Metadiario – 259 – Baltoro 2004 – 1 (AG 2004-004)
Milano 8 luglio – Dubai 9 luglio
Gran pieno sul jumbo della Emirates, posti occupati da provvisori inquilini di ogni razza serviti da hostess di ogni colore, ugualmente gentili con loro tutti.
Franco Figari e Mario Pinoli sono alla mia destra. Il quarto della fila è un architetto italiano che lavora a Dubai, simpatico ma un po’ troppo chiacchierone. Sfrutto volutamente la relativa lontananza per non partecipare a un dialogo di una prevedibilità sconcertante.
Di fronte a noi si para uno schermo dedicato al singolo passeggero, con un telecomando incastrato poco sotto. Mi assorbo nello studio di quest’aggeggio davvero tecnologico che ti permette di vedere film, ascoltare musica di venti generi diversi, dal rock alla classica, dalla popolare araba alla filippina. Ti permette anche di dedicarti a compulsivi giochi tipo videogame.
Mi stupisco ogni volta che mi trovo in mezzo al consumo livellato di gente che, per il solo fatto di essere mischiati in un mezzo di trasporto condiviso, è costretta a vivere le stesse cose nello stesso momento, scusandosi in maniera di solito eccessiva se qualcuno fa aspettare qualcun altro, per esempio ingombrando il corridoio durante la sistemazione del bagaglio a mano nei bauli sospesi.
Una copertina gialla del giusto spessore permette di sopravvivere in t-shirt all’aria condizionata; qui vogliono darti comfort, coccolarti alla grande, e ti consegnano un lussuoso menu dove ti pregano di non farti problema a ordinare, con i “compliments” della Emirates, ogni genere di bibita, a eccezione dello champagne per il quale invece occorre pagare.
Dopo la buona birra bevuta alla Malpensa con una cattiva e appetitosa pizza, mentre due impiegate dell’aeroporto fumavano, vistosamente rilassate al loro tavolino, proprio sotto un grande cartello di “Vietato Fumare”, eravamo pronti a bere tutto l’alcol possibile prima del ramadan obbligatoriamente previsto in Pakistan.
Quindi sì a tutte le offerte di bibite, sì a tutti i comfort del viaggiatore di massa che s’illude di essere un privilegiato. Sembra che il problema più grosso di certe persone sia quello di avere il più possibile, pena l’apparire minorati non solo di fronte agli altri ma anche di fronte a se stessi. E ottenuto quello che era pattuito e stabilito per loro si sentono paghi, come se l’essere appiattiti in un consumo di apparente eleganza e selettività fosse la loro massima aspirazione.

E oltre? Oltre forse non c’è nulla, all’essere c’è sempre tempo di pensarci più in là, quando la prossima volta si sarà saliti in prima classe (o business che dir si voglia).
Naturalmente sto giudicando le apparenze. Nessuno può garantire che le mie impressioni siano corrette. Sotto a quelle facce di vario colore, sotto a quei vestiti dalle fogge più disparate, si possono nascondere geni, creativi, artisti, forse anche stregoni. Magari qualcuno di loro penserà le stesse cose mie. Ma non c’è nulla di meglio di un aereo in volo per farci apparire tutti uguali.
I saluti con Guya erano stati frettolosi per non diventare strazianti. Pelucco e Tara stavano aspettando nell’Agila: ma pioveva, e i vetri erano stati lasciati pericolosamente semiaperti per evitare un “sicuro” soffocamento dei due animali nei ben sessanta minuti di sosta. Quando magari le stesse bestie si fanno anche tre ore, o quattro, nella stessa auto rigorosamente a finestrini chiusi ma viaggiando con me al volante, Guya a lato e dietro Elena e Petra! Ma tant’è…
Si piange quando si teme di non rivedere mai più la persona cui si vuole bene. E questo è successo, come se ci fosse in aria una predizione di disgrazia o di malattia grave.
E del resto, a questa sensazione, sono pressoché abituato, da mesi, da quando vedo questa partenza come un vero distacco, quasi costrizione fatale a un destino già scritto. Non è piacevole, ma ci si convive. Il lumino di candela della nostra coscienza in questi casi fa fatica a rimanere acceso, non ci sono improvvisi colpi d’aria perché la corrente è continua e non dà tregua alla fiammella tremolante.
Va bene, ti dici, se così deve essere, che sia. Ma attenzione: sarà una lotta continua, un campo di battaglia giornaliero con incursioni notturne d’immagini oniriche che lasceranno spazio solo a riflessioni mattutine dure da uccidere, anche lavandole con tè zuccherato e bollente.
Ma perché tanta paura, tale riluttanza a fare un lavoro che mi piace, in un posto meraviglioso, celebrato come grandioso? Beato te che vai in montagna, via di qua… Ma tu lo sai che se avrò freddo non sarà più come 25 anni fa? Allora avevo una forza dentro che mi spingeva a osare, freddo o caldo che fosse. A chi vuole una cima non importa nulla di dormire sul duro e scomodo, specie se ha 25 anni di meno. Ora, in tenda, è un rigirarsi continuo da crampi di posizione, con l’aggiunta di qualche dolorino articolare, e la mente filtra ogni possibile debolezza di un corpo che forse sta protestando per non essere più maltrattato.

Mentre fisso il mio video, dove l’aereo disegnato traccia una linea sul Medio Oriente, ripercorro i mesi di preparazione psicologica a questo grande distacco e d’improvviso, ed è un sollievo, intuisco che la paura che ho della morte è in realtà solo paura di cambiamento. Ma quanti cambiamenti ho già maturato in questi anni? Per certi aspetti mi sembra d’essere uguale a un tempo, dunque mutato non sono. Per altri aspetti invece, mi sembra di aver fatto una strada considerevole, con trasformazioni successive mai troppo dolorose, per fortuna (o per sfortuna?). Una continua metamorfosi che ti lascia nel dubbio che tutto sia come prima. Pochi terremoti, anzi quasi nessuna scossa, la fortuna sfacciata di cadere sempre in piedi.
Paura dunque del cambiamento brutale, come se la successiva maturazione debba passare attraverso un’esecuzione, un’epurazione di facoltà predominanti. E ciò ben celato nell’involucro del dovere, perché in fin dei conti io sto andando a lavorare, con precisi compiti e responsabilità di cui spesso faccio fatica a conservare l’importanza dentro di me.
– Certo avete sentito la mia mancanza! – ci dice l’architetto dopo essere stato in toilet e/o a parlare con qualche hostess. Continuo a ignorarlo, in apparenza assorbito nel percorso di volo, in realtà compiaciuto dell’intuizione avuta poco fa. Che mi ha sollevato, perché mi ha offerto uno spunto positivo su cui lavorare, anche ora che sto scrivendo, ormai sul volo notturno per Islamabad.
Islamabad, 9 luglio
Dopo la notte praticamente bianca in aereo, sembra che ci sia una congiura per non farci dormire. Inizialmente prevista per le 10.30, la partenza dall’albergo per il briefing al Ministero del Turismo è anticipata alle 10, con tanto di busso alla porta e telefonata in camera, entrambe insistenti. Là giunti, assieme alle guide Abele Blanc e Maurizio Felici che conducono due gruppi di soci del CAI fino al campo base del K2, ci fanno aspettare con altrettanta insistenza.
Incontriamo il barbuto e distinto Mr. Aziz, con il quale la settimana precedente avevo condiviso un nutrito numero di mail. Finalmente il segretario del ministro ci riceve. Abele intanto nota, appeso a un muro dell’ufficio gelato da un condizionamento d’aria senza risparmio, un manifesto sul quale c’è anche la mia faccia: si tratta del poster di 25 anni fa, per la Magic Line al K2. E quando mi chiedono se era la prima volta che visitavo il Baltoro rispondo di no, alzandomi e mostrando nome e ritratto sul manifesto.
La notizia fa il giro dell’ufficio e di quelli circostanti, credo che viaggi anche su e giù per gli ascensori (di quelli che premendo il tasto per un piano, chissà perché ti ritrovi a visitarli tutti, anche quelli in direzione opposta). Forse la notizia arriva anche all’usciere… Insomma, un successone, che comunque tra grandi sorrisi di compiacimento e accenni al grande Messner mio compagno di allora, ha il pregio di rendere più piacevole (quindi quasi abbreviare) la nostra permanenza in questa ghiacciaia.
