Metadiario – 260 – Baltoro 2004 – 2 (AG 2004-005)
(continua da https://gognablog.sherpa-gate.com/baltoro-2004-1/)
Concordia, 23 luglio
All’alba abbiamo una delusione: nevica. Non mi ero neppure accorto, di notte dormo come un sasso. Tutte le volte che sono andato in quota, prima o poi qualche fastidio l’ho avuto, un po’ d’insonnia, mal di testa. Questa volta, sarà l’acclimatazione di Askole, non ho avuto alcun disturbo. Ricordo che all’Everest ogni notte dovevo alzarmi (ma di certo non ero il solo) almeno una volta per urinare nonostante si stesse ben attenti, prima di coricarsi, di svuotare il più possibile la vescica. Qui invece riesco a tirare mattina in tutta tranquillità. Forse è la differenza di quota, il CB dell’Everest è a 5200 m, per non parlare dei 6400 del BCA. Siccome la vecchiaia avanza e la ricerca delle piccole comodità diventa irrinunciabile, avevo ideato Pisciolina, una bottiglia di plastica da mezzo litro adibita a pappagallo, in pratica segandole la parte superiore di collo più stretto e avendo così il necessario diametro per una pisciata sicura.
Così, sotto una cappa grigia e su un soffice tappeto bianco ci siamo avviati verso Concordia, senza poter vedere la Muztagh Tower, visibile solo da un certo punto più o meno a metà cammino.
A Concordia arriviamo tra radi fiocchi di neve, la morena non è più bianca, le tende del campo CAI ci attendono, assieme al medico, Oriana Pecchio. Avevamo incontrato il suo gruppo che scendeva, lei invece si fermerà qui un’altra settimana per poi tornare con il gruppo seguente.
Sappiamo che le nostre batterie non funzionano ancora, lei riusciva a ricaricare il suo satellitare grazie alla valigetta portatile di pannelli solari che il CAI le ha dato in dotazione.
I membri del gruppo arrivano con buoni distacchi uno dall’altro, gli ultimi sono Franco e Pier Andrea, assieme alla guida Marco e a Mehfuz. Ieri, a Gore, Franco non si è risparmiato, correndo su e giù come un folletto carico della sua completa attrezzatura fotografica: forse oggi paga le conseguenze. Ma nel complesso stanno entrambi bene, a detta di Oriana che li visita.
Questa mattina abbiamo avuto la defezione di Sahid, il cuoco. Già a Urdukas gli avevo dato un’aspirina, ma questa mattina non si è proprio sentito di proseguire. Mi dispiace, è simpatico. Non sarà un problema per la cucina, anche qui a Concordia. Ma potrebbe diventarlo quando andremo ai campi base del K2 o del Broad Peak. Mehfuz si dice fiducioso di trovare un cuoco anche per quelle giornate. Il saluto è stato abbastanza triste, ho voluto aggiungere 200 rupie mie, assieme a 200 di Franco, alla mancia di 600 disposta da Mario per i dieci giorni del suo servizio.
A Concordia ci lasciano anche quattro portatori, tra i quali quello cui ho regalato ieri un paio di calze: 50 rupie a testa e se ne vanno contenti. A me sembra pazzesco dare misere mance da 0,75 euro, ma ciò è quanto loro si aspettano.
Mi sono ritirato in tenda a dormire un poco e quindi a scrivere. Fuori sta schiarendo e l’eccitazione del gruppo è grande per la gita di domani alla base del K2. Ugo parla di mettere il “25” come rapporto per la salita da “grimpeur”!
Non riesco a non pensare che questo luogo sarà la mia prigione per un numero ancora imprecisato di giorni, ma di sicuro più di trenta. Mi vergogno a dire “prigione”, c’è gente che darebbe non so cosa per essere al mio posto. Ma non si può forzare il proprio intimo e questo è quanto passa il convento.
Concordia, 24 luglio
Le prime avvisaglie s’avvertivano già nel tardo pomeriggio quando, in una luce gloriosa di sole e nuvole vaganti per il possesso effimero di alcune delle più belle montagne della terra, dal gruppo si sentiva Ugo berciare in romagnolo: – Ma cosa riposiamo a fare domani qui! Io ho pagato per il K2, veh!…
Le guide avevano praticamente già deciso di far riposo il giorno dopo, come da programma, rimandando la salita al campo base al giorno dopo ancora. Questo allo scopo di cercare di portare il maggior numero di persone a destinazione. Di certo la sosta a Concordia avrebbe giovato. L’unico contrario a questa decisione di buon senso era Ugo, che manifestava il suo dissenso in modo tutt’altro che simpatico con la consueta e sanguigna veemenza rafforzata da qualche poderoso pugno sul tavolo. E allorché a cena Andrea dà la comunicazione ufficiale del programma, Ugo non si trattiene dal pestare con i pugni la tavola e battere i piedi.
– Io sono venuto per il K2, io ho pagato… e se dopodomani è brutto tempo? Cosa stiamo a fare qui… Abbiamo due guide che non vanno, quando correvo a volte ci toccava spingere il capitano che non andava…
– Io non vengo a insegnarti come si corre in bici – cerca di ribattere Marco, ma l’altro non lo lascia neppure parlare e raddoppia le stupidaggini. Che per fortuna nessuno del gruppo raccoglie, per isolare la scheggia impazzita.
Le cose si complicano quando, dopo una telefonata tra Beppe Tenti e Oriana, appare chiaro che il tempo sarà bello per quattro giorni. Lino, di Crema, si alza e chiede se il giorno dopo, come da programma stampato, quelli che vorranno potranno essere accompagnati dalle guide verso l’Ali Camp, la prima tappa del Gondogoro Pass, lungo il Vigne Glacier.

