Il 22 agosto 1959, sessanta ani fa, moriva tragicamente in montagna Attilio Tissi. L’avvocato Piero Rossi (Belluno) scrisse questo articolo la cui lettura oggi ricorda davvero un pianeta che non è più il nostro. Non riusciamo più a essere così rispettosi, così semplici nel manifestare i nostri sentimenti e la nostra ammirazione. Ci interessa poco che un individuo possa essere d’esempio a qualcuno. A tal punto da provare una punta di fastidio per come i nostri nonni si esprimevano. Sono passati sessanta anni, ma sembrano un’eternità.
Attilio Tissi – 1 (1-2)
di Piero Rossi
(pubblicato sulla Rivista Mensile del CAI, maggio-giugno 1960)
Lettura: spessore-weight(1), impegno-effort(2), disimpegno-entertainment(2)
Nessun forma umana di ricordo c’è sembrata più degna per Attilio Tissi, di quella di costruire un Rifugio con il Suo nome, nella zona nativa delle Dolomiti, che conobbe i Suoi sogni giovanili di alpinista e le Sue meditate e stupende salite.
Il nostro dolore per aver perduto un così caro compagno non si attenua con il passare del tempo, ma si rasserena nel progettare di costruirGli, con il lavoro dei Suoi operai e di noi tutti, una casa di legno e di sasso, semplice, come Egli l’avrebbe voluta, lassù, sulle rocce che Gli furono tanto care, nel grande silenzio che tanto piaceva al Suo carattere taciturno e schivo.
Lassù Egli potrà accogliere ancora l’amico alpinista, darGli un sereno benvenuto, incuorarlo a vincere le difficoltà di un’ascensione, offrirgli la spiegata bellezza delle Sue montagne agordine, suggerirgli — Egli che ormai sa — le soluzioni ai problemi, agli interrogativi dell’umana, tormentata coscienza.
Nella nostalgia che abbiamo di Lui, ci è confortante pensare che, quando noi — che Gli fummo amici — non saremo più, la piccola casa con il nome di Attilio Tissi rimarrà a ricordarlo. Saliranno i nuovi giovani lassù e si chiederanno — essi che non lo conobbero —chi Egli fu: all’entrata della piccola casa, una carta della zona indicherà le salite fatte da Attilio Tissi; così prolungherà nel tempo l’ammirazione per Lui; un alone di leggenda circonderà e conserverà il Suo nome. Si dirà di Lui: «era un figlio di queste montagne e ne salì, per primo, le più impervie, era un buono, amò gli uomini e ne fu amato».
Questo noi auspichiamo; per poterlo realizzare, con fraterna semplicità, chiediamo il contributo degli amici alpinisti.
(Giulio Apollonio)
Parlare di Attilio Tissi è un compito che sgomenta, commuove ed esalta ad un tempo. Parlare di Lui, è un po’ come parlare della Sua terra agordina. L’Agordino non è una vallata celebre e rinomata fra i turisti distratti di tutto il mondo, non rievoca immagini di una montagna idilliaca e convenzionale, dove la mondanità e la comodità hanno ormai steso i loro tentacoli commerciali. L’ingresso all’Agordino avviene per una valle orrida e profonda, cinta da precipizi oscuri, aspri, arcigni. Le rocce che dominano i suoi villaggi, non sono minuscole e civettuole architetture di fiaba, ma ciclopiche muraglie dove la verticalità della dolomite sposa la grandiosità delle grandi Alpi. La celebrità dell’Agordino non si fonda sulla chiassosa pubblicità degli uffici turistici, ma è circoscritta ad una cerchia di eletti. E, nei recessi più reconditi delle sue valli impervie, si cela ancora il mistero di un’epoca patriarcale.
