontà e alla comprensione degli abitanti delle montagne affinché aiutino noi ornitologi a salvare questi rapaci, che senza dubbio molti di loro hanno già avuto modo di ammirare durante una corsa in quota. Dopotutto, non condividiamo tutti lo stesso obiettivo, che è quello di proteggere le montagne selvagge e solitarie, così ricche di vita e alle quali siamo tutti così legati?

Specie particolarmente minacciate
Quali sono questi rapaci minacciati e perché sono così vulnerabili?

Sei specie sono attualmente particolarmente interessate dall’alpinismo e dall’arrampicata, sia in alta quota che in aree meno accidentate, come valli con gole o promontori scoscesi che fungono da rifugi simili per gli uccelli. Ci riferiamo solo all’alpinismo perché è una pratica che attualmente presenta alcuni dei maggiori pericoli per i rapaci, anche se, come vedremo, i rimedi da applicare non dovrebbero compromettere il futuro di questo sport. È chiaro, tuttavia, che anche altre attività minacciano i rapaci, sia che si tratti di distruzioni illegali (strade, stazioni, cave, disboscamento, linee elettriche ad alta tensione), sia che si tratti della crescente scarsità di prede di cui gli uccelli si nutrono, sia che si tratti della crescente “antropizzazione” di alcune aree montane.

Questi uccelli sono: il gipeto, il grifone, il capovaccaio, l’aquila reale, l’aquila del Bonelli e il falco pellegrino.

Questi sei rapaci hanno status e distribuzioni molto diverse in Francia, anche se la loro rarità, rispetto ad altri rapaci, è un’innegabile caratteristica comune. Il più minacciato è senza dubbio lo straordinario gipeto, un curioso uccello di proporzioni preistoriche con solo circa venticinque coppie in Francia, localizzate nei Pirenei (circa quindici coppie) e in Corsica (circa dieci coppie). Seguono l’aquila del Bonelli e il capovaccaio, rappresentati rispettivamente da circa cinquanta e sessanta coppie nel nostro Paese. Questi due uccelli sono tipicamente mediterranei, anche se il capovaccaio ha quasi la metà dei suoi siti di nidificazione nei Pirenei occidentali e centrali, mentre l’altra metà è limitata alla Provenza.

Sfilata di grifoni. Foto: J. F. e M. Terrasse.

Il grifone, con un centinaio di coppie nidificanti concentrate nei Pirenei occidentali (Paesi Baschi, Béarn), è leggermente più abbondante delle altre specie, ma la sua regione d’elezione è solo un ultimo baluardo, poiché l’uccello è scomparso dai Grands Causses e dalla Provenza nella prima metà di questo secolo.

L’aquila reale e il falco pellegrino da soli contano più di cento coppie, con un numero compreso tra centocinquanta e duecento coppie ciascuno. La loro distribuzione è anche più ampia di quella dei rapaci appena citati, poiché abitano le Alpi, il Massiccio Centrale, i Pirenei e la Corsica, mentre il falco estende il suo areale persino al Giura, ai Vosgi e a diversi massicci rocciosi in regioni diverse come il Lot, la costa mediterranea e la Borgogna (dove è rimasta una sola coppia). Quest’ultimo, tuttavia, è il rapace che ha subito il declino più grave negli ultimi decenni: è scomparso dalle scogliere della Normandia, così come dalla valle della Senna e da molte altre valli della Francia settentrionale e centrale dove un tempo era ben rappresentato. Non è quindi un caso che questo superbo uccello, venerato dai falconieri da sempre, sia stato scelto come emblema della FIR. Più di ogni altro, simboleggia il recente crollo delle popolazioni di rapaci del nostro Paese e la campagna di salvataggio che deve essere intrapresa.

In definitiva, tutte le regioni montuose della Francia hanno rappresentanti di specie di rapaci in via di estinzione, e questa distribuzione si estende localmente anche a semplici valli e massicci, dove alcune falesie ospitano ancora una coppia di falchi o aquile.

Capovaccaio. Disegno di Alain Jean.

Un’altra particolarità dei rapaci è la grande fedeltà che dimostrano nei confronti del loro sito di nidificazione da un anno all’altro. La toponomastica evoca perfettamente questa caratteristica quando si riferisce, ad esempio, alla “roche aux Aigles” o al “pic des Vautours” come luoghi occupati dai rapaci.

Questa fedeltà riflette essenzialmente le esigenze che i rapaci hanno nei confronti di alcuni fattori ecologici specifici: la tranquillità del sito, il sole, la presenza di correnti termiche ascensionali, una vista libera, la protezione dalle intemperie e dai predatori terrestri, l’esistenza di un sito di nidificazione favorevole e così via. La considerazione di questi diversi fattori determina, in ultima analisi, la scelta da parte degli uccelli di uno o più siti di nidificazione in cui verrà costruita l’area di nidificazione, che sarà quindi occupata regolarmente nel corso degli anni, oppure solo ogni secondo o terzo anno, quando la specie costruisce diversi nidi che vengono occupati a turno. Poiché le aree di nidificazione vengono rifornite ogni primavera con nuovi rami o altri materiali, è facile capire perché alcune di esse raggiungano proporzioni gigantesche, che riflettono la loro età: fino a due metri di altezza e larghezza per il nido dell’aquila reale e fino a tre metri di diametro per quello del gipeto, un enorme cumulo di lana di pecora mista a peli, pelle, corna, ossa e zoccoli.

La fedeltà dei grifoni a determinate pareti rocciose è testimoniata dall’abbondanza di escrementi bianchi che macchiano le rocce sotto le cenge dove si trovano i loro nidi e luoghi di riposo. A differenza del gipeto, dell’aquila, del falco pellegrino e del capovaccaio, questi rapaci sono gregari, il che rende ancora più difficile la scelta di un luogo favorevole per la loro comunità.