Dopo il pranzo sotto a una tettoia in mezzo a un’assolata piazza di Islamabad, riusciamo anche a perderci in taxi, ritrovandoci perfino nell’affollatissima Rawalpindi, con il risultato di poter dormire soltanto alle tre del pomeriggio.
Reduce dal Baltoro, è intanto arrivato all’albergo il gruppo CAI n. 5, quello di Franco Giacomelli; entusiasti, chiacchierano con i nuovi, dando consigli, spargendo impressioni. Nella hall c’è casino tutto italiano, mentre io scambio due parole con il simpatico Mehfuz, quello che era venuto all’aeroporto a prenderci, con tanto di cartello e lussuoso van Toyota, anche quello condizionato ma regolabile.
Mehfuz sarà la nostra guida, starà con me per tutto il tempo. Dovrò esplorare la sua forza e i suoi punti deboli, come storpia le parole in inglese e, insomma, cosa gli passerà per la testa per il molto tempo che passeremo assieme.
Mr. Aziz, per i necessari accordi, arriva alle 19 (due ore di ritardo) e finalmente possiamo discutere ogni dettaglio. In una pausa, dovuta a non so più cosa, e dopo la risoluzione compromissoria di un problema, ho esclamato rivolto a Mehfuz: – It’s very simple – intendendo che è facile risolvere le difficoltà se si ha la comune volontà di farlo.
– You are very simple… – mi ribatte come a farmi un complimento – Mario, for example, is different!
– Different? – chiedo spiegazione.
– Yes… he is… more intrigant (non gli veniva la parola e comunque non so bene se entrambi le stiamo attribuendo lo stesso significato).
– Yes – concludo – for that reason we work together so well!
Skardu, 11 luglio
L’hotel Panorama di Chilas è situato nel posto meno panoramico possibile. Dopo aver viaggiato per 6 ore in quel gran budello di rocce e terra che l’Indo si è tracciato con potenza, la piana di Chilas con il suo promettente verde sembra evocare gli spazi negati in questa giornata. Ma l’albergo è accanto alla strada, nel punto più basso di un enorme conoide detritico e il panorama è una delusione. Fa caldo in queste spartane camerette ancora immerse nel calore diurno: un gigantesco ventilatore dà qualche sollievo, ma se precipitasse mi colpirebbe in pieno sdraiato sul letto.
Giornata densa di emozioni, oggi, sulla strada percorsa a velocità di continuo sopra le righe, dove ogni incontro con un altro veicolo diventa una sfida tra i due autisti a chi frena e devia per ultimo; emozionante anche per la gola selvaggia, sublime e perenne minaccia di movimento franoso, invito insistente a considerare la nostra fragilità e il nostro essere appesi a un filo invisibile. E così i due pericoli, quello naturale e quello umano, si mescolano fino a far chiudere gli occhi nei momenti più cruciali.
Questo canyon è un deserto verticale che non lascia sospettare i boschi e i prati che ci sono subito al di sopra, oltre gli orli. Lo testimoniano invece le immani cataste di legname ammucchiato in tronchi semigrezzi ai lati della strada. I pochi villaggi sono rannicchiati dove i torrenti laterali si buttano nel grande fiume, mescolando le loro acque azzurre o verdi con quelle limacciose e marroni dell’Indo.
Guida e autista ci hanno chiesto il permesso di mettere su un po’ di musica, ma dopo le prime quattro ore di un flauto ossessivo abbiamo chiesto pietà. A Besham ci siamo fermati per colazione, ma non è un luogo molto gradevole. A parte il caldo, v’è una discreta mescolanza con popolazione pashtu (anche profughi afghani), da sempre fiera e poco generosa nei nostri confronti. Neppure gli inglesi riuscirono a sottometterli, anzi si presero delle sonore batoste dai guerriglieri afghani di allora. E anche oggi, in tempi antiamericani, si sente nell’aria una vaga ostilità, dal mendicante poco meno che aggressivo agli sguardi, talvolta minacciosi, mai amichevoli.
Askole, 13 luglio
L’11 mattina mi capita un fattaccio che mi rovina la giornata, ben presto alla mattina. Un sole stupendo non riesce a spegnersi nell’ocra della terra con luce ormai ben poco radente e al contempo fa scintillare Rakaposhi e Diran che all’improvviso appaiono sullo sfondo. Ma questi due “settemila” sono solo l’anticamera della splendida visione che ci appare invece alle spalle, sul Nanga Parbat e la sua favolosa leggenda. La parete di ghiaccio è assertiva, brilla negando spazio ad altri soggetti. Non si può guardare la cima senza pensare a Hermann Buhl e alla sua mitica cavalcata solitaria.
Dalla mia borsa estraggo l’apparecchio Noblex, per inquadrare il Nanga, l’Indo e il contorno di terra e azzurro. Quando premo il pulsante, lo scatto non avviene e così pure anche dopo aver cambiato le batterie. Realizzata la piccola catastrofe, tornando al minibus, provo un’indicibile frustrazione. Guida e autista ci stanno aspettando e fumano tranquilli.
So che lascerò la macchina a Skardu, non esiste possibilità di ripararla da queste parti. Per fortuna pochi minuti dopo ci propongono di fermarci nel villaggio di Thalichi, dove da alcuni locali hanno saputo esserci una festa di matrimonio.
Flauti e tamburi ipnotizzano un centinaio di uomini disposti in circolo a battere le mani all’ombra di un gruppetto di splendide piante. Al fondo del cerchio erboso giace semisdraiato e immobile lo sposo, bardato con una lunga palandrana interamente ricoperta di banconote. Sembra il più ipnotizzato di tutti: almeno infatti gli altri battono le mani e incitano due danzatori che si muovono al centro del prato con leggeri passi e graziosi gesti delle braccia. Sul capo portano il berretto tradizionale baltì, nel cui risvolto noto altre banconote.
La musica si ferma per poco, il tempo che altri due danzatori scendano in campo, mentre quelli di prima consegnano le rupie che hanno nel berretto ai musicanti. Intanto gli altri incitano i nuovi, che ormai sono pronti e ben decisi a esibirsi: qualcuno rompe il cerchio per infilare altre rupie nei loro berretti, poi torna al suo posto. La montante eccitazione collettiva sembra non scalfire lo sposo, impassibile anche perché nessuno gli rivolge la parola.
Noi osserviamo la scena, indubbiamente ricca di energia e assai colorata: non possiamo però esimerci dal confidarci quanto profondamente maschile sia questa cultura, tanto da non ammettere la presenza della donna neppure al suo stesso matrimonio.
E questo succede esattamente nel punto geografico in cui le tre più grandi catene montuose della Terra s’incontrano. Infatti, poco oltre al villaggio, c’è una stele che ricorda questa curiosità e invita a guardare le estreme propaggini di Hindu-kush, Karakorum e Himalaya affondarsi nel bruno terrazzo fluviale di un padre Indo ancora giovane. Mi commuove la retorica delle scritte sul monumento, se penso alla sofferenza e ai lutti di chi ha costruito a mano questa strada e all’indifferenza con cui la maggior parte la percorre.
Askole, 14 luglio, ore 6.30
Dopo la confluenza nell’Indo del fiume che scorre nella valle di Hunza e di Gilgit (vero nodo geografico di unione delle tre catene), la valle diventa sempre più stretta e dirupata, se possibile. La strada s’insinua nelle radici dell’Haramosh, scavata nel fianco della montagna, i muri di sostegno costruiti con la pietra di risulta. I rari tornanti spezzano una sensazione di continuo precipizio, come pure le poco frequenti visioni sulle montagne innevate, come quella che, indimenticabile, si gode sul Diran da poco sopra Sissi. Mehfuz me lo scambia con l’Haramosh.
Una buona difesa alle soverchianti emozioni dovute alla consueta velocità è l’appisolarsi momentaneo, la testa ciondoloni, per riacquistare il senso del viaggio, della non-attesa e della non-meta, come quando a Gunner Farm, quattro case sperdute poco prima del Raikhot bridge, Mehfuz ci aveva presentato uno zio e due nipoti. L’autista faceva il pieno di gasolio, alcuni bambini vestiti di cenci ci guardavano curiosi, senza neppure osare di chiedere le solite penne.
– Questo è il villaggio dove la mia famiglia vive d’inverno.
– E d’estate?