Attilio Tissi è stato il figlio esemplare di questa terra. Il Suo animo angoloso e tormentato, sembra rispecchiarne le asprezze; come quelle rupi superbe, Egli visse fuori della mediocrità, senza menarne vanto. Come quelle valli selvagge, seppe farsi apprezzare ed amare dagli animi migliori. Dalla Sua terra ereditò la tenacia e la volontà, silenziose, ma inflessibili. Dai montanari della Sua stirpe, l’ingegnosa operosità. Sotto la scorza della semplicità bonaria, il Suo animo era orgoglioso e volitivo, fino alla caparbietà: una volta abbracciato un ideale, una causa ritenuta giusta, nulla Lo avrebbe arrestato. Anche se riservato nell’esprimere le Sue emozioni, egli era, nell’intimo, insoddisfatto e tormentato da un perenne desiderio di superamento di se stesso. Come le Sue «vie» erano le più logiche, le più chiare, le più dirette, così la Sua vita fu sempre lineare, retta, coerente. Inflessibile nei principi, fu umano e moderato nei rapporti sociali, e alla retorica parolaia preferì, in ogni occasione, il semplice e schietto buon senso. Amò profondamente la Sua terra e la Sua gente e, anche quando raggiunse il benessere, non dimenticò mai le origini umili, né i duri problemi dei montanari, cui dedicò tanta della Sua attività di uomo politico.
Attilio Tissi nacque, all’inizio del secolo, a Vallada, sotto le Cime d’Auta e in vista delle grandi muraglie della Civetta. Modeste le condizioni della Sua famiglia, che, però, secondo una consuetudine comune ai montanari agordini, si preoccupò di avviare agli studi i figli. Uno di essi, più anziano di Attilio, fu fra i tecnici che organizzarono la celebre mina del Castelletto, durante l’epica guerra per crode sulle Tofane.
Attilio era dotato di un fisico vigoroso: ne avrebbe fornito riprova la serie delle Sue imprese alpinistiche in non più giovane età.
Ma il segreto di esse va, soprattutto, ricercato nella Sua volontà. Infatti, egli non fu mai l’acrobata, ma soprattutto l’alpinista. Fin da giovane, frequentò la montagna, sui pascoli sopra la casa paterna e nelle allegre brigate di giovani. Per lunghi anni sembrava che Lui e la montagna disputassero una schermaglia, senza mai spingerla a fondo. Potenzialmente, Tissi sentiva il fascino di una pratica alpinistica più impegnativa. La montagna, sin da allora, Lo attraeva anche negli aspetti più romantici: più tardi, anche al culmine della Sua carriera di atleta delle crode, avrebbe sempre trovato il tempo per commuoversi intimamente per un paesaggio o un fiore. Ma la conquista più ardita e difficile stimolava in Lui un desiderio indefinito. Evidentemente, disponeva di doti innate ed istintive, ma le circostanze vollero che egli sfiorasse i trent’anni, prima di cimentarsi nella arrampicata.
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La Sua professione di perito industriale Lo portò nelle Alpi Apuane. Un giorno, per esigenze di lavoro, qualcuno fece presente l’opportunità di toccare la vetta di un lastrone roccioso, forse facente parte del Monte Pisanino, ritenuto inaccessibile. Nessuno infatti, pensava seriamente alla possibilità di salirvi, almeno per il versante più arcigno. Tissi sentì, allora, uno stimolo che l’esigenza professionale non bastava a giustificare. Fra lo stupore dei colleghi salì quella roccia di levigato calcare. Non si esaltò dell’impresa e, anche per lui, sembrò che tutto fosse concluso nell’episodio. Ma, in realtà, si era messo in moto qualcosa che, presto, avrebbe trasceso la Sua persona, e avrebbe inciso pagine d’oro nella storia dell’alpinismo italiano. Alla base vi era, forse, l’orgoglio e la forza di montanaro e la confidenza con la natura, amica e nemica ad un tempo.
Attilio Tissi in vetta alla Cima Piccola di Lavaredo
Non era facile indurre Tissi a parlare di sé, come non è facile, neppure oggi, vincere la sobrietà dei Suoi compagni più fidati. Più tardi, quando, Suo malgrado, attinse le vette della notorietà, ci fu chi scrisse delle Sue imprese più famose. Ma, dei primordi, molto resta avvolto in una nebbia che sa di leggenda. Poco dopo l’episodio delle Apuane, durante una gita sulle montagne dolomitiche che fanno superba corona a Belluno, Tissi giunse ai piedi della piccola, arditissima guglia che si affaccia aguzzo monolite sull’eccelsa cresta della Schiara: la Gusela del Vescovà. Ancor oggi, per quanto breve, quell’ago di pietra incute rispetto ai buoni alpinisti. Dell’alpinista, ormai, senza saperlo, Tissi aveva l’animo. Quella guglia gli ispirò il desiderio della conquista e, tutto solo, ne toccò la vetta.