La risposta delle guide è no, se mai questo si potrà fare l’ultimo giorno di permanenza del gruppo a Concordia. Ciò provoca un deciso malumore, non solo di Lino, ma anche di altri.
Segue un breve conciliabolo in cui riesco a far capire alle guide che purtroppo il programma parla chiaro e che se c’è qualcuno che si sente di andare occorre accontentarlo.
E alla fine così si decide, dopo aver verificato con Temur, la guida pakistana del gruppo, che la cosa fosse possibile.
La mattina dopo dodici persone partono puntuali alle 5.30 con le due guide e due accompagnatori pakistani. Torneranno stanchi ma ebbri di montagna, di pietra e di ghiacci, alle 14.15, dopo essere arrivati a poca distanza dall’Ali Camp.
Alle 6.35 dello stesso giorno mi ero alzato per fotografare, dopo colazione altro giro con Mario e Franco, il quale sta decisamente meglio.
Dopo, aiutiamo Oriana a disfare la tenda medica che dev’essere spostata per via del cedimento progressivo della piazzola di ghiaccio e sassi che la sosteneva. Un’operazione complessa, che prenderà tutto il giorno. Come pure gli affanni di Giovanni dietro alle famose batterie in avaria. I collector sono in giro a raccogliere lattine e plastica, Mario, Mehfuz e io proviamo a programmare il più possibile il nostro soggiorno e il lavoro. Un passo delicato è quello di far comprendere che non sarà più Walji’s a portare via da Askole i nostri rifiuti, ma provvederà direttamente l’MGPO, che li venderà ai rottamatori di Skardu per 1 rupia al kg, senza pagare il trasporto.
Viene deciso di realizzare una fossa recintata per incenerire i rifiuti, poi dovremo calcolare attentamente quanti kg di lattine battute stanno in un sacco di juta sintetica.
Una valanga cade dai meridionali pendii abbacinanti del K2, nel solito immane solco tra lo Sperone degli Abruzzi e lo Sperone Česen. Seguiamo con i binocoli, ma al di là delle tende gialle del Campo 2 non si vede alcuna altra traccia umana.
Domani andremo al CB del K2, assieme al gruppo, per approfittare del bel tempo, davvero speciale.
Verso le 19.30 riesco a parlare (ed è la seconda volta) con Petra ed Elena. Mi raccontano la loro vita di vacanza, mi dicono che mi vogliono tanto bene e che gli manco tanto. A loro dico le stesse cose e mentre le pronuncio mi accorgo di quanto sia vero, a dispetto del fatto che in realtà non le penso molto. Sono malauguratamente troppo concentrato su me stesso per lasciarmi andare al sentimento degli affetti, che invece so essere l’unica vera medicina alla mia prigionia.
Questa notte ho sognato che al volante di un’auto indietreggiavo perché un grosso autocarro stava lentamente facendo retromarcia senza accorgersi della nostra presenza. Poi le zampate scambiate con un grosso gatto, dapprima un po’ aggressivo, poi sempre più per gioco.
Concordia, 26 luglio
Alle 4.25 del 25 luglio partiamo con il gruppo verso il campo base del K2. Superate le colline moreniche di giunzione dei due ghiacciai (Baltoro e Godwin-Austen), la marcia diventa più regolare, ma sempre assai sassosa.
Le prime luci sul K2, poi, dietro, sul Chogolisa e sul Mitre Peak. La prima vera sosta fotografica vorrebbe riprendere la fuga del ghiacciaio verso il K2, ma in quel momento dal Marble Peak cade sulla parete nord una grande cornice di ghiaccio. Quella massa provoca il distacco di qualche masso instabile, tanto che alla fine l’intera parete nord, orrendo a vedersi, è coperta da valanga che presto raggiunge la base e si espande a nuvola bassa verso il K2, lentamente, come un’onda lunga e silenziosa dopo tanto frastuono e rovina. Diradata, scopriremo polvere sulle nostre macchine fotografiche e odore di zolfo nell’aria.
Oltrepassiamo il popoloso campo base del Broad Peak, quindi Mario e io ci stacchiamo dal gruppo. La prima persona che incontriamo al CB del K2 è Kurt Diemberger, che mi saluta ma non mi riconosce. Poi incontriamo Adriano Greco e Marco Confortola, reduci il giorno precedente dal giallo di una tenda posta e ancorata vicino a quella di una spedizione spagnola ma non ritrovata.
Il capospedizione Agostino Da Polenza è andato via in elicottero qualche giorno fa per via della moglie molto malata (tumore al cervello): nel campo regna più incazzatura che agitazione. Il tempo è bello, gli uomini di punta sono sulla montagna e ciò nonostante qui si respira una brutta aria di smobilitazione.
La tenda che richiedeva 80 portatori per il trasporto, la famosa Casa Italia, è grandiosa, con le sue tende interne, la mensa, l’ufficio stampa. Fuori è un numero incredibile di tende: 180! Ma nei giorni scorsi erano 200, di tutte le nazionalità. Oggi stanno smobilitando i coreani di Han Wang-yong, uno dei salitori di tutti e 14 gli Ottomila, qui per ripulire lo Sperone degli Abruzzi.
Greco e Confortola sono molto gentili con noi, il primo mi regala perfino sali integratori e salviette. Anche Paolo Confortola ha rinunciato ed è lì a sentirmi raccontare di come sua moglie e Tiziana siano ritornate e naturalmente anche la storia del cavallo. Incontro anche Marco Forcatura, è lui a riconoscermi.