– D’estate sono in alto, dalle parti di Fairy Meadows, sotto al Nanga Parbat, con gli animali.
– E tu invece dove vivi?
– D’estate lavoro come guida turistica e faccio base a Islamabad; d’inverno studio economia a Karachi.
– Perché così lontano?
– Lahore e Islamabad sono molto più care.
A Stak (o, meglio, dove la valle di Stak finisce) ci fermiamo per colazione. Ci sono quattro case che fiancheggiano un rumoroso torrente: due sono “hotel”, con tanto d’insegna. Entrati in quello di sinistra, ci conducono nel cortile sotto un grazioso e verde pergolato, con grappoli d’uva ancora acerbi pendenti sulle nostre teste. Siamo a circa 1800 metri, non sapevamo che la vite potesse sopravvivere a questa quota. E poco dopo, gustando dei buoni piattini di riso, pollo, dal e chapati, vediamo perfino una donna sedersi al tavolo vicino. Ha il viso scoperto, non sembra imbarazzata ed è carina. Poco dopo le si siede accanto un anziano (forse il padre?) che ha il dono d’essere elegante nella massima semplicità: vestito grigio, sandali marrone chiaro, berretto beige tradizionale baltì e soprattutto le mani, i rari movimenti delle quali asseriscono grande nobiltà. La barba bianca è curata e suggerisce rispetto, senza essere ieratica. I due scambiano qualche parola e negli occhi scuri della ragazza leggi l’amore per l’anziano compagno di viaggio.
Una delle molte soste fotografiche la merita un enorme e squadrato macigno, piazzato sull’altra sponda dell’Indo. Ormai siamo quasi alla piana conca di Skardu, le oasi e i villaggi sono più frequenti. Oltre il fragore del fiume, sulla cima del blocco alcune contadine rivoltano migliaia di albicocche, adagiate lassù per l’essiccazione, per noi una gradevole macchia di colore, per loro sostentamento invernale. Nei villaggi dopo, prima del ponte di Shangri-la, non c’è sasso o muretto o tetto che non sia ingombro di albicocche che profumano al sole del pomeriggio.
Dopo il ponte, l’Indo si allarga quasi a lago, le brulle montagne della chiostra di Skardu sono innevate in alto, i filari di pioppi si susseguono a delimitare una strada più rettilinea che fila verso l’aeroporto e le dune sabbiose che lo delimitano.
L’hotel Masherbrum, nuovo di pacca, presenta alcune vistose pecche strutturali, ma è gradevole. Ciò che non gli si perdona con facilità è l’assoluta mancanza di controllo delle diverse funzionalità nelle camere, dalla doccia al boiler, dalla mancanza di carta igienica alle prese di corrente che non funzionano. Occorre sempre avvertire la reception di ogni inconveniente e allora provvedono, in genere con sollecitudine ed entrando in camera senza bussare.
Appena preso possesso delle camere, la luce fuori è così bella che Franco e io decidiamo di farci accompagnare al Satpara Lake e al masso con il Buddha inciso. Una jeep ci porta rapidamente al lago, ma il sole è già oltre la cresta di montagne. E in più stanno costruendo un impianto per lo sfruttamento idrico del bacino naturale, così il cantiere non ci permette di trovare alcun ambiente idilliaco. Sapevamo essere già in ombra anche il Buddha, inciso su un masso erratico posto in una valletta a circa mezzora di cammino da Skardu. Venticinque anni fa con Robert Schauer avevo camminato tra i filari di pioppi, i canaletti dell’acqua e le case di sassi e fango. Oggi ci arrivo in jeep, preceduto da un gruppetto di studenti. Alcuni vandali hanno insozzato con scritte a vernice la parte bassa dell’incisione, alta circa 7-8 metri: il danno non è recente, perché in seguito è stato sistemato a protezione un recinto a filo spinato, oggi arrugginito e divelto, quindi inutile.
– Are you educated? – mentre estraggo la macchina fotografica.
– Which is your opinion on this country? – senza aspettare risposta.
– Which is your country? What’s your name? – mentre cerco l’inquadratura giusta.
Ci sono due possibilità: o sorridere e rispondere gentili alle domande (che comunque sono stereotipe, quasi una litania di pre-conoscenza) aspettando poi serenamente che la conversazione muoia di morte naturale; oppure tagliare subito, senza rispondere o facendo finta di non parlare inglese. Non so se sia peggio mostrare maleducazione oppure fingere interesse: trovo fastidiose entrambe le opzioni. Meglio sarebbe se l’interlocutore non ci fosse, ma ciò porta alla riflessione che questa è casa sua, non mia. E allora: che ci faccio io qui?
Sono anche arrabbiato perché per una mezzora di ritardo abbiamo perso la luce radente su questo scoglio d’arte lavorato ormai mille anni fa. Il Buddha Shākyamuni è in ombra e si prepara a dormire, come dovremmo fare noi, dopo una fine giornata così piena di piccoli eventi negativi. Magari, dormendo, ci passa.
Askole, 14 luglio, ore 19
Il 12 luglio è la giornata dei preparativi e degli accordi con Mr. Salim, direttore dell’agenzia Walji’s di Skardu. Oltre ad acquistare al mercato varie cose che ci serviranno per la nostra bonifica, vogliamo vederci chiaro sul tipo di gestione rifiuti di questo luogo. Dobbiamo insistere per visitare il luogo dove la spazzatura cittadina viene “smaltita”. Poi riusciamo a convincerli che è importante sapere cosa avverrà dei rifiuti non metallici che riporteremo dal Baltoro. La gita alla discarica è desolante. Usciti dall’abitato e percorso neppure un chilometro per una viuzza sabbiosa, oltre a un muretto di cinta appare l’Indo, proprio sotto al versante occidentale della montagna con il vecchio forte che sovrasta Skardu. Proprio ora arriva un trattore, con un rimorchio carico di rifiuti. A bordo sono tre addetti con tanto di giacca gialla in tela cerata e con la scritta dell’azienda municipale. Intorno, disposti a distanza regolare tra loro e minima dal livello dell’acqua, decine di mucchi maleodoranti attendono non di essere bruciati, come pensavamo, bensì di essere travolti dalla prossima piena.
I tre intanto, prima di scaricare, si tolgono le giacche: mentre due spingono con le pale la massa puzzolente in modo da liberare il rimorchio, l’autista si reca a pelo dell’acqua e si dedica a un accurato lavaggio delle casacche gialle, strofinandole e sbattendole sui sassi semisommersi nella fanghiglia e nelle frange della spazzatura putrescente.
Se questo è lo smaltimento “normale”, meglio non averci a che fare. A tempo debito vedremo come. Non è stata quindi una visita inutile, meglio saper prima quali saranno le difficoltà. In giornata troviamo modo di girare nel bazar, capitando tra l’altro in una mezza tempesta di polvere, qui abbastanza frequente a quest’ora; visitiamo una fiera locale con alcuni banchetti espositivi di un certo interesse anche per noi. Ricordo per esempio una galleria di lavori fatti dai bambini sull’idea che loro hanno di varie cose, dal sistema solare alla televisione, dal telefono al corpo umano.
Infine, la partita di polo: in una lunga striscia erbosa costeggiata da gradinate e pioppi, allorché la calura del pomeriggio diminuisce, ecco convenire i cavalieri a disputare la tenzone. La gente accorre da ogni dove per fare il tifo, ci sono perfino tamburi che rullano a ogni momento emozionante, quando per esempio un cavaliere va in fuga, in contropiede verso la porta avversaria. Le mazze sono di legno e lunghe quanto basta per colpire anche cavalli e cavalieri della squadra opposta. Se ho capito bene non c’è traccia di arbitro, vale tutto al punto che più volte vediamo fantini a terra. La pallina, quando colpita, vola fulminea: vedere come i cavalli obbediscono agli ordini del cavaliere fa pensare che siano un tutt’uno con lui, una prolunga fremente e scattante della volontà umana, come al Palio di Siena, come nelle steppe del buzkashi.
Askole, 15 luglio, ore 12
Franco non sta bene, il dentro e fuori dell’aria condizionata è responsabile di mal di gola e febbre. Così decide di non partire con noi il 13 luglio. Ci raggiungerà approfittando del prossimo gruppo di italiani che lascerà Skardu il 15. Meglio rimettersi in forma in una camera d’albergo che in tenda. Ci teniamo in contatto con il satellitare.