Quando raggiunse gli amici e raccontò di essere stato lassù, sulla Gusela, qualcuno restò incredulo. Qualcuno, persino, lo prese in giro o lo trattò da millantatore. Nel chiuso del Suo animo, Tissi provò un altro stimolo, questa volta decisivo: l’orgoglio. Dunque qualcuno dubitava della Sua capacità di arrampicatore? Avrebbe dimostrato, senza esibizionismi, ma con l’eloquenza dei fatti, di non essere il tipo da raccontar frottole. Una gita primaverile sul Framont, ancora ammantato di neve, lo trovò vicino a un amico, coetaneo, collega di lavoro: Giovanni Andrich. Tissi non era mai stato un camminatore brillantissimo. Ecco un buon argomento per le punzecchiature degli amici. Si intrecciarono scommesse. Si parlò di «andare in montagna sul serio». Sembravano allegri scherzi, ma qualcuno aveva preso la cosa seriamente.
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Era il 1930. Sedici anni prima, l’alpinismo dolomitico aveva raggiunto un livello che molti ritenevano insuperabile, per opera di arrampicatori di oltralpe — Preuss, Dülfer. Negli ultimi anni, i limiti dell’impossibile erano stati travolti: una nuova tecnica e una nuova concezione, importati dalle palestre calcaree del Wilder Kaiser, si erano affermate clamorosamente sulle più repulsive muraglie delle Dolomiti. Pelmo, Furchetta, Civetta, Sass Maor, Tofana di Rozes erano state vinte, dagli alpinisti austro-tedeschi, per i versanti più pazzeschi. Si parlava, ormai, dell’«epoca del sesto grado».
Nel dopoguerra, l’alpinismo dolomitico italiano era apparso fermo al livello raggiunto da Preuss e da Dülfer. Anzi, a dire il vero, ben pochi o quasi nessuno erano gli alpinisti italiani capaci di ripetere le vie di quei grandi pionieri. A contrastare il livello tecnico e psicologico della nuova scuola di lingua tedesca, meglio non pensare. Nell’apprezzare i meriti di coloro che, come Videsott, Rudatis, Comici, Tissi e pochi altri segnarono l’iniziale rinascita dell’alpinismo italiano, non bisogna mai dimenticare l’ostacolo di ordine psicologico, il complesso di inferiorità, troppo spesso trascurato, oggi, da certi giovanissimi ed esuberanti quadrumani, pronti a sottovalutare le salite classiche, dimenticando che, allora, ci voleva veramente l’animo di chi pensava di affrontare l’impossibile o quasi, sentimento oggi, specie con le più recenti diavolerie tecniche, quasi bandito.
La parete sud della Terza Pala di San Lucano (Cima Maria Josè). Il 151 è il tracciato della via Tissi-Andrich
Intorno al 1925 vi era, però, nelle Dolomiti una cordata che non esitava a ripetere brillantemente le vie di Preuss e di Dülfer, spesso prima fra gli italiani, e che, dopo, avrebbe anche affrontato le grandiose conquiste della nuova scuola, come la Nord del Pelmo. Era una cordata bellunese, alla cui testa figuravano Francesco Zanetti e Aldo Parizzi. Il loro valore era ben noto agli agordini, vicini e fraternamente uniti ai bellunesi, come questi appassionati alpinisti. I vincoli alpinistici fra Belluno e Agordo, dove era sorta una delle più vecchie sezioni del Club Alpino, erano, infatti, tradizionali. Ad Agordo, in occasione delle nozze del Principe di Piemonte con Maria Josè, figlia del Re dei Belgi, il Re alpinista, qualcuno aveva pensato a un omaggio fuor del comune, dedicando alla Principessa una delle grandiose ed inaccesse cime delle Pale di S. Lucano. Era, però, subito apparso che l’omaggio, per quanto apprezzabile, sarebbe stato un po’ arbitrario, sino a quando il diritto di battesimo non fosse stato acquisito con la effettiva conquista della cima.
Vi era, allora, nei dintorni, solo una cordata che potesse osare l’impresa. Questa era la cordata dei bellunesi e si sussurrava che presto «Checco» Zanetti sarebbe venuto per scalare la «Maria Josè»: Tissi, che ormai andava sempre più infiammandosi della nuova passione, che, in realtà, covava quasi innata dentro di Lui, tentò di prendere contatto con i bellunesi, ma trovò scarso entusiasmo: chi sapeva nulla di questo «gnass» (soprannome degli agordini) che, fino a trent’anni non si era mai fatto notare su per le crode?