Dopo un assaggio di pane valtellinese e mocetta decidiamo di salire alle tende degli Scoiattoli di Cortina, l’altra spedizione italiana. Quando le raggiungiamo c’è solo Lorenzo Lorenzi che ci dice che sono tutti su, sulla montagna. Gli raccomando di salutare tutti, ma soprattutto Marco Anghileri, che pare non stia benissimo al C2. Tornati a Casa Italia, scambio quattro chiacchiere con il dr. Leonardo Pagani, il figlio di quel Guido Pagani, medico piacentino nella spedizione del 1954. Nel frattempo tutto il gruppo CAI arriva e sorseggia il tè preparato dai nostri collector. I più entusiasti sono andati con Andrea al “Memorial” dei caduti del K2. Anche Mario e io decidiamo di andarci, ma prima salutiamo meglio Kurt Diemberger, che ci appare un po’ meno brillante del solito. Certo che alla sua età…
Ci racconta di aver avuto tre episodi di infezione intestinale e di non aver potuto perciò andare alla Sella dei Venti come era sua intenzione. Il filo del discorso lo porta poi a Julie Tullis e alla tragedia del 1986: l’episodio della tenda scomparsa richiama infatti alla memoria la principale causa delle cinque morti di quell’ultimo atto, che poi tanto bene Kurt raccontò nel suo Il nodo infinito.
Ci congediamo, e dopo circa venti minuti siamo al Memorial, un luogo emozionale, alto sulla confluenza dei due ghiacciai, un affastellamento di piatti e piastrine tintinnanti al vento, targhe incise e fissate, un caotico ricordo alla rinfusa di singole morti di donne e uomini.
Accanto alla targa di Mario Puchoz ora spicca un altro simbolico ricordo, il saluto a Mario del settantanovenne Lino Lacedelli, salito fin quassù dopo cinquant’anni.
Sento aleggiare la presenza di tutte quelle anime, intorno a questo sperone roccioso, che tutto ispira meno la pace. Come non ci fosse riposo per chi ancora, dopo tutto, cerca ancora di salire il K2. Una tragica rappresentazione di quella grandiosa volontà, con attori che non ricevono applausi ma per i quali la scena rimarrà sempre aperta, una recita in cui lo spettatore si fonde con l’attore.
Non ci sono tutti i nomi, quello del nostro portatore per esempio. Nei pressi del campo base, il 9 giugno 1979, Alì, figlio di Kazim, cadde in un crepaccio di una trentina di metri e vi trovò la morte. È l’ottavo morto del K2, forse il più dimenticato. Friedl Mutschlechner si calò nel crepaccio, constatò il decesso e il corpo fu lasciato laggiù. E in questo momento non ricordo se abbiamo recuperato il carico che lui portava, forse ho rimosso questa vergogna.
E anche Friedl non c’è più, e neppure Renato Casarotto e Michl Dacher, compagno di Messner nella salita alla vetta.
E questa stupenda, meravigliosa follia che è l’alpinismo trova qui una giustificazione lineare, quasi impositoria. Qui è asserito con forza che tutti sono morti per errore o per peccato d’orgoglio, ma che errore o peccato più grande sarebbe una vita senza errori o senza peccati.
E poi mi sento stanco, fisicamente spossato di essere salito fin quassù dove 25 anni fa potevo correre. Nella grandiosità senza limiti e paragoni di ciò che mi circonda, passeggero di questa nave di fantasmi dalla prua che frange i flutti di due ghiacciai, respiro quest’insolita forma di meditazione e firmo il mio stesso rinchiudermi in un mondo di sconfinata stanchezza.
Di qui a poco mi trascinerò sull’immenso ghiacciaio per far ritorno a Concordia, la mia immensa, spettacolare e divina prigione, dove continuerò a scrivere nel tentativo di liberarmi da un peso che porto da più di cinquant’anni, senza conoscerne forma, colore o dimensioni. Il Memorial è l’unghia del K2.
Concordia, 26 luglio, notte
Barcollando di stanchezza assieme a Franco e ai nostri portatori, ormai in vista di Concordia, mi chiedo perché mi sento così debole: cosa t’importa, mi dico, che qualcuno dei gruppi sia più vecchio di te e senta meno fatica… tu hai la tua storia, qui. Qui hai vissuto il tuo 33° compleanno e ti avvii a trascorrervi anche il tuo 58°. Il giorno dopo, il 30 luglio 1979, avevi iniziato la marcia di ritorno a Gore con un dolore al ginocchio quasi insopportabile e avevi camminato zoppicando per giorni e giorni fino a Dassu, per accorgerti solo a Skardu che il dolore, come era iniziato d’improvviso, allo stesso modo scomparve.
È questo il peso che porto con me: Concordia è una cartina al tornasole, qui si fa la vita o si muore.
Ugo, a cena, si congratula con tutti e chiede pubblicamente scusa alle due guide per ciò che si era lasciato sfuggire due sere prima. Le elogia, anzi. Un atto dovuto che rimette le cose a posto.
Nella notte dormo come un sasso e al mattino mi alzo di umore più lieve. Con l’urgenza di evacuare Sergio Masciadri. Questi, conosciuto all’Everest quattro anni fa, si era allontanato con Maurizio Bono dal CB nel tentativo di raggiungere in giornata il CBA. Da soli. Quando realizzarono che non ce l’avrebbero fatta, fecero dietro-front, senza poter evitare, però, che io gli andassi incontro a ora tardissima per capire dove erano finiti. Questa volta invece Sergio è salito troppo velocemente a Concordia e CB. Si è spinto perfino ai 5400 m del CBA (ex C1) alla base dello Sperone degli Abruzzi. Il giorno dopo scende verso Concordia mentre noi saliamo al CB e ci dice di stare male. I suoi compagni lo lasciano al nostro campo, raggiunto con molta sofferenza, e se la squagliano.