Il falco pellegrino, invece, ha un temperamento straordinariamente amante della casa, con alcune aree conosciute fin dal XVII secolo! Ne sono prova gli scritti dei falconieri dell’epoca, che citano anche la protezione signorile di cui godevano questi siti di nidificazione, dai quali ogni anno venivano prelevati alcuni giovani uccelli per la caccia al volo. Lo scopo di questa protezione non era quindi lo stesso di quella esercitata oggi dalla FIR!

Aquila reale immatura. Disegno di Alain Jean.

Misure di protezione
L’obiettivo di queste misure, volte a eliminare qualsiasi causa di disturbo durante i mesi riproduttivi, può apparire frustrante per gli abituali fruitori della montagna, in quanto interferiscono con usi e costumi esistenti. Tuttavia, a parte il fatto che interessano solo un numero molto limitato di località, data la rarità dei grandi rapaci, non c’è il rischio che compromettano l’alpinismo, che non sembra mancare nelle località favorevoli della Francia. In alcune regioni dove le falesie pulite sono rare, in particolare in Borgogna, il più piccolo scalatore in primavera può essere responsabile dell’abbandono di un nido di falco pellegrino. In queste regioni, sarebbe opportuno instaurare un dialogo tra ornitologi e club alpinistici per definire le aree sensibili da proteggere integralmente. In questo modo, sembrerebbe possibile e auspicabile che i naturalisti da un lato e gli appassionati di arrampicata ed escursionismo dall’altro collaborino per congelare o delocalizzare lo sviluppo di certe pratiche in montagna.

Anche altri fatti militano a favore dell’adozione delle misure di protezione sostenibile appena citate. Si tratta di: 1) la sedentarietà di questi grandi rapaci durante tutto l’anno nei loro territori di nidificazione; 2) la durata della riproduzione stessa.

Stile di vita e alimentazione sedentari
La sedentarietà degli uccelli è dovuta al clima relativamente mite delle nostre montagne, rispetto alle condizioni molto più rigide delle latitudini settentrionali, che costringono i rapaci a migrare stagionalmente. Sulle Alpi o sui Pirenei, e persino nella macchia mediterranea abitata dall’aquila di Bonelli, le prede sono sempre disponibili in inverno, mentre alcuni uccelli da carogna riescono a evitare la morte per fame. In questo periodo dell’anno, il grifone, rigoroso spazzino, si può trovare intorno ai resti di una pecora o di una volpe, in compagnia dell’aquila reale e del gipeto, che si godranno esclusivamente le parti ossee e cartilaginee del cadavere esposte dai banchetti degli ospiti precedenti.

Una delle altre attività della FIR è quella di mantenere, ogni inverno, le fosse comuni per rapaci alimentate con i cadaveri degli allevamenti vicini, dove la fauna selvatica (ungulati) o la pastorizia tradizionale non sono più in grado di fornire spontaneamente le risorse necessarie all’alimentazione invernale di avvoltoi o aquile.

Solo una specie, il capovaccaio, è migratrice in questa zona. Per quanto riguarda l’aquila del Bonelli e il falco pellegrino, essi dispongono di un numero apprezzabile di prede: conigli, scoiattoli o uccelli che rimangono accessibili in inverno nel loro areale, il primo cacciando con pari efficienza i tipi di prede animali citati, il secondo essendo un predatore specializzato di uccelli (corvidi, piccioni, merli, ecc.).

Grifone. Foto: B. Clos.

La disponibilità permanente di prede vive o morte consente ai grandi rapaci di rimanere fedeli ai loro territori di riproduzione per tutto il ciclo annuale. Ciclo annuale che, come abbiamo detto, è in gran parte occupato dalla riproduzione stessa, che dura due mesi e mezzo nel caso del falco pellegrino, ma sei mesi nel caso del gipeto e del grifone! Questi ultimi due rapaci depongono le uova a partire dall’inizio di febbraio (o addirittura dalla fine di gennaio), cioè in pieno inverno montano, le covano per quasi due mesi e allevano i loro piccoli, che crescono molto lentamente, per quasi quattro mesi! È quindi durante la maggior parte dell’estate che questi uccelli hanno bisogno di assoluta tranquillità, con i pulcini che non si alzano in volo prima di fine luglio o inizio agosto. La situazione è la stessa per l’aquila reale e il capovaccaio, con la differenza che questi due rapaci, la cui riproduzione è più compressa (quattro mesi invece di sei), non depongono le uova prima di fine marzo o inizio aprile.

Due giovani aquile del Bonelli quasi pronte al volo. Foto: J. F. e M. Terrasse.

Un ultimo fattore che illustra la vulnerabilità dei grandi rapaci è la loro bassa fecondità. Mentre il falco pellegrino depone tre o quattro uova sul crinale dove ha scavato il suo nido rudimentale, l’aquila reale, l’aquila del Bonelli, il gipeto e il capovaccaio depongono solo due uova e il grifone solo una. E molto spesso, al termine del periodo di allevamento, si verifica la schiusa di un solo pulcino, sia perché l’aggressività dei giovani uccelli ha portato all’uccisione dei più deboli (caso sistematico per il gipeto, irregolare per le aquile), oppure l’assenza di risorse alimentari sufficienti ha portato alla morte per inedia del pulcino più debole, cioè quello meno in grado di prendere le prede portate dagli adulti (*) Inoltre, gli adulti non depongono necessariamente uova ogni anno e i giovani raggiungono la maturità sessuale solo molto tardi; quattro anni nel caso dell’aquila reale e ancora più a lungo, sembra, nel caso del gipeto e del grifone.

(*) I rapaci depongono le uova a distanza di diversi giorni l’una dall’altra, ma si schiudono non appena compare il primo uovo. Ciò comporta una differenza di età tra i pulcini, che inizialmente pone il più giovane in una posizione di svantaggio, soprattutto se si tratta di un maschio più piccolo della femmina.