La partenza è regolare, senza storia. La strada è asfaltata per pochi km, fino al bivio per Kapalu, quando un cartello ci avvisa che per Askole sono 102 km. Dopo il ponte sull’Indo e superato il rilievo dello Strongdokmo La, scendiamo nella valle di Shigar. Da qui in poi il passaggio degli autocarri è impossibile e la stretta strada è solo per le jeep. Con Messner avevo incominciato a camminare poco prima di Dassu 2505 m e da lì per raggiungere Askole c’erano voluti due giorni, stando sempre sulla destra idrografica e oltrepassando vari villaggi. Con stupore mi accorgo che invece la carrozzabile è stata tracciata, da Apu Ali Ghaon 2590 m in poi, sulla sinistra idrografica, per riprendere la destra solo a Thongal. La strada è davvero ardita in più punti, spesso incontriamo squadre di operai al lavoro. Nel bel mezzo di un enorme pendio franoso a picco sul lontano fondovalle dobbiamo fermarci perché alcuni grossi blocchi impediscono la prosecuzione. Una mezza dozzina di uomini si affanna a sgombrare, altri ricostruiscono il muretto di sostegno (e bisognerebbe che lo facessero legati e assicurati). La visione è così dantesca da farci dimenticare il disagio dell’intoppo e quindi del ritardo. Un macigno in particolare è davvero enorme e occorre minarlo. Assistiamo alle operazioni dell’artificiere che in breve dà ordine a tutti di allontanarsi. Da una cinquantina di metri lo vedo accendere la miccia e correre via. Poi, il botto, il polverone, il blocco in cento pezzi. Un altro frammento di roccia distrutto, un altro pezzettino di mio cuore in frantumi.
Ad Askole ci attende un campo fisso e un gruppo di trekker del CAI appena arrivati da Juhla. Sono con le guide Claudio Rosset ed Eugenio Testa. Il campsite è sistemato a nord e a monte del paese, un agglomerato di casette di sassi e fango, assai simili alle tibetane, ma caratterizzate da maggiore sporcizia e totale convivenza con gli animali. Qui, specialmente d’inverno, non è alcuna differenza tra stalle e abitazioni. Il tanfo invade le viuzze e scoraggia qualunque visita di cortesia o curiosità. Anche perché le donne si girano quasi sempre dall’altra parte. Codazzi di bambini chiedono con insistenza “pictures, rupees” che vuole dire “se mi dai soldi mi lascio fotografare”, oppure “sweet”, oppure ancora “pen, pen”.
Il campo è all’interno di un terreno privato, di proprietà di Hussain Haji Mahdi, l’uomo più rispettato del paese perché “pellegrino alla Mecca”, che è il significato del titolo “Haji”.
Un cancello immette in un cortile con al fondo una costruzione in pietra (adibita a magazzino e ben lucchettata) e al centro un pozzo d’acqua lurida. L’acqua qui è corrente grazie a un piccolo acquedotto, vedo un aitante giovane lavarsi a torso nudo con l’aiuto di un tubo di gomma. Scoprirò essere la guida valdostana del gruppo di italiani.
Le jeep parcheggiano nel cortile, maleodorante a causa del rivolo di scolo della cucina del campo, e tardano a spegnere il motore. Poco oltre il valdostano che si lava, vicino ai cessi, figurano due mucchi di spazzatura nel bel mezzo di un boschetto. Il campo è immerso nel verde, ci vorrebbe poco a tenerlo bene e farne un luogo quasi idilliaco. Delle latrine, una è in muratura con turca e da tempo non riceve una secchiata d’acqua liberatoria; la seconda è una struttura in vetroresina gialla, al cui interno troneggia un water inavvicinabile; la terza è una tenda blu che cela una buca nel terreno dì insospettabile profondità. Nel frattempo, a mo’ di allegro benvenuto, qualcuno dà fuoco ai due mucchi di spazzatura, con l’aiuto di generose quantità di kerosene. Sulla sinistra del cortile, a contraltare dei fumi nerastri del rogo immondo, si alzano altri fumi dalla cucina, un tendone enorme che funge da laboratorio culinario e da dormitorio per il cuoco e i suoi aiutanti. Nelle terrazze superiori, ombreggiate dai salici, due file di tende blu colorano il boschetto e alloggiano ciascuna due trekker, che in questo momento si godono relax e toilette personale. Prendiamo possesso delle nostre tende e anche per oggi ne abbiamo abbastanza.

Dalla notte dei miei tempi più passati emerge la figura inossidabile di Marziano Di Maio, con moglie Lorella, un nobile piemontese appassionato di cime e di grotte. Lo trovo impegnato in un appassionante torneo di scopone, riesce a vedermi dal fondo delle sue spesse lenti e mi saluta con calore.
A cena, chiacchiere varie con gli italiani, ognuno con pareri diversi sull’avventura appena vissuta. Uno di loro, fuori dalla tenda mensa, mi chiede se so riconoscere qualche stella. Io non vado al di là delle Orse. Allora lui mi mostra il triangolo estivo, con Deneb (la coda del Cigno), Antares e un altro astro ancora. Un modo come un altro per leggersi a vicenda dentro e scoprirsi affini, oltre alle parole.
Askole, 15 luglio, ore 14
Lo sconsolante esame delle condizioni del campo ci ha indotti a fermarci qui anche il 14 luglio. Purtroppo non ci accorgiamo che con la partenza in jeep del gruppo scompare anche il responsabile del campo, diretto a Skardu per acquisti. Tornerà il giorno dopo, pertanto decidiamo di fermarci anche il 15, consentendo a Franco di raggiungerci.
Spieghiamo a Mehfuz che non abbiamo l’autorità di pretendere eventuali cambiamenti nella gestione dei campi, anche perché dobbiamo fare un report telefonico sull’osservanza o meno del protocollo ambientale che il CAI ha concordato con Trekking International e con Waljs’s. Cerchiamo di spiegare che una cosa è la pulizia di oggi o domani del campo, altra cosa è la raccolta rifiuti, altra cosa ancora è il loro smaltimento. In questo momento due miserandi bidoni di plastica alloggiano ogni tipo di rifiuto, mentre occorre distinguere tra ciò che si può e si deve bruciare, ciò che è rifiuto metallico e infine medicinali e batterie. Accanto ai cessi, tra quello giallo del MGPO e il nostro blu è un altro grosso bidone in vetroresina gialla, con un’apertura superiore e uno sportello inferiore. Dentro è davvero di tutto, ma ciò che più nausea sono le parti non commestibili dei polli, zampe e ali piumate. Il fetore è insopportabile.
Con un pennarello scriviamo su uno dei due bidoni che è riservato solo a carta e involucri, no batterie, no medicinali. Nell’altro mettiamo solo metallo e plastica. Ordiniamo di scavare una buca nel boschetto dei roghi, adibendola quindi a forno crematorio dei rifiuti vari, primi fra tutti quelli del bidone giallo, che disponiamo venga riempito e svuotato giornalmente. Questo lavoro è svolto da due uomini che probabilmente verranno con noi ma che ancora non sono stati reclutati da Mehfuz per via della trattativa sul compenso, ancora non conclusa.
Il nostro cuoco è un simpatico e giovane hunza di nome Sahid: è lui a occuparsi di pulire la cucina, che infatti a fine giornata avrà tutt’altro aspetto di prima. In seguito, su mio ordine, approfondisce a colpi di vanga il canale di scolo che è troppo superficiale e non permette all’acqua di defluire fuori dal cortile, dove scorre il rigagnolo che attraversa il paese. Questo ruscelletto è temporaneo, nel senso che vi scorre acqua solo quando, alla fine della mattinata, tutti i campi terrazzati al di sopra del paese sono stati irrigati. È la fogna del paese. A questo aggiungiamo una più accurata pulizia del campo, via le cartacce e le plastiche svolazzanti e mano alle spazzole che solleva tanta polvere, restia a ridepositarsi sul terreno.
In questa serie di provvedimenti è spossante far capire cosa esattamente vogliamo. Quest’obiettivo è già in partenza impedito dall’assenza del responsabile del campo. Le nuove norme per la differenziazione dei rifiuti possono essere efficaci solo con la sua collaborazione. E per questo vedremo domani. Nel frattempo ci appare del tutto improbabile che i rifiuti metallici dei singoli campi vengano da Walji’s trasportati a Skardu a fine stagione. Quindi dovremo farcene carico noi stessi, a dispetto degli accordi.