Per fortuna la mattina del 26 è previsto l’arrivo di un elicottero per evacuare i 1.500 kg di rifiuti raccolti dalla spedizione coreana di Wang-yong Han, nonché per far arrivare il ministro Gianni Alemanno e mons. Andreatta. Anche Aisha Khan ne approfitta. Il ministro è un po’ suonato a causa della quota, monsignore invece sta benissimo. Alemanno riesce anche a fare un’intervista alla tv pakistana in cui afferma che questa impresa di salire il K2 cinquant’anni dopo è seconda soltanto all’impresa di Compagnoni e Lacedelli, come se nel lungo frattempo gli italiani non avessero fatto altro che narcisate!
Mario, grande public relation man, li invita subito a prendere il tè nel nostro campo mentre stanno arrivando due tende per loro dal CB del K2 e gli altri del seguito stanno salendo da Gore 1 a piedi. Oriana lo visita e decreta l’assunzione di un diuretico. La sera andiamo a controllare le condizioni di salute del nostro ospite e lo troviamo molto migliorato.
Nel pomeriggio c’era stato però il grande evento dell’arrivo in vetta di Silvio Gnaro Mondinelli con Karl Unterkircher, seguito minuto per minuto con i binocoli. Altri tre alpinisti sono dietro, ma non sappiamo se italiani o spagnoli. Quindi grande gioia generale anche perché, con tutti i mezzi profusi dal Ministero dell’Agricoltura in quest’impresa, sarebbe stata una grande débâcle politico-mediatica se non ci fosse stata almeno una salita alla vetta.
Mario fa parlare Alemanno direttamente con Annibale Salsa, novello presidente del CAI: e dopo le polemiche trascorse, Dio sa se ce n’era bisogno… Il ruolo di Mario è essenziale perché far parlare assieme due figure, che in qualche modo nei mesi passati si erano negate l’una all’altra, non è impresa da poco. E merita di essere sottolineata. Sul librone del CAI di Concordia Alemanno scrive una bellissima dedica: probabilmente domani, salendo al CB del K2, si ricorderà dell’accoglienza ricevuta dai soci del CAI.
Concordia, 27 luglio
Ieri parlando al telefono con Annibale Salsa gli avevo assicurato che la polemica dei mesi di aprile e maggio, se era cioè lecito o meno che il CAI mandasse sul Baltoro più di 500 persone, non aveva alcun motivo di esistere.
Certo, i problemi ci sono, ma ora che siamo qui siamo in grado di dimostrare a chiunque che il CAI non ha sbagliato.
Commentando le due stagioni negative del Baltoro, il 2002 e il 2003, quando poche spedizioni e nessun trekking venne qui a causa della situazione calda tra India e Pakistan (+ effetto 11 settembre 2001), Mrs. Aisha Khan ci ha detto: “This year people here have bread and butter that they did not have for the last two years”.
Adesso sta arrivando un altro gruppo, più numeroso, 34 persone più le due guide, Pietro Giglio e un altro. Con questi vivremo quattro giorni. La partenza del gruppo con il quale siamo stati tutti questi giorni è dolorosa. Sappiamo che sarà difficile che ci rivediamo, alla faccia dei buoni propositi e degli scambi d’indirizzi. Siamo quindi tristi. Abbiamo dato e ricevuto, della moneta si è persa traccia, rimane solo l’emozione del ricordo. Dopo l’addio, Mario e Oriana vanno a salutare Alemanno che parte per il CB del K2, anche per verificare ancora le sue condizioni di salute. Poi ci riuniamo con Mehfuz e i collector per pianificare i prossimi giorni.
Decidiamo di tener distinti i sacchi di lattine raccolte da noi da quelli di produzione del campo. I collector costruiranno una piccola casetta vicino al campo per sorvegliare meglio i sacchi raccolti.
Poco dopo arrivano le avanguardie del gruppo da Gore 2 e subito Mehfuz e la loro guida ci vengono a pregare di lasciare le nostre tende per usufruire di alcune tende più piccole e singole. Ho appena fatto cambio di tenda, quella che abitavo questi giorni era sbilenca su un fondo di ghiaccio gibboso, tutto da risistemare. Rispondo semplicemente che non se ne parla neppure. Noi in questo momento siamo qui, ma potevamo benissimo essere altrove, per esempio al CB del Broad Peak, con le nostre tende. Dunque le tende per il gruppo devono saltare fuori e non ci interessa altro. Vadano a prenderle a Gore 2 o a Urdukas. La mia intransigenza, dovuta anche al fatto che noi paghiamo ben cara questa pretesa autonomia, non lascia dubbio sulle nostre intenzioni. Lì per lì la reazione di Mehfuz è quella di darci ragione, poi però qualcosa trapela. Qualcuno riferisce a Piero Giglio una storia del tipo che “noi non vogliamo mollare le nostre tende”. Pietro, amico di vecchia data, viene da me a chiedere spiegazioni. Io gliele do, ribadisco che per emergenza possono venire anche in quattro nella mia tenda ma che, stanti le condizioni di pieno rispetto del programma, le tende devono riaffiorare dalle profondità dell’organizzazione. Pietro non la prende bene, non capisce subito che il mio atteggiamento è duro con Walji’s, non con loro. Capisco che si sta incazzando, ma non mollo. Mario è preoccupato di intavolare rapporti così pessimi con il gruppo, pericolo che vedo anch’io, così mi prega in separata sede di desistere e di cedere le nostre tende. Dopo un quarto d’ora di disagio (la gente si è appropriata delle tende disponibili, ma qualcuno è ancora lì ad aspettare) le tende come per incanto appaiono. Si decreta all’unanimità che avevo ragione, Pietro si scusa con me, io ribadisco che a volte bisogna mostrare il viso duro per non dover risolvere a nostre spese i problemi che devono risolvere loro soltanto con un’organizzazione più accurata.