Primavera, foriera di vita o di morte per i pulcini?
È facile capire come i naturalisti possano rabbrividire quando il bel tempo annuncia il ritorno del turismo in montagna! Disturbati, gli uccelli adulti abbandonano le uova o i pulcini alle vicissitudini del maltempo, sempre pronto a colpire l’altitudine, l’eccessivo sole estivo, i predatori (martore) o la fame. Lunghi mesi di cure e attenzioni possono essere spazzati via in pochi minuti dalla curiosità o dall’inavvertenza.

Aquila reale adulta e il suo nidiaceo. Foto: J. F. e M. Terrasse.

E con la morte delle uova o dei pulcini scompare la speranza di vedere un giorno il giovane aquilotto mescolare le sue orbite con quelle degli adulti sopra le garighe o gli alpeggi, così come la possibilità di vedere, tra un anno, la falesia da tempo abbandonata ricolonizzata gradualmente da avvoltoi o falchi… Senza dubbio ci vogliono settimane per osservare la lenta crescita dei giovani rapaci mentre si ritirano nel loro rifugio finale per apprezzare appieno il valore del primo volo, del primo tuffo, della prima caccia che finalmente corona anni di sforzi pazienti, di delicate trattative e di attento monitoraggio. Ma lo splendore di un carrpu-sel di grandi avvoltoi, lo straordinario tuffo del falco pellegrino o la caccia alla marmotta dell’aquila reale non valgono forse il rispetto degli ultimi siti dei grandi rapaci? Pochi veri amanti della montagna possono rimanere indifferenti alla vista di questi spettacoli, che simboleggiano, proprio come l’orso nei Pirenei e lo stambecco nelle Alpi, la vita selvaggia e la grandezza degli alpeggi, delle valli e delle cime.

Adulto di aquila del Bonelli. Disegno di Alain Jean.

Se questo articolo ha attirato la vostra attenzione e volete partecipare alla difesa degli ultimi grandi rapaci, potete iscrivervi al FIR, che pubblica una newsletter che vi terrà aggiornati sui risultati delle azioni intraprese, mentre le attività sul campo vi daranno l’opportunità di partecipare direttamente alla salvaguardia di questi uccelli in pericolo.
Per ulteriori informazioni: Fonds d’Intervention pour les Rapaces, B.P. 27. 92350 La Garenne-Colombes.

La rupe, la terra, il ginepro e altre storie
di autori vari
(pubblicato su Rivista della Montagna n. 48, gennaio-febbraio 1982. Somo qui omessi l’articolo di Carlo e Gianni Valente, Trekking da Oliena al Golfo di Orosei, e quello di Alessandro Gogna, Tre arrampicate)

«Negli ultimi due anni l’interesse si è concentrato sulle splendide pareti della Barbagia, il cuore dell’isola, dove sono emerse possibilità superiori a ogni aspettativa. L’esplorazione alpinistica, a parte le non trascurabili iniziative locali, si è mossa dai due lontani centri di Roma e Torino, dove la voce è corsa presto e le meraviglie sarde hanno richiamato gli arrampicatori più attivi. Ai romani e ai torinesi si sono aggiunti Maurizio Zanolla (Manolo) e Alessandro Gogna, che ha già raccolto materiale sufficiente per una pubblicazione dettagliata sulla zona… (omissis). Per il resto, presentiamo uno scritto centrale di Gianni Battimelli che, inquadrando le caratteristiche alpinistiche della Sardegna, Barbagia in particolare, nega con decisione ogni descrizione di itinerari già percorsi, in nome della libertà di ricerca e di inventiva per coloro che vengono dopo: se di un terreno è appena iniziata l’esplorazione, perché imbrigliarlo subito nei rigidi e ripetitivi schemi di una guida? La replica di Fabrizio Antonioli, sotto riportata, si appella ai principi opposti e inquadra con chiarezza i due poli antitetici della delicata questione. Completano questa introduzione-dibattito sui segreti alpinistici dell’isola, i due brevi interventi di Andrea Gobetti e dello stesso Gogna, impressioni molto differenti su esperienze personali tra i bianchissimi appicchi della Barbagia (Redazione della Rivista della Montagna)».

Sardegna, terra di scoperta
di Gianni Battimelli

«È ormai pienamente avviata l’esplorazione dell’isola dal punto di vista alpinistico: si attendono tutte le nuove informazioni per poter aggiornare la situazione (Informazioni alpinistiche, RdM n. 42)».

«Colpisce, nell’arrampicatore, la contraddizione che esiste tra l’ardore del desiderio di contatto con l’elemento naturale e quello con cui si affretta a «culturizzare» questa natura, classificandola, attrezzandola, definendola come percorso, fissandola come tracciato… Si tocca qui la duplice molla dell’alpinista: vincere la natura e offrirla all’uso degli altri, Icaro e Prometeo; conquistare l’inutile e renderlo utilizzabile… Come spiegare questa fondamentale ambiguità dell’alpinista, quella che consiste nell’essere al tempo stesso uomo d’ordine e avventuriero? (Bernard Francou, Passage n. 4)».

Piove. Il ponte è tutto bagnato. Quel poco che riesco a vedere tirando la testa fuori dal sacco a pelo sono nuvole scure e gonfie d’acqua. Pure, più forte dell’odore della salsedine e della puzza familiare, tipica di tutte le navi, c’è questo inconfondibile profumo che viene dalla terra bagnata, che sa di ginepro, rosmarino e granito, e non ho bisogno di guardare meglio per sapere che sono ancora una volta a Golfo Aranci.

Il caffè, nel bar affollato di gente che cerca di riscuotersi da un sonno poco convinto, ha il solito sapore di plastica, ma fa parte del rituale. Ecco, quello là sotto è l’autobus che mi porterà a Dorgali. Lontano, confuse tra le nuvole nella luce incerta dell’alba, si vedono le pareti di granito della Gallura. Perché non sono mai venuto ad arrampicare in Sardegna?