Il caldo del primo pomeriggio, nonostante il cielo nuvoloso, ci costringe a una pausa, complice l’abbondante lunch. Mi ritrovo a russare in tenda e quando mi alzo sono ancora più fiacco. Decidiamo di fare un giro al dispensario intitolato a Lorenzo Mazzoleni, il giovane lecchese scomparso sul K2 nel 1996, dopo averne salito la cima. Lì si lamentano d’essere praticamente senza medicine, finite nei giorni scorsi. Aspettano con ansia il ritorno di trekking e spedizioni per essere riforniti.
Ci stupiamo che l’organizzazione di Agostino Da Polenza, regista dell’attuale megaspedizione del Cinquantenario, non abbia provveduto a rifornire adeguatamente il dispensario, come invece recita trionfale la pagina internet di Montagna.org dedicata a questa iniziativa umanitaria: e ci riserviamo di chiedere lumi in proposito.
La sera il sole si fa strada e illumina Askole, i suoi meravigliosi campi verdi e le montagne del gruppo del Mango Gusor: una vista che ci riporta in pace. Mario e io nel pomeriggio ci eravamo confidati che, tutto sommato, e per diversi motivi, non siamo felici d’essere qui. Ma non disperiamo d’esserlo, tra qualche giorno, magari domani…
La sera ceniamo con tre lituani, uno dei quali ci chiede il favore di usare il satellitare per sapere se suo padre, operato quel giorno a Vilnius, era vivo o morto. E veniamo a sapere dalla madre che l’intervento aveva avuto successo.
Askole, 15 luglio, ore 15.30
Il mattino abbiamo la lieta sorpresa di vedere Tiziana parlare con i portatori che le dicono che noi siamo italiani. Lei è appena arrivata a cavallo da Korophon, tra poco arriveranno anche Angelo e Alessandra. Allegria e spontaneità colorano la monotonia: è letteralmente entusiasta, stanca e felice di essere stata al campo base del K2, ci racconta quasi a dirotto la sua voglia di parlarne, di condividere con altri un’estasi che può essere veramente l’esperienza più bella di una vita.
Vestita con pantaloni e camicetta bianca, non riuscirò a vederle gli occhi nascosti dietro a occhiali scuri. A Urdukas stava poco bene, ma era così debole da dover noleggiare un cavallo dell’esercito, con relativo addetto alla briglia, per i tre giorni che la separavano da Askole. 400 dollari, più mille rupie di mancia al soldato, secondo noi un vero furto.
– Dopo tre giorni a cavallo, su un percorso del genere, avrai il culo rotto, scusa l’espressione…
Tiziana non sembra cogliere alcunché d’offensivo nella mia esclamazione e si limita ad annuire sorridendo.
– Ed era la prima volta che salivo a cavallo…
– Beh, allora sei stata veramente brava, un mito!
A quel punto arrivano Angelo Schena, il presidente del CAI di Sondrio e Alessandra, novella sposa di uno dei Confortola che in questo momento stanno tentando di salire il K2 con la spedizione Da Polenza. Anche loro fibrillano entusiasmo da tutti i pori, Angelo addirittura sostiene che oggi, passando alla fronte del Biafo Glacier, avrebbe quasi voluto risalirlo e riscendere nei paesi hunza per l’Hispar Glacier.
Ci dispiace che partano subito, ma questo è il loro programma: così, dopo i consueti scambi di indirizzi e-mail e le promesse di cene valtellinesi, prendono commiato.
A me e Mario non rimane che fare una gita ai campi inferiori di Askole, vedere come sono organizzati. Scendiamo per la jeppabile il risalto del terrazzo morenico su cui appoggia il villaggio e ci troviamo su un altro terrazzo, sabbioso e brullo, direttamente a picco sul Braldo. Il primo gruppetto di tende è quello della Focus. Notiamo subito la mancanza della tendina-cesso, oltre a constatare che la totale mancanza di verde e di alberi fa di questo luogo un soggiorno non piacevole. E d’altra parte Walji’s ha impegnato ogni area disponibile in alto.
Un altro gruppo di tende, nuove di zecca, con una bellissima tenda mensa e una cucina assai ordinata, è targato Jasmine Tours. Poco lontano si erge, isolata, l’obbligatoria tendina per i “servizi igienici”. L’insolazione è garantita comunque. Per il ritorno scegliamo la vecchia mulattiera, all’inizio della quale alcuni militari vigilano su un deposito di carburante, file di grosse taniche al sole. A venti metri dalla costruzione militare è la discarica, annunciata a distanza da un fetore nauseabondo.
È il primo deposito che vediamo, ma se la sorte del conflitto India/Pakistan per alcune montagne e qualche ghiacciaio dipende anche da questa installazione, allora la latente stupidità di questo conflitto, se c’era bisogno, appare ancora più evidente.
Askole, 15 luglio, ore 23
Tornati al campo c’incontriamo con Mehfuz e lo preghiamo di concludere la trattativa per i collector. Al campo militare avevamo infatti incontrato Mohammad, uno di quelli che ieri avevano fatto la pulizia del nostro campo. In un inglese stentato ci aveva fatto capire che lui sarebbe venuto volentieri con noi, ma che ancora non si era messo d’accordo con Mehfuz. Questi gli aveva offerto 180 rupie al giorno, ma lui normalmente ne prende 200. Che per 50 giorni fa 10.000 rupie, pari a 143 euro. Mario e io sappiamo che Walji’s ci chiede 540 euro per un portatore/collector, quindi quasi quattro volte di più. Perciò abbiamo deciso di dare battaglia: non vogliamo che Mehfuz assoldi quattro qualsiasi all’ultimo momento, anzi vogliamo che scelga con giudizio.
– Capito, Mehfuz? Vogliamo fare una squadra. Per favore non ingaggiare quattro qualsiasi. Devono avere buona volontà e gli devi spiegare bene quello che andiamo a fare.
– Ho capito, ho capito. No problem.
– Quando li avrai ingaggiati me li devi presentare – insisto – Voglio conoscerli subito, sapere i loro nomi e dargli i guanti da lavoro, non come un regalo, ma come una specie di divisa.
Il capo-campo nel frattempo è tornato, Mario lo istruisce per tutti i cambiamenti decisi in sua assenza. Nel frattempo mi dedico alle radio, una delle quali sembra sia da resettare: non capendoci io niente, mi affanno sui manuali (sono di due marche diverse) ma approdo solo a far sì che una trasmetta all’altra (e l’altra continua a non trasmettere all’una).
Nel frattempo arriva il gruppo degli italiani come da programma e con esso anche il nostro Franco, che sta decisamente meglio. Facciamo conoscenza con le guide, una delle quali riesce smanettando (e a suo dire del tutto casualmente) a eliminare l’inconveniente.
Poi ci convoca Mehfuz, dice di avere i quattro uomini a disposizione. Ci vengono presentati uno per uno, Mohammad Ibrahim, Mohammad Bashir, Hulam Hassan e il più giovane, Susgiat. Sono tutti di Kapalu, lo stesso villaggio di Rosalì. Questo era il mio cuoco nella spedizione Messner del 1979, un elemento davvero intelligente che poi Reinhold volle sempre con sé nelle sue successive spedizioni in Baltoro. L’avevo anche incontrato di nuovo nel 1985 a casa di Friedl Mutschlechner, a Brunico. A quel tempo Friedl lavorava come guida nella scuola di alpinismo di Reinhold. E Rosalì era stato invitato in Europa per amicizia, e per presentarlo in alcuni ambienti alpinistici tedeschi e austriaci. Era stata una bella serata, gonfia di emozioni. Nessuno avrebbe pensato che di lì a poco tempo Friedl avrebbe perso la vita sul Manaslu.
Tutti e quattro conoscono Rosalì, e questo me li avvicina di più. E dicono che ora Rosalì è al campo base del K2 e fa servizio per i sud-coreani che stanno facendo la cleaning expedition sullo Sperone degli Abruzzi.
Il fatto poi che siano tutti di Kapalu mi allieta e tranquillizza, perché credo che siano affiatati tra di loro, sia pur con le loro gerarchie, il che significa meno gelosie e problemi, almeno in teoria. Quindi consegno loro i guanti di robusta pelle e gli spiego che dovremo sempre usarli durante il lavoro, perché non voglio che si facciano male.