Volendo poi dissipare qualunque dubbio di una nostra spocchiosità e maldisposizione, alle quattro del pomeriggio invito qualcuno di loro a fare un giro fotografico con me e Franco sul ghiacciaio, esattamente dove inizia la morena del Godwin-Austen. Un’ora di cammino su e giù a un punto di osservazione bellissimo, tre uomini e una simpatica signora (Irma) ci seguono e chiacchierando capisco che le nostre preoccupazioni del mattino non avevano alcun fondamento.
Domani quasi tutti andranno al CB del K2.
Concordia, 28 luglio, ore 12
Sono partiti, il tempo è ancora bello ma in via di lento cambiamento. Qui sono rimasti il medico Giuseppe Gottardi, di Rovereto, una coppia (Marcello, pensionato, lei medico ancora esercitante) e Luisa, loro nipote. Facciamo colazione, assieme a Lord Figars (Franco) e Mario.
Giuseppe è un ex-sessantottino che asserisce che sarebbe rimasto ad Askole piuttosto che vedere tutti questi sassi.
– Là ho visitato una donna. Per lei non c’era più niente da fare se non un ricovero immediato in ospedale.
Ha la barba grigia, gli occhi azzurri, disincantato della vita e pessimista sui suoi simili, ma di certo con un cuore grande così. Vengo a sapere che starà qui fino al 14 agosto. Questo vuole dire che tra il 31 luglio e il 10 agosto quassù al campo staremo solo noi due, oltre ai pakistani.
Anche Marcello dev’essere un bel personaggio, dà l’impressione di sapere molto di più di quello che lascia trasparire la sua semplicità. Ieri è venuto con me in gita fotografica, io avevo camminato fino a un certo punto con una t-shirt bianca annodata sulla testa per proteggermi dal sole, poi me ne ero liberato, i raggi non erano più così potenti. E allora Marcello: – Ohh, era ora che ti togliessi quelle mutande dalla testa! Hai una testa e una faccia che bucano l’obiettivo… fatti fotografare così!
Giuseppe ha scritto Il manuale dell’alpinista perfetto, un lavoro presentato anche a Leggimontagna. Comincia così: «L’alpinista perfetto ama il mare…». La giuria non sapeva se era una presa per il culo o una cosa seria, poi alla fine lo accettano ugualmente.
Sono indeciso se scrivere su questo diario le cose che capitano, che vedo, che riesco a registrare con la memoria, cercando di vederle con distacco, con amore e separazione; oppure buttare su carta ciò che mi tormenta, le sofferenze riconoscibili (la prigione, ecc.) oppure ancora i problemi di un cuore che sembra mutilato da tempo, con una ferita malamente richiusa che lascia spazio a un pianto di stillicidio. Per questo non ho lacrime dagli occhi da tanto tempo, perché piango da un cuore rozzamente cicatrizzato. Forse ognuno di noi ha una ferita più o meno aperta e non lo sa, magari preferisce spiare le ferite altrui. C’è chi è molto bravo a fare questo. Ma c’è anche chi vede le piaghe e ci danza sopra, traendone vile nutrimento. Alcuni giornalisti sono così, coyotes di città, sciacalli da scrivania.

Da ieri, da quando ho saputo dare ad altri mai visti e conosciuti, sto meglio. Ho bisogno di dare senza essere pagato, ho bisogno di cogliere luce nello sguardo altrui. Potrei farcela, devo farcela. Devo ascoltare, senza girare gli occhi dall’altra parte non appena si tocca una ferita loro. Perché se in tram sento bestemmiare vorrei tapparmi le orecchie? E se il mendicante montenegrino mi suona la sua lagna, perché vorrei scendere? Non ascoltare, non esserci, non vedere la sofferenza altrui come se questi fossero appestati. Così l’interlocutore mi annoia non perché dica cose inutili o senza senso, ma perché mi mostra una ferita insopportabile; e allora distolgo lo sguardo, divento assente, sono io a estraniarmi da lui. Ho infatti paura che l’entrare nel suo soffrire riapra una volta per tutte la mia ferita. So bene che in realtà è proprio il contrario: più ci si apre al di fuori, meno si soffre di dentro.
Gli altri a volte mi si rivolgono come a un personaggio importante, che ha qualcosa da dire e che in definitiva li può aiutare. Dev’essere dura scoprire, almeno in qualche caso, che ho poco da dire. Una delusione. È questo che so fare, dare delusioni? È inutile ch’io mi trinceri dietro alla considerazione “quelli mi cercano perché vedono in me un personaggio”… Devono venire a me per me, non per quello che figuro nella loro mente. Quante volte l’ho pensato, quante volte il mio atteggiamento l’ha tradito!
Concordia, 31 luglio, ore 12
Ieri, 30 luglio, di mattina presto, il gruppo è partito. Un distacco meno doloroso del precedente, ma comunque sensibile. Mario e Franco li raggiungeranno a Payu. Rimaniamo in quattro con il dottore, in una giornata brutta, piovosa e fredda. Mario si reca alla piazzola che funge da eliporto per veder partire il ministro Alemanno e tanti altri che hanno preso Concordia come decollo del proprio Io. La sera prima (29 luglio) c’è stato il mio compleanno, un po’ in sordina perché coincidente con una ricorrenza islamica in cui non si possono fare feste di nessun tipo. Perciò niente canti e balli, solo un “tanti auguri a te”, con budino e candela, più un bellissimo berretto baltì con rosa finta sulla fronte. Nel mio brevissimo discorso accenno al fatto che 25 anni fa ero proprio qui, ma non avevo così tanta gente che mi voleva bene, tanto da desiderare di farci almeno un terzo compleanno!