La Poltrona, Cala Gonone

Le pareti di calcare grigio sono sempre state lì, scoperte e invitanti fin dal primo momento. Ma tra l’urgenza della voglia di toccare la roccia e la spinta a scoprire e capire altri aspetti di questa terra ha sempre prevalso, per lungo tempo, l’idea che le pareti sarebbero sempre rimaste lì, ugualmente intoccate e invitanti, che non ci sarebbe stata competizione, che prolungare il momento di distacco tra desiderio e azione avrebbe permesso di penetrare più a fondo, di capire meglio e, un giorno, di arrampicare con più serenità. Così per molti anni la Sardegna è stata per me altre cose, lunghe giornate vagando per gli altopiani tra Dorgali e Baunei, le grotte e i bivacchi, il gioco delle luci e delle ombre sulla pianura di San Pietro, l’inquietante abisso del Golgo, la scoperta delle sorgenti nelle còdule che portano al mare. E amici, fuochi di ginepro intorno al grande carrubo vicino al pozzo di Cala Sisine, il vino e le risa e l’allegria, e la moto di Giorgio sull’Orientale sarda con le ventate d’aria calda che portano i profumi della primavera. Ogni volta era la scoperta di qualcosa di nuovo, e un rapporto che diventava più ricco e complesso a misura che crescevano, insieme, la familiarità e la soggezione. Le pareti, le conoscevo ormai bene, avevo tracciato le mie vie, pensato i miei movimenti; ma c’era altro da fare. Potevano attendere.

Massimo e Olimpia sono a Dorgali alla fermata dell’autobus. Con la vecchia 500 raggiungiamo il campeggio a Cala Gonone. Dio mio, l’allegria pasquale! Tutto fradicio, l’acqua nella tenda, le pentole sporche sparpagliate intorno, piene di un liquame indefinibile. Fabrizio e Valeria fanno finta di cucinare qualcosa. «Niente Su Gorropu, stavolta, con tutta l’acqua che ci sarà». Ma è Pasqua, messeri, e noi siamo qui per arrampicare. E così ce ne andiamo (cielo nero, mare livido, roccia bagnata) a vagare, sciolti, sulle placche di Serendippo. Eccola, la montagna facile (montagna?…) di chi viene dalla città per qualche giorno a cercare le difficoltà. Ma chi ci vive, in questa terra difficile anche senza costruirsi problemi artificiali? Su queste distese brulle, queste pietraie taglienti, appena di che mantenere qualche capra e qualche porco. Chissà se con questo tempo Salvatore sarà con le bestie al suo cuile, lassù sull’altopiano di San Pietro.

Salvatore Piras, classe 1938, Baunei. In altra Pasqua di qualche anno fa, eravamo appena arrivati e stavamo preparando il campo — un fuoco che stenta ad accendersi, pulire per terra dagli escrementi delle capre, un fornello che scalda la minestra — e sono apparsi sulla soglia della baracca e hanno cominciato a parlare, con l’urgenza e la difficoltà di comunicare di chi vede abitualmente solo pietre e alberi e bestie, e hanno preparato il fuoco, un vero grande falò intorno al quale abbiamo mangiato e bevuto e parlato, del Golgo e della strada per Cala Sisine, noi e Salvatore e l’altro di cui non abbiamo mai saputo il nome. Il giorno dopo, Pasqua non è Pasqua senza l’agnello, e Salvatore ha sgozzato l’agnello pasquale per noi.

Soffrivamo a vedere l’animale che si contorceva negli attimi prima di morire, e i pastori hanno detto qualcosa in sardo, una parola si è capita, «làstima». Làstima vuol dire lacrima, dolore e, ci spiega Salvatore, è il dolore che noi proviamo per la sofferenza dell’animale che lo mantiene in vita più a lungo. Non bisogna soffrire per chi sta morendo, ci spiega, perché questo prolunga la sua agonia, e io non so dove siano le radici remote di questa idea, ma questa immagine di imperturbabilità di fronte alla morte che non è cinismo, làstima e distacco, è sempre rimasta associata alla combinazione di calma e di durezza che per me è la Sardegna.

Non c’è certo làstima oggi, col sole che scalda la roccia e il calcare bianco intorno, solido e tagliente, la corda e gli amici. Massimo ha fatto un bel tiro, sotto, e ora io cerco apposta le difficoltà lungo questa fessura per vedere se riesco a inventare qualcosa di ancora più bello, esco a sinistra nel sole e me ne sto in spaccata a godermi il caldo e la roccia, tra le gambe vedo il casco rosso di Olimpia, ciao Salciccia è bello arrampicare così.

«Andiamo a fare un’altra via?» Ancora l’indecisione, la voglia di toccare di nuovo la roccia e il desiderio di rilassarsi e aspettare. Ma no, oggi è il momento giusto. «Facciamo lo sperone al centro delle placche della Poltrona».

Al momento giusto, la roccia e i movimenti sulla roccia hanno qualcosa di speciale, conoscete quello stato particolare che capita, talvolta, quando gli appigli sembrano aprirsi sotto le dita, la difficoltà è annullata, e tra ideazione e esecuzione non c’è soluzione di continuità ma semplicemente si sale, e non protestare Massimo se sto andando piano su questo tiro, no, non è difficile, ma capisci questo è un po’ un appuntamento lungamente rinviato e non programmato, e l’incontro è infine avvenuto, per caso questo pomeriggio lungo la linea più bella, sullo sperone al centro delle placche della Poltrona.

Un altro giorno, un’altra parete. Questa volta non ci sono le case del paese, in fondo, e il mare, e segni di presenza umana (una cava, una strada) ma, nell’entroterra, verso il Supramonte, solo le rocce e i ginepri e il vento. Abbiamo scelto una linea, sulla parete lungo la valletta, e siamo a una sosta sullo spigolo, Olimpia sonnecchia sdraiata al sole, io filo la corda per Massimo che è da qualche parte là sopra, destra o sinistra, terzo superiore o quinto meno, che importanza ha.