– Yes, sir. Thank you, sir.
Che sostituisce ormai il più locale e vecchio “Tike, sahib”.

Juhla, 16 luglio
Ci aspetta una tappa grossolanamente piana, con saliscendi sul terreno sabbioso delle terrazze detritiche. Ci si potrebbe aspettare monotonia, ma le sagome sempre cangianti del Bākhor Dās e delle altre montagne non lo permettono. L’immane colata di rocce e ghiaccio coperto del Biafo Glacier nasconde il bianco bacino sovrastante che porta all’Hispar La, accesso alto all’Hispar Glacier e a Nagar, nella regione hunza. A destra si scorgono due seimila, il Bullah 6294 m e il Dongbar 6282 m. Peccato che questi bellissimi picchi innevati, con creste assai movimentate a risalti e torrioni, nascondano gli ancora più imponenti Latok (dall’I al IV) e il Baintha Brakk 7285 m.
A Korophon, nella totale desolazione, qualche albero e qualche pozzanghera invasa dai rifiuti circondano un casottino in pietra che fa da spaccio bibite e cibo. Un semidivelto cartello del Central Asia Institute avverte dal 1998 che da quella parte c’è la latrina dei portatori: ma questa sembra svanita nel nulla. Vicino allo spaccio, verso il Braldo, una piccola discarica. Sto già pensando come fare per raccogliere almeno le lattine, quando Mehfuz con fare autoritario convoca il custode e lo avverte che se al nostro ritorno non troveremo tutto pulito denuncerà la cosa al governatore di Shigar. Il giovane baltì s’impaurisce, promette di farlo e acconsente anche a firmare, con il pollice annerito d’inchiostro, una dichiarazione in tal senso. Mehfuz la scrive in urdu, per rendere ben ufficiale il monito e quindi ottenere lo scopo.
È un’idea geniale, devo ammettere. Gli lasciamo anche un sacco di juta sintetica che lui possa riempire di lattine schiacciate, che noi recupereremo al ritorno.
Prima di entrare nella valle laterale del Dumordo River, un tratto della mulattiera è stato costruito troppo basso ed è attualmente invaso dalla forte corrente del Braldo. I più arditi tra i portatori passano con 30 kg arrampicando, i piedi su appoggi fangosi e viscidi, le mani su rocce terrose. Noi preferiamo una variante alta, un po’ esposta ma molto più facile e sicura. Poi ci appare, sull’altra riva del Dumordo, il campo di Juhla con le sue tende colorate. Procediamo oltre, fino a trovare il ponte sospeso e poi raggiungere il campo.
Da qui il Bākhor Dās 5809 m è una specie di Cervino visto da Zermatt: forse s’intravede il Mango Gusar 6288 m, ben posteriore e sullo spartiacque con la valle di Hushe. Probabilmente Fosco Maraini ha confuso le due montagne nel suo insuperato G4, descrivendo come “becca ricurva” il Mango Gusar che invece è nascosto.
Il campo, gestito dalla MGPO (Mountains and Glaciers Protection Organisation) e realizzato con l’aiuto dell’esercito dalla volitiva Mrs. Aisha Khan, si presenta come un oggetto quasi alieno a queste terre. Terrazze sabbiose per le tende, terrazze per tenda mensa e cucina. File di bagni grigi divisi da quelli per i portatori, locali doccia, bidoni per la raccolta differenziata e perfino globi per l’illuminazione notturna. In una costruzione in muratura alloggiano quattro sorveglianti e gestori.
Questa disposizione ordinata di servizi qui del tutto inusuali, assieme ai colori delle tende, contrasta non spiacevolmente con il solito ambiente desertico circostante, con la violenza selvaggia del Dumordo e con l’elegantissima forma dell’incombente Bākhor Dās, che tutti si chiedono se sia stato mai salito. Ed è pure curioso che questa moderna installazione sia posta proprio all’inizio di una lunga e antica via di comunicazione, quella che congiunge Skardu/Shigar con Yarkand, attraverso l’Old Muztagh Pass: oggi abbandonata, dopo la costruzione della Karakorum Highway.
Questa sera, alla faccia del risparmio delle batterie, ho deciso di telefonare a Guya che, in vacanza all’Isola d’Elba dall’amica Simonetta, si chiederà se sono vivo o morto. Il telefono satellitare, quando fa un po’ fatica per via delle valli strette e incassate, produce quelle strane sensazioni di vuoto d’ascolto che non fanno bene alle emozioni. Siamo però davvero contenti di parlarci, la sento sempre vicina anche se triste per la vera lontananza. Anch’io sono un po’ mogio per lo stesso motivo. Stiamo proprio bene assieme e qualunque evento ci neghi questa gioia diventa un po’ nemico.
Al campo, oltre ai 26 italiani, siamo noi tre assieme a sette austriaci e una quindicina di francesi. I portatori bivaccano vicino ai loro fuochi, poi per la notte si ritireranno in alcune apposite casupole.
Prima di cena facciamo un po’ di pulizia assieme ai nostri collector: il campo è ben tenuto, ciò nonostante nei dintorni sono ancora rifiuti vecchi, roba volata via tra i cespugli di burtsé, o ammucchiata prima che Juhla diventasse un luogo tappa importante. Bruciamo una cinquantina di kg di carta, cartoni e plastica: teniamo da parte i barattoli. Domattina continueremo: i ragazzi di Kapalu sono bravissimi e imparano in fretta il mestiere di spazzini delle montagne.
Bardumal, 17 luglio, sera
Senza che io debba ordinarlo, al mattino i ragazzi sono già al lavoro per ripulire con cura l’area riservata ai bivacchi dei portatori. Sorridenti, arrivano a chiedermi dove fare il fuoco e nello stesso tempo mi fanno vedere le lattine raccolte e tenute da parte. Mandiamo al rogo altri 50 kg di roba bruciabile poi, mentre uno sorveglia e rimescola il fuoco, spedisco gli altri a raccogliere le lattine buttate dagli addetti del campo nella costruzione in pietra che fa da forno inceneritore. Nel frattempo Mehfuz istruisce il guardiano e gli addetti riguardo a ciò che noi desidereremmo trovare al nostro ritorno, le lattine raccolte e messe da parte, così come le batterie.
I collector pensano di aver finito e già qualcuno si sta avviando a prepararsi per partire. Ma io li faccio richiamare e spiego che non possiamo lasciare lì i sacchi di juta, così abbandonati, sia pure in ordine. Dobbiamo dare un esempio completo agli addetti del campo. Così li costringo a rovesciare sul terreno i sacchi per poter schiacciare una per una le lattine e gli altri metalli in modo da ridurre il volume e sistemare tutto in un sacco solo. Finito questo lavoro prego Mehfuz di scrivere con il suo pennarello “Bag nr. 1”, una specie di cerimonia che sicuramente fa il suo effetto.
Francesi, austriaci e perfino gli italiani sono partiti da due ore quando anche noi ci avviamo. Siamo solo Mario e io, perché Franco, data la sua maniacale procedura di fotografare qualunque cosa si muova o stia ferma, ci aveva anticipati di un’oretta.
Payu, 18 luglio
Nella nostra marcia affronto il tema “fischio all’orecchio” di Franco. Il giorno prima ne avevo parlato con lui, perché anch’io dal settembre 2003 soffro di acufene. Mi sono deciso a fare vari esami prescritti da un otorinolaringoiatra, ma sono partito prima di poter leggere al prof. Gaini il referto della risonanza magnetica nucleare.
Il mio timore è di avere un tumore al cervello…
Franco ne soffre dal 1989 e, nella sua lunga storia con varie labirintiti, nel suo caso hanno escluso il tumore.
Quello che vorrei capire è perché nel settembre 2003 mi è successo questo; così sono curioso di sapere quali stress ha subito Franco nel 1989. Mario pensa che sia stato proprio quello il periodo in cui Franco ha preso la decisione di vendere l’azienda paterna. La non necessità di vendere a padre deceduto, la motivazione non del tutto responsabile e il parere contrario della moglie Ann sono state di sicuro cause di grande travaglio interiore. Vendere l’azienda paterna va bene se c’è un reale motivo economico. Quando invece lo si fa perché dentro di noi sentiamo l’esigenza di non avere responsabilità e di essere liberi di girare il mondo, giungere all’effettiva decisione può comportare grossi costi psicologici (nei confronti della potente figura paterna). Mario mi confida anche che, con un padre energico e volitivo e con un nonno praticamente eroe nazionale finlandese, Ann di certo non deve aver approvato quella decisione.