Prima di cena eravamo stati in visita da Alemanno e Laganà (reduci dal CB in attesa di elicottero), avevamo chiacchierato a lungo con lo zio di Mehfuz, persona di grande esperienza e di sicuro ottimo consulente per un eventuale progetto ambientale nella Northern Area. Stavamo poi per tornare al nostro campo, quand’ecco Jacopo Merizzi e Andrea Michieli ritornare, sfiniti, dalla loro gita sulle orme di Vittorio Sella. Jacopo e Andrea hanno un contratto con la Rizzoli che li impegna a produrre belle immagini per l’instant-book della spedizione alpinistica del Cinquantenario. Qui a Concordia sono arrivati tardi, il 28 luglio. Ci siamo fatti un po’ di festa, abbiamo parlato di eventuali collaborazioni. Il giorno dopo erano spariti, qualcuno mi ha indicato che erano andati “per di là”, ne avevo concluso che erano andati in ricognizione per la punta rocciosa antistante il G4, la Quota 5461 m. Vederli tornare così stanchi è capire subito che sono arrivati in vetta, altro che ricognizione. Il racconto è smozzicato, traversati due torrenti nel ghiacciaio, un casino arrivare allo sperone di destra, attaccato sperone e subito dietro-front per il marcio. Salgono più a destra, fuori vista da Concordia, e per ghiaioni arrivano molto a destra (nord) della vetta, ancora difficile da raggiungere con passi di II e III grado, con tratti di ghiaccio invaso da ghiaia. La guida scivola e si ferma per miracolo. Jacopo, che è guida alpina, conclude che il migliore è stato il portatore… in questa probabile seconda ascensione della cima (85 anni dopo la salita di Massimo Terzano del 1929). Visto il magnifico panorama e constatato di non poter fare alcuna foto causa una visibilità pessima, i quattro riscendono, arrivando al campo verso le 18.30, sfiniti appunto.
Ne approfitto per dire a Jacopo che la Noblex mi ha lasciato e che se hanno fretta di andarsene sono disponibile a fare gratuitamente un po’ di lavoro per loro, sempre che mi venga lasciato l’apparecchio. In effetti sono disperato: finora Franco mi ha gentilmente prestato la sua Noblex, ma quando ripartirà sarò del tutto orfano… Sono perfino disponibile a firmare un foglio dove m’impegno a non usare il materiale da me prodotto per un anno!
Jacopo non chiude le porte a questa proposta, dice che ci penseranno. È così stanco da farmi pena, così lo lascio riposare e con Mario torniamo al nostro campo per la cena del mio compleanno.
Il mattino dopo (30), Mehfuz ci presenta un conto di 4.500 rupie e rotti per mance date a nostra insaputa nei vari alberghi. Questa è nuova… da quando in qua le mance le danno i sottoposti? e per di più senza che noi ne sappiamo nulla? E venendolo a scoprire quindici giorni dopo… Mario gli risponde che ne parlerà con l’ufficio di Walji’s perché non era stato informato di questa “obbligatorietà” di mancia. La questione viene dunque rimandata di almeno una settimana. Il sospetto che sia una messinscena ci sfiora con insistenza, ma non abbiamo prove. Con Franco e Mario discutiamo anche sulle mance, quelle vere, visto che con la loro partenza del 31 si chiuderà un periodo. Stabiliamo delle cifre senza farci influenzare dai consigli di Mr. Aziz che ci aveva sparato somme a dir poco inquietanti.

Non abbiamo molto da fare al campo, dobbiamo solo ordinare ai collector di raccogliere qui e là, magari ne approfittiamo per piccole questioni di igiene personale. Ma il tempo scorre, tra un piccolo rovescio e l’altro, fino a sera, quando verso le 19 arrivano Andrea e Jacopo, invitati a cena. Sono carichi di regali, dalla pancetta alle pietanze liofilizzate. Sembra proprio che il riposo non gli abbia giovato più di tanto, vogliono scappare da Concordia al più presto. Comunque la cena a sei è gradevole, nel tempo che vola sono tutti d’accordo che Agostino Da Polenza abbia grandi doti di organizzatore e notevole abilità mediatica. Ma la sua spedizione, proprio per queste sue mega-caratteristiche, non può brillare per creatività. Avrà onori di cronaca in abbondanza, qualche euro rimarrà nelle tasche, ma la storia è fatta d’altro. Ci confidano che qualcuno di quella spedizione sperava di diventare celebre e di potersi comprare l’albergo…
Alle 21 telefono a Elena. È il suo compleanno, che sarà festeggiato con pizza tra un’oretta, poi sulla spiaggia con amichetti e amichette, a Levanto. Nel salutarla con emozione e belle parole, nel sentirmi salutato come una figlia saluta il papà, provo un’enorme nostalgia e ancora una volta mi chiedo che ci faccio qui. Jacopo e Andrea ci sono ancora. Si spingono a farci un mezzo invito per domani sera (31), da confermare. Jacopo aggiunge che mi dirà cosa hanno pensato. È evidente che aspettano di vedere che tempo farà domani. E per me sarà ancora brutto…
E non mi sbaglio. Dopo una notte tranquillamente freddina, passata cercando di non sfruttare al massimo la mia dotazione di vesti imbottite, mi alzo alle 6.45 per fare colazione assieme a Mario e Franco. La novità è che non ci sono i portatori. Mi viene subito un diavolo per capello, perché la soluzione ipotizzata è che due dei nostri collector vadano giù con loro. Mehfuz è dall’alba in giro, a caccia di portatori in questo Concordia in via di svuotamento, dove la gente passa e non guarda, dove non ci si saluta neppure più. Dove, nonostante il tempo incerto, si preannuncia un’altra giornata di elicotteri come ieri, quando sono andati via tutti gli alpinisti italiani, i “matti” della Bosis, giornalisti, Diemberger e chi più ne ha ne metta. Per non parlare di ministri, senatori, monsignori e forestali. C’è da domandarsi chi è il cretino che ancora scende a piedi… Che alpinismo è ancora questo? Che avventura? C’è un assalto all’arma bianca per un elipassaggio, uno sconcio sgomitare di personaggi la cui presenza è urgentemente richiesta altrove, ma senza domandarsi se siano mai stati veramente qui.