Così, sono finalmente venuto ad arrampicare in Sardegna. La roccia è come sempre in questi giorni, il più bel calcare che abbia mai visto (quante volte me lo sono già detto? In Calanques, in Verdon…). Mi viene in mente che questa zona ha tutte le potenzialità per diventare un centro di arrampicata come il Verdon. Lo desidero? lo so solo che se c’è una parola che mi viene alla mente ora a caratterizzare il mio rapporto con queste rocce e questa terra e il modo con cui vorrei venisse conosciuta, questa parola è rispetto. È ridicolo parlare di rispetto, e non c’è dietro questo solo il malcelato egoismo di chi vuole mantenere per sé (ma è un’illusione) un’esperienza privilegiata? Dillo allora, è questo, alla fine, che ti fa parlare, dietro la falsa modestia, l’esclusiva del possesso? Forse c’è anche qualcosa di simile. Ma questa terra, dietro la scorza dura delle pietre su cui veniamo a cercare il nostro piacere, ha una sua storia e una sua dignità e una sua gente. Non vorrei vederla diventare un circo. «Molla tutto!» «Sveglia Salciccia, si arrampica».

Di ritorno verso Olbia, una trattoria trovata aperta per miracolo, cerchiamo di buttar giù le relazioni delle vie (chissà che fine ha fatto quel foglietto di carta). Il terzo tiro va a destra in un diedro, quarto superiore… Veramente tutto questo non ha senso. C’è una sola ragione per pubblicare da qualche parte le relazioni tecniche delle salite che abbiamo fatto, ed è la piccola vanagloria di vedere il proprio nome nella cronaca alpina (ah, tu sei quello che ha fatto la via tale), e sarebbe ben ipocrita negare che questa sia una spinta significativa. Ma infine, tutto ciò qui sarebbe semplicemente fuori posto. Per chi vuole scoprire e capire e arrampicare sulle pareti di Sardegna c’è veramente una sola relazione tecnica utile: venite, e guardatevi intorno. Le vie, è facile trovarle, e se terrete gli occhi bene aperti troverete anche qualcos’altro.

Qualcosa abbiamo fatto, tanti progetti restano da realizzare. Forse verrà qualcun altro, a fare le grandi vie di Su Gorropu. Torneremo. Saremo i primi, i secondi, i ventesimi… è veramente importante? La sospensione desiderio/atto, progetto/realizzazione, continua. E insieme l’altra, parlare o tacere, mantenere tutto per sé o comunicare ad altri: perché fermarsi da qualche parte a metà?

Come Bernard Francou, anch’io «evitando di rispondere, preferisco pensare all’eroe (il buono) del western, quest’altro colonizzatore, amante e padrone dei grandi spazi, che ama la libertà, è mosso dalla gratuità, l’innocenza, la purezza e il disinteresse, e che allo stesso tempo è al servizio dei giustizieri, massacra i selvaggi, gioca al fuorilegge mentre prepara il terreno alle leggi, ausiliario fedele dell’esercito e amico degli sceriffi; una volta arrivata la legge, con la ferrovia, egli abbandona il paese delle leggi, parte verso il limite della Frontiera, verso le contrade nuove e senza leggi, raggiunge la sua terra d’elezione dove insegue il suo sogno. Ma arriva un momento in cui, fatalmente, non c’è più frontiera da far arretrare…»

Portu Sciusciau, Sant’Antioco. Foto: Gian Marco Leoni.

Una risposta a Battimelli
di Fabrizio Antonioli

Caro Gianni, questa volta non sono d’accordo con te, nemmeno un po’! Tu apri uno spiraglio, fai sentire l’odore, il sapore di una spezia rara e prelibata; ma poi ti tieni stretti i segreti alpinistici e paesaggistici di una Sardegna, come tu dici, da scoprire.

In effetti hai messo il dito in una piaga molto grossa e sentita negli ambienti alpinistici.

Personalmente sono convinto della necessità di precise informazioni alpinistiche; comunque rispetto la tua netta posizione antiguida, ma ti invito allora a tacere completamente e tenerti per te le tue placche della Poltrona senza affermare: io ci sono stato, è stupendo, «venite e guardatevi intorno, le vie è facile trovarle». Metti un qualsiasi signor Brambilla che, letto il tuo invitante articolo, approfitta del primo ponte di tre o quattro giorni e, con una corda, un’auto e qualche amico si ritrova a Olbia alle cinque del mattino. Via di corsa, alle nove gli strapiombi di Capo Caccia sorridono invitanti al sole, il rosmarino, il vuoto, il mare viola… il guardiano delle scale per le grotte di Nettuno che con aria sorniona non sente scuse e vieta assolutamente agli sprovveduti alpinisti (che non sono arrivati prima di lui per scavalcare il cancello) l’accesso alle pareti. OK, signor Brambilla, per oggi un bel buco nell’acqua; ma niente paura di corsa sulla costa est, a Gorropu a «fare le grandi vie»!

Ahimè, le gole sono piene di acqua, non è questo il periodo, forse con un gommone e un 25 HP si potrebbe tentare.

Povero signor Brambilla, i tre giorni sono passati e domani tocca timbrare il cartellino in ufficio. No, Gianni, mi sembra ridicolo buttare da una parte le esperienze, i consigli e gli errori di chi già è stato e ha visto. Mi sembra più produttivo e divertente, andare in Sardegna e trascorrere la maggior parte del tempo ad arrampicare sulle placche di calcare piuttosto che perdersi nei boschi o in discussione con i guardiani. Non sono più tempi di avventure, il Far West è cosa passata. Prova un po’ tu che sei un rinomato fisico a scordarti dell’esistenza dell’equazione di Schrodinger e per divertimento (!) dimostra la teoria ondulatoria dell’elettrone intorno all’atomo.