Per ciò che riguarda i miei stress, non riesco a focalizzare alcun elemento utile: nessun sogno, nessun fatto specifico, nessun evento. Posso solo dire che nell’estate ’03 era stato chiuso un periodo importante della mia vita, i nove anni di lavoro ai Grandi Spazi delle Alpi. Parzialmente responsabili della separazione dalla madre delle mie due figlie, non voluta, non cercata, ma ineluttabile.
Eppure mi sembra di aver fatto passi avanti, di essere maturato. Le figlie, volute e cercate, avevano provocato in me nei primi loro mesi di vita il malessere di nuove scelte, l’opzione era quella di essere un padre inesistente, oppure abbandonare il mio lavoro che solo così, con le mie frequenti assenze fisiche, poteva essere svolto. La difficoltà di essere padre era davvero forte per uno come me. Poi ci sono stati cambiamenti graduali, fino all’odierna situazione, che tutti quelli che mi stanno attorno e che mi vogliono bene riconoscono come ottimale. Dicono che sono davvero un buon padre e io mi commuovo ogni volta che mi esprimono questo giudizio. Perché non mi sembra vero, tanto è stato difficile accettare di essere padre a tal punto da essere felice. Voglio dire felice di poter incarnare una vera figura paterna; contrariamente ad altri padri, magari più di me affettuosi e premurosi, ho avuto la fortuna di poter dare un amore diverso alle mie figlie, sostanzialmente diverso da quello della madre.
E se tutto questo si è verificato, i responsabili non siamo solo noi. Guya, cui devo questi quasi cinque anni di vita serena e felice (pur nei soliti stress lavorativi) ama Petra ed Elena come sue figlie ed è da loro riamata in modo commovente. Assieme siamo stati tante volte, in paesi austriaci e svizzeri sempre diversi, d’estate e d’inverno. Settimane verdi e bianche indimenticabili, con tanti piccoli e grandi aneddoti che ogni tanto ricordiamo tra di noi e che ci terranno uniti per sempre. Magari un giorno ne scriverò.
Dunque perché questo fischio, se tutto va bene?
La convivenza con quelli del trekking si va facendo ancora più piacevole. Ci sono figure di ogni tipo. Ugo Sora, che fu gregario di Eddy Merckx, ci fa crepare dal ridere con i suoi racconti di segregazione sessuale durante la sua carriera di ciclista professionista. Cristina, scrittrice fiorentina che vive a Roma, è una marziana del trekking, ammira tutto ciò che è organizzato, vive in una dimensione surreale, ma è spiritosa e autoironica; Lara, altra fiorentina, andiamo scoprendola pian piano; e poi l’esperto di botanica, il geologo, l’ingegnere geologo francese che lavora a Bergamo e via via tutti gli altri, anche una simpatica coppia di Bari. E naturalmente le guide, Andrea Ghiardi, di Ivrea, e Marco Seghezzi, di Aosta.
Nel pomeriggio, rintanati in tenda, avevamo subito una tempesta di sabbia. Questa entrava dappertutto, quindi anche nella mia tenda, la più “inchiudibile” a causa dello stato miserando delle cerniere. Sabbia negli obiettivi fotografici, nel sacco piuma, tra le mutande. Che Bardumal fosse il posto più ventoso ce lo avevano detto… Per fortuna nella notte piove un poco, così il vento non solleva più la sabbia umida.
L’allegria generale continua anche la mattina dopo, visto che tutti stanno bene e l’appetito non manca. Ci sono raffiche di battute, sul cibo, sui nostri pakistani, su noi stessi. La marcia per Payu è varia per le nuvole che corrono sulle montagne che appaiono e scompaiono, per il fiume che ci tiene compagnia. Un guado è particolarmente emotivo, non tutti si ritrovano dall’altra parte con gli scarponi asciutti. Payu ci accoglie con i suoi pioppi più belli, ancora abbastanza vuota. Nel pomeriggio si riempirà di tanti altri gruppi, in prevalenza italiani.
Payu è sempre affollata perché è invalsa l’abitudine di fermarsi qui due giorni, quando si sale, per acclimatarsi alle quote più alte che in seguito dovranno essere affrontate.
I nostri quattro collector si mettono al lavoro senza che neppure dobbiamo dirglielo. Ne approfitto per lavarmi e fare un po’ di bucato.
Khuburse, 20 luglio
Il giorno di riposo a Payu scorre sereno. Il gruppo ne approfitta per fare un salto alla fronte del Baltoro, noi stiamo fermi a sorvegliare la continuazione della pulizia e a impostare con il capo-campo la raccolta delle lattine e delle batterie.
Incontro Bernard Vaucher, famoso alpinista francese dall’attività stupefacente. Chiacchieriamo di montagna, di Dolomiti, della morte di Georges Livanos, suo grande amico. Sa tutto, ha letto tutto, anche in italiano; m’invita a Marsiglia a scalare nelle Calanques e credo che accetterò l’invito, prima o poi. Un entusiasta che, nonostante l’età non più verde, non ha perso nulla del suo smalto.
Poi è la volta di Monika Rogozińska, una polacca bionda sui 48-50 anni, famosa cronista di spedizioni. L’inverno ’02-’03 l’ho seguita su internet, era la corrispondente in loco della spedizione kazako-polacca al versante nord del K2, nel tentativo di salirlo in prima invernale.
Anche Monika sa tutto, anche lei vuole andare a fondo delle cose: è radicalmente ottimista (forse per il suo passato di perseguitata politica), vorrebbe impegnarsi in qualche progetto per la gente di questa valle. Ma credo le interessi anche il lato interiore, la psicologia dell’alpinista. Memoria storica dell’alpinismo polacco, femminile e maschile, riesce a situarne l’esperienza globale in modo davvero oggettivo nella storia. Forse le manca solo l’esperienza in prima persona, ma in certi casi sembra inutile.
Poi succede ciò che ci auguravamo, l’incontro con Aisha Khan.
Questa signora, moglie dell’ambasciatore pakistano in India, è un vero mito, per noi che abbiamo seguito il suo operato e per i portatori che la adorano. È lei che dirige il MGPO, una ONG che ha come scopo l’evoluzione turistica delle valli del Pakistan per favorire lo sviluppo sociale delle popolazioni. Per questo le agenzie turistiche non la vedono di buon occhio, mentre la gente è dalla sua parte. È lei che ha fatto costruire, con il denaro dell’UNDP e con la mano d’opera dell’esercito pakistano, i tre campsite della valle del Baltoro, Juhla, Payu e Urdukas. È lei che assieme al Central Asia Institute (dell’americano Greg Mortenson) ha realizzato le prime bonifiche del Baltoro, poi continuando da sola con le forze del MGPO.
Nei mesi precedenti la nostra partenza Mario era stato in contatto con lei via e-mail. Entrambi eravamo ansiosi di conoscerla, anche per vedere quanto potevamo collaborare assieme, sia per questa vicenda che per futuri progetti. A Islamabad il contatto non c’era stato per un soffio e si era rimandato l’incontro al Baltoro.
Al suo arrivo al campo la totalità dei portatori (almeno due centinaia) si è precipitata a vederla, facendo ressa attorno alla casetta-ufficio in cui lei si è quasi subito ritirata. Wazir Jaffer Shigzi ha un bel daffare a tenerli a distanza. Per lei il primo problema è la corrente elettrica, che al campo manca da un po’ di giorni, causa un’avaria all’impianto di pannelli solari. Giovanni, il nostro ingegnere elettronico, in mattinata aveva esaminato, senza alcun strumento, l’impianto: aveva sentenziato che l’inverter era “partito” e che forse c’era anche un danno al regolatore di tensione. Con un accrocchio era riuscito a combinare una ricarica, con però il più cupo pessimismo sulla durata dell’efficienza di un tale sistema. Dopo aver ascoltato la relazione ufficiale sullo stato dell’illuminazione, la signora Khan va a farsi un meritato pisolino, con l’impegno di incontrarci alle 17.