Ieri sono passati dalla tenda medica due alpinisti appena scesi dal G2. Lui, trentenne di Londra e abitante a Kathmandu, il giorno prima aveva avuto un collasso, voleva farsi vedere dal nostro medico per controllare l’eventuale edema; lei, australiana di Sidney, stava bene ma era magra come un chiodo, prosciugata. Beh, almeno quelli scendevano a piedi. Oggi a Skardu è prevista l’inaugurazione del Museo degli Italiani: possiamo prevedere eliturismo a tutto spiano, quindi speriamo che il tempo si chiuda ancora di più…
Alla fine sbuca fuori un portatore, praticamente un ragazzino. Sarà quello che porterà il sacco con le macchine fotografiche di Franco. Per i bagagli sono sempre previsti due dei nostri collector. Esplodo con Mehfuz:
– Per contratto io devo essere libero di andare dove voglio con quattro collector, ogni giorno che voglio!
– What can I do? – è la risposta.
– You should have organized everything before, not at the very last moment! – ribatto.
L’atmosfera è tesa, anche perché la mancia data da Mario per queste prime settimane forse non corrisponde alle attese. Ma non mi importa, vedo già i miei due “operai” andare fino ad Askole e tornare, almeno una settimana di assenza. Nella discussione accesa balza alla ribalta un altro portatore, quindi si parla solo di impegnare il migliore, Ibrahim. Raccomando a lui e a Mehfuz di cercare un portatore che lo sostituisca a Urdukas: così potrebbe stare via solo due giorni.
Gli altri nel frattempo sono sguinzagliati alla ricerca di pattume, seguendo un programma preciso di zonazione giornaliera.
Partiti Mario e Franco, Giuseppe (Beppe) e io ci ritiriamo nelle rispettive tende, quasi a sottolineare che è inutile cercare di far passare il tempo assieme. Meglio centellinare i nostri approcci, altrimenti il rischio di corto circuito aumenta. Pure lui è insoddisfatto, continua a non essere in piena forma, non osa attaccarsi alle sigarette che si è portato, aggiungendo quindi frustrazione a disagio.
– Ostia, i me dà 120 euro al dì per star chì a veder nisuni!
In mezzo a questa desolazione arrivano Dino e Mehfuz a dirci che, secondo gli ordini dell’ufficio di Walji’s, dovremo spostare il campo di circa 300 metri, verso gli altri campi, verso l’eliporto. Anche a loro non fa piacere, qui l’acqua di fusione la usiamo solo noi, e siamo sempre noi a gestire i nostri cessi con tendina. Là, dove dovremmo andare, è un casino. I gruppi dell’Adventure Tours Pakistan (cui si appoggia la Focus) non hanno tendine toilet e i dintorni sono pieni di escrementi. Perfino Alemanno ha dovuto adeguarsi…
Insomma, di qui non ci vogliamo muovere e prometto di telefonare io a Beppe Tenti. Ora è troppo presto, lo farò in giornata. Sembra che la ragione dello spostamento sia l’arrivo di alcuni VIP. Fuck you ai VIP, questa è la mia risposta diplomatica. Che ci provino loro a spostare l’intero campo più la tenda medica e il complesso delle attrezzature solari.
Più tardi scopro che sono sparite le due radio del CAI: che le abbia prese Oriana? Non ho modo di controllare, perché il telefono del CAI è qui. Provo a chiamare il satellitare CAI n. 2, ma nessuno risponde. Provo a chiamare Tenti e c’è la segreteria. Chiamo Montana per dire di cercare Tenti, ma la Silvia non è in ufficio. Cristo, sono bloccato! Mi è negata ogni iniziativa. Non mi rimane che scrivere su questo diario… ma ecco giungere un evento lieto!
Arriva Giampietro Verza, guida alpina e tecnico della comunicazione. Lui lavora spesso alla Piramide Desio del Khumbu, non ci vediamo mai ma lo conosco dal 1992. È simpatico. L’avevamo interpellato ieri e lui ci aveva confermato di essere ormai in dirittura d’arrivo nello sgombero del CB del K2, pertanto che oggi avrebbe fatto un salto per analizzare i malanni del nostro impianto solare. Eccolo arrivare verso le 12.30 accompagnato dalla sua donna. In pochi minuti verifica che il regolatore di corrente è “andato”, fa un accrocchio con il quale finalmente vedo le batterie ricaricarsi, con l’avvertenza però che, siccome il regolatore non funziona, occorre sorvegliare spesso di non superare i 28 volt. Se succede, precipitarsi a tappare i pannelli con materassini o quant’altro di opaco. Tenta poi di collegare il nostro computer a internet, ma l’attacco per la connessione con il Thoraya non è perfetto. Andiamo a pranzo. Poi ci lascia nell’incertezza di come una maledetta spina Thoraya si possa inserire nella complessa femmina e crei una maledetta connessione.