Mi pento
di Andrea Gobetti

Mi pento, sono pentito, pentitissimo. Gli chiesi se conosceva qualche grotta, «sas nurras» ecco, e lui sputò nella direzione dove tempo addietro gli era sparita una pecora in un buco. Passati anni, tanti. Tornato. Gli ho chiesto dove potevo trovare altre grotte. Mi ha venduto la Guida Speleo Psichedelica Arrampicatoria del Supramonte. Mi ha venduto tagliandi del self service «Zen e Climb». Gli ho detto che ero IO lo scopritore della parete. Mi ha fatto lo sconto. Ho firmato le pedule «Su Gorropu». A Su Gorropu gli appigli erano lucidati come i piedi di San Pietro a Roma. Ogni tre passi ci ficcavo un chiodo. Ogni quaranta secondi qualcuno gridava che così non avrei mai avuto visione, pace e libertà. I soldi li ho spesi tutti, droga naturalmente. Sono pentito, pentitissimo. Ho fatto la recensione alle guide. Guadagnato milioni. Aperto Camping: «Un posto al Sole», ci faccio il pusher, naturalmente (mica roba vera, linoleum fuso in rosmarino). Fatto i soldi. Vendo bikini e magliette con serigrafia di un cinghiale su sfondo di lentisco. Prendo tangenti sul «Trekking de sos Bandidos». Vestito di orbace (pizzica sotto le ascelle), con coppola in velluto spesso (cascate di sudore) rievoco la natura che vidi a quindici sacchi la mezz’ora. Con l’accento stretto al punto giusto parlo di Fabrizio. Sono vecchio. Tutti, quando vengono al mio night «Su Porcile» hanno una copia del «Frontiere da dimenticare» sotto il braccio. Piaccio alle tedesche squallide e grassocce. Aperta pesca facilitata al Bue Marino, quando mancano le foche monache travestiamo dei vietnamiti. Mi sbronzo di Cannonau «Vecchio Traghetto». Chiamo i rocciatori tutti per nome, l’altro ieri mi han dedicato una via. Sono pentito, pentitissimo.

Pan di Zucchero e Masua

Tra gabbiani e aquile
di Alessandro Gogna

Mi sono domandato spesso cos’è il fascino di una montagna, o di una zona montuosa e selvaggia; mi chiedevo perché una conformazione mi «prendesse» più di un’altra e quali fossero le cause di un maggior interesse o di un più vistoso accredito estetico. Il problema investe certo quello più vasto del perché si va in montagna o del perché si arrampica: ciò nonostante la curiosità al riguardo di questo interrogativo non ha mai avuto completa soddisfazione.

Forse si può intuire qualche spiegazione da ciò che si può leggere su una zona montuosa. Ho notato infatti che alcune monografie nel trattare una regione si attengono strettamente a criteri soltanto geografici e alpinistici, mentre altre pubblicazioni mescolano tutto ciò con l’ambiente, sia naturale sia umano. In genere sono queste le regioni più ricche di fascino: quelle meno ricche di bibliografia e soprattutto quelle povere di bibliografia tecnica, quindi meno conosciute, meno documentate, più misteriose e seducenti. Purtroppo il genere letterario in cui gli elementi più diversi mal si amalgamano spesso annoia e non raggiunge quella fusione cui aspirerebbe, tranne rari casi: vedi a esempio gli innumerevoli capitoli sugli usi e costumi degli sherpa o di altri indigeni, ormai quasi obbligatori prima del racconto tecnico-avventuroso di una qualunque spedizione extraeuropea. Ma questo tipo di letteratura rimane comunque un lodevole tentativo di riunire in un qualcosa di unico due momenti di un’esperienza che generalmente si vivono abbastanza separati, e questo in ossequio all’universale esigenza di considerare un qualunque avvenimento importante dal punto di vista della totalità. Se un francese attraversa il tunnel del Monte Bianco e va a scalare sulla cresta sud dell’Aiguille Noire de Peuterey lo fa di certo per il suo piacere personale, che è probabilmente sport e avventura, ma è assai improbabile che durante l’azione il suo pensiero volga al folclore valdostano o ai fiori rari della Valdigne quali elementi essenziali al godimento spirituale dell’arrampicata stessa. Al contrario, se lo stesso francese si recasse in Corsica, ci sono buone possibilità che diventi quasi un piccolo naturalista. Se si è disposti a vivere poeticamente una brughiera, lo si è meno nei confronti dei giardini pubblici dove si fa lo jogging.

La differenza consiste, credo, nei ben diversi livelli di conoscenza delle due zone. Il Monte Bianco è descritto metro per metro da dozzine di guide tecniche e parecchi libri a carattere illustrativo e naturalistico. Avventura, rischio e impresa sportiva rimangono, ma il fascino decresce. Invece altre regioni sono un mondo più «sconosciuto», anche in assenza d’alte quote, anche fosse soltanto perché non essendo uno sfondo «eroico» non c’era alcuna necessità di vincerlo e assoggettarlo tramite strepitose imprese, morbosi servizi giornalistici, poster plateali o minuziose monografie storico-descrittive. Frequentando la montagna umile ma selvaggia si sente ben viva quella sensazione che comunicano i montanari locali: l’essere loro ancora strettamente legati alla terra, alla vita quotidianamente semplice e dura che noi, assieme ai valligiani delle grandi stazioni turistiche e sciistiche alpine, abbiamo da tempo dimenticato o mai vissuto.

Tra le tante regioni della Terra cui si addice questo discorso c’è anche la Sardegna, un’isola abbastanza grande da essere una regione, abbastanza piccola per racchiudere squarci di natura o di storia naturale e archeologica unici al mondo. Non esiste letteratura alpinistica, non esistono guide alle escursioni. C’è il turismo delle coste, c’è un gruppo di alpinisti locali che ha svolto una buona attività sui principali rilievi; squadre di speleologi hanno scoperto ed esplorato grotte profondissime e difficili, isolate cordate di arrampicatori hanno percorso qua e là qualche itinerario di bella roccia.