Ancora una volta Tissi sentì lo stimolo di qualcosa che appariva più forte di Lui, ma che spirito di avventura, amor proprio, fascino naturale e forza di volontà Gli facevano intensamente desiderare. Assieme all’amico Andrich, vi erano ad Agordo altri appassionati, fra cui diversi colleghi di lavoro. Sulla tecnica alpinistica essi nutrivano cognizioni assai approssimative: solo entusiasmo, tenacia, intuito di montanari di razza. Per toccare la vera parete della «Maria Josè», si doveva vincere un lunghissimo zoccolo di mughi sempre più ripido e scosceso. Uno alla volta, gli amici si fermarono. Solo Tissi proseguì, spinto dalla decisione e dalla curiosità di vedere come sarebbe stato più in alto. E con Lui Andrich. Ad un tratto le rocce si fecero verticali. E lì, ai piedi di quella vergine parete, si compose, per la prima volta, una delle più celebri e affiatate cordate della storia dell’alpinismo. La loro via non è ancora stata ripetuta (lo fu solo il 14-16 marzo 1971, da Roberto Lagunaz e Giuseppe Costantini, prima invernale, NdR), ma certo le difficoltà incontrate furono molto serie. Data l’epoca, la loro inesperienza tecnica e la severità dell’ambiente, quell’impresa ebbe qualcosa di leggendario. La vetta li accolse esausti, ma con la coscienza di una nuova maturità acquisita. Ora Agordo era piccola e lontana, in fondo alla valle, che essi dominavano dal vertice di un precipizio immane. Accesero un falò di mughi e si addormentarono. Veramente, Tissi che aveva il sonno più leggero, avrebbe dovuto vegliare, ma la stanchezza Lo vinse e si assopì. Lo destarono le grida di Andrich, i cui abiti avevano preso fuoco. Così l’avventura finì con un incidente che, una volta felicemente concluso, portò molto buon umore.
Anche allora, molti alpinisti mediocri erano avvezzi a drammatizzare a dismisura le proprie imprese e specialmente l’inesperto o il principiante rischiavano di trovarsi di fronte a giudizi sconcertanti. Il successo della loro prima scalata, spinse Tissi e Andrich a voler sperimentare quelle famose vie classiche di cui cominciavano a sentir parlare con accenti di mistero dagli amici più eruditi.
Una breve, ma decantata salita era la ancor oggi classica via Myriam della Torre Grande di Averau. Tissi e Andrich ne sentirono dire mirabilia da alcune alpiniste tedesche occasionalmente conosciute, vollero provarla, la vinsero con insospettata disinvoltura e trovarono che, in fondo, non era, naturalmente per loro, neppure all’altezza della sua fama. Tissi, in nessuna delle manifestazioni della Sua vita, fu mai uomo di mezze misure. Aveva scoperto che l’arrampicata Lo affascinava, portando al livello più intenso le sensazioni care al Suo spirito, che già la visione della montagna era capace di donarGli. Aveva intuito le proprie straordinarie capacità. Ora pensava che sulla roccia doveva esserci qualcosa di più difficile, che Egli sarebbe stato capace di affrontare. Lesse sulla «guida Berti» della via Preuss della Piccolissima di Lavaredo. Non era una descrizione invitante: «Sommamente difficile. Due catastrofi su sette ascensioni…». Senza spavalderia, ma con decisione, volle affrontare la tragica fessura, il «Tiger» di Preuss. Giunto nel camino superiore, trovò la strada bloccata da un’altra cordata che procedeva lentamente. Si portò all’esterno in parete e la superò. La discesa è difficile e vertiginosa e si compie a corde doppie. Ma essi non conoscevano questa manovra tecnica e discesero in arrampicata libera. Quando toccarono le ghiaie, si accorsero di aver impiegato, per la completa traversata, poco più di due ore! Cominciava la serie dei prodigi di Tissi, prodigi di arrampicata, ma ben diversi da quelli, indubbiamente ammirevoli, di altri atleti agilissimi ed eleganti. Tissi arrampicava con i muscoli e con il cervello, ma soprattutto col cuore, saldo e tenace e con la volontà, ragionata ed equilibrata, ma indefettibile.