Urdukas, 21 luglio
All’incontro ci accompagna Mehfuz. È Mario che conduce l’intervista, dopo le presentazioni. Non ho preso appunti, non sono in grado di ricordare perché ascoltavo con il sentimento. Ci ha raccontato la storia dei tre campi funzionanti, di come all’inizio lei si fosse appoggiata al Ministero del Turismo e a quello dell’Ambiente. Di come non avesse cavato un ragno dal buco per due anni, di come alla fine si sia decisa a rimboccarsi le maniche, abbia fondato l’MGPO, trovato i fondi e finalmente anche l’aiuto dei militari.
Ci racconta di come la zona del Baltoro sia già sulla carta un parco, il Central Karakorum National Park. Ma davanti la strada è ancora lunga perché possa esserlo davvero. L’MGPO ha in programma di costruire un camping site ad Askole, ma non nel villaggio, bensì sotto. La gente di Askole non è contenta che centinaia di portatori si affollino tra le case e brucino la poca legna a disposizione. Ci vuole un campo organizzato, in cui i portatori possano cucinare e bivaccare con l’aiuto del kerosene. Le entrate per l’uso del campo (come anche quelle provenienti dagli altri tre) andranno a beneficio dell’MGPO e della popolazione, per la costruzione di scuole, per gli insegnanti, per l’illuminazione e altri progetti educazionali.
Altro disegno è quello di sorvegliare ad Askole l’ingresso di trekking e spedizioni, per pesare ciò che entra e ciò che esce. Chi non riporta indietro i rifiuti dovrà pagare di conseguenza: questa era una vecchia idea di Mountain Wilderness, presentata al Ministero del Turismo pakistano ben più di dieci anni fa, dopo l’iniziativa Free K2. E siccome verranno costruiti anche due campi nella valle di Hushe, anche quelli che escono dal Baltoro per il Gondogoro Pass verranno pesati.
Aisha Khan sa quello che vuole e lo vuole. Dal disegnare lei stessa le toilette dei campi, con l’astuta soluzione di far convergere le deiezioni di due bagni in una sola fossa svuotabile con l’accorgimento di posizionare un portello mobile al fondo del tubo in modo che resti chiuso e si apra solo con l’urto dell’acqua di risciacquo. Dentro di noi sentiamo che in qualche maniera dobbiamo aiutare questa signora.
La marcia per Khuburse non ha storia. Purtroppo il tempo monsonico ci nasconde le cime delle montagne con una più o meno fitta coltre di nubi. Sembra che siano sempre sul punto di dissolversi, ma non succede mai.
Il sentiero sul ghiacciaio è stato tracciato con intelligenza e permette il passaggio militare degli animali carichi. Oltrepasso Liligo con un po’ di nostalgia per il campo che vi avevamo messo 25 anni fa.
Khuburse è accanto a un laghetto glaciale e vi arriva acqua di sorgente. Ci accoglie il gentilissimo Sher Alì Shan, sul tavolo della tenda mensa sono perfino i fiori. Ibrahim sale svelto sulle balze erbose che sovrastano il campo, non so perché.
Noi ci dedichiamo al bouldering su un masso vicino, poi a qualche fotografia quando il cielo accenna ad aprirsi.
Ibrahim torna con mazzi di fiori appena colti che sono amorevolmente disposti.
La cena si svolge tra i soliti lazzi e frizzi, poi alla fine Mehfuz e i cuochi entrano trionfali, depongono davanti a Mario quattro mazzi di fiori e lo incoronano con un cappello baltì decorato di fiori.
È il suo compleanno! Perfino il budino con le candeline gli hanno preparato. Applausi commossi, breve discorso di Mario, poi via a spostare i tavolini per far largo agli orchestranti e ai danzatori. Ci stringiamo in fondo alla tenda, all’ingresso si affollano i portatori, siamo a dieci passi dal cuore del ghiacciaio più noto al mondo. La musica è prodotta da due bidoni di plastica e da una tanica di metallo. Il ritmo scandisce una lunga canzone, cui seguiranno altre quattro o cinque per circa un’ora e mezza. A uno a uno ci chiamano per danzare e solo pochissimi rifiutano.
È una musica fatta apposta per eccitare le persone e ci domandiamo cosa potrebbe succedere se girasse dell’alcol, anche solo poco. I baltì ovviamente sgranano gli occhi quando vedono le ragazze danzare. Il pezzo più bello è quello cantato e ballato dal nostro Muhammad Ibrahim, prima con alcune strofe che fanno sognare, poi con un ritornello di danza a ritmo sostenuto.
Gore 2, 22 luglio
Per tutto il percorso le fantastiche torri di granito che svettano alla nostra sinistra rimangono ostilmente invisibili. E anche da Urdukas, un balcone naturale tanto famoso quanto unico al mondo, le ore pomeridiane sono avare di visuali complete. C’è l’ambiente del gigantesco ghiacciaio sotto di noi, pareti ciclopiche di granito si seguono in fila, in una processione decapitata nel tormento di nuvole e nebbie in continuo movimento di luci e di forme.
Muhammad Ibrahim sale in solitaria il masso della fessura Bonatti. Sale per uno spigolo e scende per la fessura. Io mi aggiro attorno all’enorme blocco, alla ricerca della via normale. Ma sembra proprio che questa sia la via salita da Ibrahim. Le mie scarpe rigide non me lo permettono, lo stesso Ibrahim me lo sconsiglia: – Hard shoes no good, sir!
A metà pomeriggio Bernard Vaucher mi propone di arrampicare: abbiamo un’imbragatura, due cordini, una fettuccia e due moschettoni. Passiamo due ore davvero divertenti, dando spettacolo, su e giù per lo spigolo e poi per la fessura Bonatti. Questa richiede un grosso sforzo fisico, anche se non è difficile. Sulla destra di questa è una fessura che io salii per primo 25 anni fa. Un off-width burbero di qualche metro che non riesco a ripetere sulle prime. E sulle seconde, una tenda di plastica eretta da alcuni portatori per la notte m’impedisce anche solo di avvicinarmi.
A sera il cielo si apre, le torri appaiono contro sole, Franco non ha smesso un momento di fotografare.
Le speranze per un’alba perfetta sono deluse alle 4.40. La marcia sul ghiacciaio per Gore 1 e Gore 2 si snoda tra continui saliscendi. Dopo 5 ore arrivo a Gore 2, non dopo aver visto in che condizioni versa il campo militare subito prima. I soldati offrono a Mario e a me il lunch, seduti senza scarpe in una cucina ordinata. Fuori tira vento, Muhammad Ibrahim è in maglietta e fa pulizia al campo assieme ai suoi accoliti; poi bruciano un 150 kg di schifezze. Le toilette fanno orrore perché sostanzialmente non è stato scavato alcun buco nel ghiaccio. Non so se ascoltare Mario e Aisha Khan che parlano oppure fare altre foto: il Masherbrum, il G4, il Biancredi, il Mitre, il Marble…
Continua l’approfondimento di conoscenza tra loro: si viene a sapere che ha seguito il marito ambasciatore in Spagna, in Portogallo, in Austria, che conosce bene l’Italia, che ha due figli, di cui uno laureato in America.
(continua in https://gognablog.sherpa-gate.com/baltoro-2004-2/)
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… mentre canuto senesco come il mondo, nell’attesa di perdermi nell’abisso senza fondo della divinità, partecipando della luce inconversevole delle intelligenze angeliche — agogno, sbavo, di veder pubblicati su carta codesti meravigliosi ricordi.
Mi hai quasi fatto piangere. Ciao giusgott.
I racconti di Gogna sempre infarciti di commenti, annotazioni pensieri, sempre bellissimi da leggere.
Bravo Capo!
Un récit très intéressant. Merci.
ti ho letto con interesse perchè a GIUGNO 2024 anch’io ho fatto questa bellissima spedizione. Ho rivisto le tende, i campi, i monti, la spazzatura, le latrine inesistente. Per tutto il viaggio abbiamo avuto la compagnia di Kurt Diemberger che aveva un portatore personale. La notte, però, preferiva dormire fuori perchè puzzava di capra! quanti insegnamenti! Con noi c’erano le due spedizioni I ROSSI DI CORTNA E AGOSTINO DA POLENZA CHE DOVETTE TORNARE IN ITALIA PER UN LUTTO. Insomma, meno male che c’ero!
Ottimo! Mi ricordo anche il Gogna in mutande.
Grazie bei ricordi, x me un piacevole ripasso. Aspetto il prosceguo.
Tanta roba. Fatti, pensieri e sentimenti. Grazie!