Eppure il fascino di quest’isola, così poco nota all’interno come sui litorali più dirupati, è carico di emozione e di intimità con le forze naturali e con la solitudine del vento.

(continua)

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Arrampicata e rapaci – 1 ultima modifica: 2024-10-02T05:51:00+02:00 da GognaBlog

25 pensieri su “Arrampicata e rapaci – 1”

  1.  
    32 Expo, sono d’accordo con te. Anche qui da me è così. Un tempo i fossi erano pieni di pesci e ranocchi, si prendevano con le mani. Adesso non c’è più nulla.
    Nei fossi ci facevi il bagno. Prova ora!!!
    Lo sfruttamento intensivo a suo di chimica fa strage, avvelena tutto , terreno compreso. Biodiversità addio.
    Da noi un tempo era pieno di papaveri, adesso non si vedono più. Pioppete scomparse, alberi da frutta scomparsi. Adesso ci sono le rotonde.
    Quello che posso dire che in campagna dove abito io, un certo miglioramento si vede. Sono tornate le lumache che da tempo erano scomparse. E questo è un buon segno.

  2. Alberto, seal=foca, tipico animale di monte
    Cammini come una foca, arrampichi come una foca, tipiche espressioni di sincero apprezzamento dalle mie parti.
     
    Quanto ai gabbiani la pianura padana ormai ne è piena e sono anche loro opportunisti che hanno imparato a vivere di immondizia e non di pesca.

  3. @ Benassi .Ok .
    Le ragioni del calo dei passeri forse sono altrove , ma ti assicuro che qui l’argomento si tocca con mano..C’è tutto un “mondo antico” legato alla vecchia agricoltura padana , che era inefficiente , foriero di moschini , di insetti , di rane , di spinarelli.Quando seminavano il grano i campi esplodevano di papaveri perchè le sementi non erano pure , ma questo dava biodiversità , e da qualche parte gli animali trovavano la loro nicchia..Adesso l’agricoltura ha rese spaziali , ma quelle nicchie di “inefficienza e diversità”sono scomparse.

  4. @ Bagnasco.Che polemica inutile…Lei che mangia , le mentine ?.Io in campagna ci vivo , come prima ci vivevano i passeri.Adesso non più.

    Expo, giusto per precisare, i passeri, fringuelli, verdoni,  sono granivori, non mangiano gli insetti.
    Poi ci sono gli insettivori: merli, tordi, cince, pettirossi, capinere, ect.

  5. I gabbiani, da diversi anni li trovi all’interno del territorio apuano.
    E’ pur vero che le Apuane sono vicinissime al mare, ma un tempo non era così. Qualcosa sarà cambiato?
    Magari si stanno adattando ai tempi che cambiano.

  6. @ Bagnasco.Che polemica inutile…Lei che mangia , le mentine ?.Io in campagna ci vivo , come prima ci vivevano i passeri.Adesso non più.

  7. Expo, parli per lei. Io non ho tolto il cibo di bocca a nessuno.
    A Torino, per quel che mi riguarda di uccelli ce ne sono fin troppi.
    Ma se lei fosse un passero le piacerebbe di più vivere in una metropoli o in campagna?

  8. Io credo che molti di questi cambiamenti siano una conseguenza dell’agricoltura e dell’allevamento , che da attività “artigianali” si sono rapidamente trasformate in industrie efficientissime e spietate..Secondo me tantissimi volatili , pesci , e tutta la piramide alimentare che stava sopra di loro campava di insetti parassiti dell’agricoltura , a cui la chimica e gli antiparassitari sempre più efficienti hanno tolto quasi completamente il cibo..Adesso quelle colonne di moschini che ad ottobre / novembre si vedevano in campagna e venivano falcidiate dagli storni non si vedono quasi più , e con loro tantissimi insetti che quando ero bambino erano comunissimi..Gli abbiamo tolto il cibo.

  9. A Milano e dintorni da 7/8 anni abbiamo solo cornacchie , tortore/colombacci piccioni , e qualche gazza.Se esci nelle campagne anche qualche rapace e un numero spropositato di volatili un tempo rari : aironi / garzette/ibis sacri..Credo sia l’ennesima conseguenza dell’antropizzazione e del riscaldamento globale : sicuramente queste cazzo di cornacchie hanno avuto da qualcosa un vantaggio competitivo che prima non avevano..Gli uccellini piccoli quasi completamente spariti.

  10. Matteo, ma l’ha detto Lui che tirava di scherma e faceva combattimento corpo a corpo sapendo dove colpire . Ne ho solo preso atto.

  11. “il nostro Neavy Seal…”
    Benassi non sta bene prendere in giro qualcuno per le sue capacità motorie un po’ carenti!
    Eppoi la validità delle tesi non dipende dalla capacità in montagne.
    🙂 🙂 🙂

  12. predati da gazze cornacchie

    Effettivamente queste sono un problema per gli uccelli di piccola taglia, come passerotti, ma anche quelli più grossi come tortore o piccioni. Sono assai aggressive e li predano facendoli fuori.
    Che gli abbia fatto scuola con tecniche di combattimento corpo a corpo il nostro Neavy Seal…???

  13. Un bel pò sono stati fatti allo spiedo infilati nella lama dallo spadaccino  D’Artagnan… de Noartri.

  14. Marcello, che dire, sarà stato un’altra volta e sarà meglio che mi rassegni al fatto che ormai la memoria fa strani scherzi. Cazzo!
     
    “Che fine hanno fatto i passeri a Torino?”
    La stessa fine che hanno fatto a Milano, Ratman, predati da gazze cornacchie che quando ero bambino non c’erano e la cui diffusione è sintomo del degrado ambientale.

  15. L’antropizzazione globale del pianeta, grazie anche a tutti i vari  esploratori, Bonatti, Messner,  e alle loro ideologie avventuriere, ha ridotto la natura a non luogo.

    la natura ridotta a non luogo è la normale conseguenza della presenza dell’uomo sulla terra, che per indole e anche per necessità, tende a trasformarla per le proprie necessità. Quindi caro Ratman anche tua è la colpa,  visto che anche te onori della tua presenza il pianeta terra .