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Quella che seguì fu l’impresa che dette la misura della statura alpinistica di Tissi. Alcune circostanze lasciano ancor oggi perplessi e confermano come solo un uomo eccezionale potesse vivere una esperienza così eccezionale. Agli inizi della stagione alpinistica 1930, una salita deteneva un indiscusso primato in tutte le Alpi: la «direttissima» di Solleder e Lettenbauer sulla parete nord-ovest della Civetta. Milleduecento metri di roccia insidiosa, bagnata, battuta dalle pietre ed estremamente difficile. Era il capolavoro della scuola di Monaco e solo quattro cordate, tutte tedesche e tutte con bivacco, avevano ripetuto quel pauroso percorso. Nessun italiano vi si era cimentato e, ad accrescere il nostro complesso di inferiorità, vi era stato qualcuno che, con evidente cattivo gusto, aveva lasciato un celebre biglietto: «Questo non è pane per gli italiani». Affermazione sciocca e indegna di un alpinista, perché in montagna non hanno senso competizioni di tipo sciovinista, ma che sembrava avere un fondo di verità, in quanto, a quei tempi, non si conoscevano cordate italiane all’altezza di tali difficoltà. Solo allora, infatti, Videsott sulla Busazza e Comici sul Sorapiss avevano sfiorato i limiti del VI grado, ma la «Solleder» restava ancora una impresa insuperata.
Con quale stato d’animo Tissi e Andrich partirono alle 1.30 del 31 agosto 1930, dal rifugio Vazzoler, ancora immerso nelle tenebre? Alcuni particolari potrebbero far pensare a spavalderia. Un amico «esperto» li aveva stimolati all’impresa con un singolare ragionamento: «Immaginate che la «Solleder» sia costituita da cinque o sei vie «Preuss» l’una sopra l’altra. Per fare la «Preuss» avete impiegato circa due ore? Bene, per la «Solleder» ne impiegherete una dozzina al massimo!». Era una logica sconcertante! Un’occhiata all’equipaggiamento, anche in rapporto ai tempi, non avrebbe lasciato meno perplessi: chiodi di confezione casalinga, autentici ferracci di enormi dimensioni, qualche moschettone, del cui impiego i due audaci non possedevano nozioni troppo chiare.
Temerarietà? Nel rievocare quell’impresa, Tissi insisteva sempre su un particolare: il senso di timore e di rispetto che la parete della Civetta, la più grandiosa delle Dolomiti e una delle più imponenti delle Alpi, Gli ispirò quel giorno. Poteva essere carente la preparazione tecnica, ma il Suo animo si rendeva coscientemente conto delle difficoltà da affrontare ed Egli non mancò di compiere un severo esame di coscienza e proseguì solo dopo aver onestamente valutato le Sue forze, e quali forze! All’attacco, un enorme masso, segno premonitore delle insidie della «parete delle pareti», si infranse con un sinistro schianto sullo zoccolo, accanto a Tissi e Andrich. Bastava questo per richiamare alla somma di rischi che stavano per affrontare. Erano le 4.30 ed albeggiava. Per lunghe, interminabili ore si innalzarono sugli appicchi vertiginosi. Mancava loro la malizia per aggirare alcuni fra i passi più ardui con manovre artificiali, come già era consuetudine dei ripetitori della «Solleder». Alle 18 uscirono sulla cresta sommitale. Erano i primi italiani a vincere la più difficile e grandiosa scalata delle Alpi, erano i primi assoluti a vincerla senza bivacco. Avevano superato i più forti arrampicatori monacensi, che giungevano alla Civetta con tutto il bagaglio di una minuziosa preparazione e di una tecnica raffinata.
Scesero nel buio ormai fondo per rocce sconosciute, si smarrirono fra i mughi e, solo alle 20, toccarono la soglia del Rifugio Coldai. Portavano con sé la rinascita dell’alpinismo italiano.
Tissi non fu mai uomo di penna, né inviò mai, neppure a riviste specializzate, resoconti e relazioni delle Sue imprese. Qualche tempo più tardi, l’estrosa e brillante penna di Domenico Rudatis avrebbe narrato alcuni particolari delle Sue conquiste, con una vivacità di stile non certo sproporzionata al valore eccezionale delle ascensioni e dei loro protagonisti, ma che non fu certo ispirata da Tissi, il cui orgoglio si appagava della soddisfazione intima (e intimi furono, quasi sempre, i Suoi compagni di cordata), mentre, nei rapporti esteriori, Egli restava esempio di sobrietà e di modestia, doti non facili in un’epoca in cui l’esaltazione delle imprese atletiche era, spesso, spinta sino alla retorica. Tuttavia, l’eco di quella conquista si diffuse rapidamente fra gli specialisti e Tissi entrò nelle loro file col rango e l’autorità di un caposcuola.