  16. Che fine hanno fatto i passeri a Torino?

    a Torino non lo so, ma a casa mia c’e pieno.  Come c’è pieno di merli, vespe, lucertole , lumache, formiche, cornacchie, tortore, spesso si fermano gli storni fanno nero tutto un albero, cani, gatti, ect. Non mancano nemmeno le zanzare, rompono le palle, ma anche loro sono figlie di Dio.

  17. 6. Quante parole vuote, senza alcuna sostanza, alcun aggancio con la realtà dei fatti. Fuffa, in sostanza, inutile fuffa in quanto oltre a non individuare alcun punto critico, non propone nulla (e come potrebbe, se non c’è un preciso riferimento a cosa, come, quanto, perché).

  18. Matteo, capisco la tua nostalgia per “quella” Sardegna che oggi è (quasi) introvabile. Per me che l’ho vissuta perché ci abitavo da ragazzino, 100 nuovi mattini era…il futuro!?
    Comunque il corbezzolo fa il frutto in autunno, è impossibile mangiarlo a Pasqua. 

  19. L’antropizzazione globale del pianeta, grazie anche a tutti i vari  esploratori, Bonatti, Messner,  e alle loro ideologie avventuriere, ha ridotto la natura a non luogo.
    Oggi  è emblematico a questo riguardo l’uso della espressione tecnoburocratica “terre alte” per indicare i monti, come a ridurli ad un luogo mite, amichevole privandoli così del loro carattere repulsivo.
    Si è venuta così a costituire una cerchia di burocrati specialisti, di professionisti della montagna e della natura. Una casta di chierici che per campare nutre miti per celebrare animalismo ecologismo ambientalismo.
    Che fine hanno fatto i passeri a Torino?

  20. L’altra settimana in VDA ho visto persone che portavano cani e gatti in carrozzina , incuranti dei loro istinti , delle loro necessita’ e dei loro desideri.

    sola in VDA e l’altra settimana? E poi il cappottino non l’avevano?
    mi sembra ci sia da un bel po questo andazzo di umanizzare e ridicolizzare gli animali.

  21. @ Ratman
    .
    Io sono favorevole a lasciare in pace i rapaci , ma quello che hai detto e’ vero : l’umano “deve” essere sempre perdonato dai suoi simili anche a fronte di comportamenti disfunzionali ed aberranti , la Natura viene considerata da molte persone un’ entita’ morale anziche’ un meccanismo utilitaristico darwiniano.
    .
    L’altra settimana in VDA ho visto persone che portavano cani e gatti in carrozzina , incuranti dei loro istinti , delle loro necessita’ e dei loro desideri.

  22. Curioso, ormai solo più gli animali sembrano gli unici in grado di porre un limite alla azione degli esseri umani.
    Mentre nella sfera delle relazioni sociali pare che nulla possa contrariare i desideri più strani che diventano diritti esigibili e riconosciuti,   nella sfera della natura l’umano incarna il male: è una nuova forma di paganesimo e di idolatria.
     

  23. Andammo in Sardegna completamente alla ventura; le uniche indicazioni erano quelle dei Cento Nuovi Mattini.
    Era Pasqua, pioveva spesso e tutti (ma proprio tutti) i sardi che incontravamo ci ripetevano: “era seddici mesi che non piovveva”. E noi dall’umidissima pianura padana a trattenere bestemmie.
    Mi ricordo Legione reale truppe leggere, la valle così verde che ci dicevamo “non avremo mica sbagliato traghetto e siamo finiti in Irlanda?”
    La poltrona inizialmente la snobbammo un po’, perché era falesia (c’erano 3 vie con relazione) ma poi ci finimmo.
    Ricordo San Pantaleo, un combattimento bestiale con la macchia, la via della serie dove andiamo? Mah, su per di lì, un granito fantastico, le spine in discesa e la scorpacciata di corbezzoli.
    Andiamo a Surtana? Si, ma dov’è Surtana? Dev’essere dalle parti di punta Cusidore, un po’ prima.
    Ricordo il pastore che sembrava uscito da un presepe, ma con lo schioppo sulle spalle a cui chiedemmo da buoni lombardi “scusi, sa mica dov’è Surtàna?” e lui dopo essere rimasto perlesso per un minuto che dice “ahh, Sùrtana” seguito da alcuni fonemi strani. Sparisce e torna dopo cinque minuti con una 600 scassata (quella degli anni ’60) e ci porta fino alla partenza del sentiero. Poi tira fuori pane e formaggio e ci descrive come salire, dove andare, ci riempie di raccomandazioni e ci dice di tornare da lui quando scendiamo “che sennò resto preoccuppato”.
    Surtana era una meraviglia, con l’erbetta corta corta verdissima, senza guide, senza chiodi, senza spit abbiamo arrampicato per ore. Poi siamo tornati dal pastore che ci ha detto “sarete stanchi, ma se vi accontentate c’è l’agneddu”
    Non so se abbia ragione Battimelli o Antonioli, però io prototipo del Brambilla lombardo sono contento di aver potuto vivere quelle esperienze.
     
    Adesso ho un po’ il timore di quello che potrei trovare tornando in Sardegna. 

  24. Prima di circostanziare adeguatamente la mia netta presa di posizione di sostegno ai rapaci, secondo la ratio dell’ “ubi maior, minor absit”, attendo ovviamente la seconda puntata. Per il momento mi limito a dire che è stato bello rileggere articoli  letti in originale negli anni di gioventù, e che tali articoli dimostrano che esiste da lungo tempo la tradizione che andare in montagna sia un fatto anche culturale o cmq che fa “riflettere”, e non solo un animalesco metter piede davanti all’altro o una mano più in alto dell’altra.

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