Il compagno prediletto, che Lo avrebbe accompagnato in quasi tutte le Sue conquiste, restava Giovanni Andrich. Altri colleghi di lavoro furono fra i Suoi più fidi compagni di ascensioni. Ma, soprattutto, intorno a Tissi si cementò, più salda che mai, la fraternità alpinistica fra gli arrampicatori agordini e quelli bellunesi. Altri giovani avrebbero seguito l’esempio dei maestri, Tissi e Zanetti e presto Agordo e Belluno sarebbero divenuti il vivaio del più forte gruppo di «sestogradisti» che abbia operato nelle Dolomiti prima del secondo conflitto mondiale.
Alessandro Gogna sulla via Tissi al Campanile di Brabante (1982)
Questi uomini avevano in comune l’amore istintivo per la montagna, l’attitudine naturale di razza montanara, la predilezione per imprese serie e grandiose, la prevalenza delle doti umane, atletiche e morali, sugli artifizi tecnici. Grazie a loro, l’arrampicata libera, la più cavalleresca forma di lotta dell’uomo contro la montagna, giunse alle più eccelse espressioni. La stessa competizione sportiva non fu mai elemento determinante della loro passione e solo in parte affiorò più intensa negli elementi più giovani, fra i quali eccelse la eccezionale figura di Alvise, fratello di Giovanni Andrich. Tissi e i Suoi compagni erano, soprattutto, innamorati della montagna, che doti straordinarie consentivano di affrontare negli aspetti più difficili. È singolare che la cordata di Tissi sia, quasi sempre, stata fra le più numerose e «pesanti»: tre, quattro, persino sei componenti. Aspirazioni puramente sportive e competitive avrebbero, ovviamente, suggerito di ridurre un numero che, in parete, non poteva essere che d’impaccio, ma lo scopo principale sembrava essere quello di partecipare in molti, tutti fraternamente amici, delle emozioni e dei piaceri, diretti o indiretti, delle ascensioni. Erano, insomma, semplici gite fra amici, naturalmente su terreno adeguato alle loro possibilità fuori del comune.
Lo stesso terreno prescelto da Tissi per la Sua attività era indicativo. Il tempo limitato a disposizione non consentiva, spesso, di allontanarsi molto dalle montagne di casa. Ma quelle montagne sono veramente quanto di più arduo e grandioso offrano le Dolomiti. L’esperienza della «Solleder» però fornì lo stimolo a conoscere altre fra le più celebrate e difficili conquiste dell’epoca. La formidabile Torre Trieste, sulla quale Zanetti e Parizzi avevano tracciato la prima via diretta dalla base, fu presto posta nel Suo programma, ma un equivoco nella lettura della relazione tecnica, del resto piuttosto sommaria, portò Tissi e Andrich alla base della gola ovest, in luogo della est. Anche la gola ovest era stata salita da Castiglioni per un itinerario indiretto, ma i due la superarono tenendosi sempre sulle rocce della Torre e vincendo difficoltà in qualche punto estreme. Lo strano si è che le indicazioni della relazione della gola est si adattavano a meraviglia al loro percorso! Toccarono la spalla dello spigolo sud-ovest, che essi avrebbero vinto l’anno successivo, ma, sorpresi dal maltempo, furono costretti ad un pauroso ritorno per la stessa via, calandosi nella gola divenuta, ora, estremamente pericolosa.
(continua)
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Peccato che ci sia una seconda parte; avrei letto tutto d’un fiato, è semplicemente “avvincente”. Grazie.
Vana speranza.
C’è sempre chi afferma che se non vuoi non lo passi.
Info: il Brabante ora dicono sia proprio pericoloso …. il sasso di partenza si è abbassato.
Spero che qualche “brocco” non spitti.
Credo che come arrampicatore Tissi sia stato un vero istintivo, un talentuoso.
Non lo conoscevo. Alpinista grandioso
Per me era talmente “oltre” che alcune sue salite non si riescono più a fare come le aveva fatte lui e altre non esistono più.
Mi piace chiamarlo “il leggerissimo”…. anche per la sua cultura.