Concordia, 1 agosto
Verso le 17.30 del 31 luglio siamo in tenda medica: io scrivo, Beppe legge. Con un deciso “permesso!” Marco Anghileri entra aprendo la cerniera. Aveva saputo da Lorenzi dei miei saluti e tornando a casa (a piedi…) è passato a salutarmi. È sempre un piacere rivederlo, a Lecco o dovunque. È una di quelle poche persone per le quali non sai se, date le sue energiche capacità, sia più opportuno essere tranquilli o temere con un po’ di trepidanza. Ci spiega che è sceso un giorno prima, che domani arriveranno anche gli altri e torneranno per il Gondogoro Pass. Mi sembra in forma ora, ma dice di essere stato poco bene al C2, con diarrea e vomito e di aver rinunciato alla salita in vetta per quel motivo. Sei su dieci Scoiattoli sono arrivati in cima, usando l’ossigeno, probabilmente gli brucia un po’ di non essere tra questi. Ne so qualcosa anch’io. Dopo la sua meravigliosa realizzazione invernale e solitaria sulla via Solleder al Civetta, nel 2000, a Marco sono successe tante cose. Prima di tutto un matrimonio con Barbara, poi la nascita di Giulio. Quindi le traversie, ben tre incidenti che lo hanno tenuto fermo parecchio tempo, lontano dalle scene internazionali. Specialmente il primo incidente, al braccio destro, ha rischiato di compromettere per sempre una splendida carriera alpinistica. Ogni volta che si sentiva pronto ad affrontare una nuova impresa, in genere qualcosa che a lui piaceva molto, un obiettivo del tutto personale, fuori dalla mischia della competizione, capitava la rogna che lo costringeva a stare tranquillo, a rimandare. Era da giugno 2003 che si parlava di una sua partecipazione alla spedizione degli Scoiattoli. Allenamento, concentrazione, eliminazione di altri obiettivi secondari. Un uomo di 31 anni, abituato a decidere da solo, a seguire da solo le proprie intuizioni, si trova inserito in una nuova avventura di gruppo, dove la maggior parte delle decisioni sono già prese in anticipo da altri.
E infatti è dura per lui sottostare alla disciplina di team, non sente di poter respirare quella libertà alpinistica cui è abituato neppure quando, dopo le purtroppo necessarie puntate di faticosa acclimatazione al C1 e C2, riesce a salire al C3 in condizioni di forma perfetta. Gli sherpa avevano attrezzato, portato in quota le tende… cosa rimaneva da fare, da risolvere, da decidere? E perché l’ossigeno, da Kari Kobler non imposto ma caldamente consigliato, doveva essere lì a disposizione, accettato da tutti gli altri? Perché usarlo, quando gli italiani di Da Polenza ne facevano a meno?
Sono stati solo due i momenti di gioia che lo hanno toccato, in più di un mese. Il primo allorché decide di andare al C1 a fine pomeriggio, a conclusione di ogni andirivieni della giornata. Arrivare al C1 nel buio incipiente, nell’irreale trasformarsi delle cattedrali in cristalli che disperdono luce, entrare solitario nella tenda e prepararsi da mangiare e da bere come un eremita. Il secondo proprio oggi, dopo aver deciso di partire un giorno prima, lasciando la compagnia, nella discesa verso la vita e la libertà, quattrocento metri più in basso da un amico che potrebbe essere suo padre. Quanto assomiglia ad Aldo! Il padre è stato ed è uno dei miei amici più cari: lui se ne era andato dal Lhotse nel 1975, volontà incompatibile con i disegni del gruppo e del beneamato patriarca Riccardo Cassin. La storia si ripete sempre. E rimangono gli stessi dubbi, le stesse consolazioni, avrò fatto bene a non insistere? Avrò fatto il mio dovere fino in fondo? Ma a quei prezzi, no. No ai congelamenti per rispondere al dovere, no al kazako disperso e sicuramente morto, no alla vetta a ogni costo. Quello spagnolo, quello sì, che è salito come un fulmine e sceso altrettanto veloce; oppure Silvio Mondinelli, un trattore d’alta quota. Quelli sì che hanno il margine. Anche se Silvio l’aveva deluso: pur essendo padre novello, alla domanda di Marco se non vedeva l’ora di tornare a casa, Gnaro gli ha risposto che sarebbe stato ancora in giro volentieri, magari a fare altre montagne.
Marco trova modo anche di farmi i complimenti per il nostro solitario modo di muoverci sul K2 25 anni fa. Li accetto, ma svio il discorso perché m’interessa di più sapere altri particolari, sia sul tipo di spedizione appena vissuta, sia sul suo stato d’animo: voglio che mi parli di come sta affrontando l’ennesimo sbarramento ai suoi progetti.
– Avrei accettato molto più facilmente l’arrivare a 8000, 8100 o 8400 metri senza ossigeno per sentire magari di non farcela. Sarei tornato indietro e sarebbe finita. Ma tornare per una diarrea che ti ferma e ti debilita è difficile da ingoiare.
– Beh, se l’avvertimento fosse stato meno chiaro di questo, per te sarebbe stato ancora più difficile scegliere se salire o scendere…
– E se tu fossi arrivato in cima, cosa sarebbe davvero cambiato dentro di te? – è la domanda ammiccante di Giuseppe.
– A questo non ho mai pensato seriamente…
Concordia, 3 agosto, ore 7
La sera del 31 ci ritroviamo nella tenda di Jacopo e Andrea, invitati. Fanno capolino anche il senatore Fausto Giovanelli e qualcuno dei suoi compagni di viaggio. le ore volano e ci ritroviamo fuori alle 22: i sassi sono ricoperti di un leggero strato di ghiaccio, il cielo è sereno… Le montagne incombono come al solito, ma questa volta sembrano promettere qualcosa. Mario, Giuseppe e io torniamo alle nostre tende dove il senatore aveva lasciato in ostaggio un satellitare in carica. In tenda contemplo i regali avuti per il compleanno, il sasso di marmo con olivina raccolto da Jacopo in vetta alla Quota 5461 m, il pezzo di formaggio grana di uno del gruppo, il rotolino Velvia 6×6 di Franco, sottratto con il cuore alla sua già esigua scorta. Nonostante le belle parole di Jacopo sul mio alpinismo degli anni ’80, secondo lui sempre in anticipo, anche questa sera non si è parlato di Noblex e di eventuali collaborazioni. Giustamente.
Relego perciò nel cantuccio delle remote possibilità un coinvolgimento nel loro lavoro. Domani, 1° agosto, sarà ancora brutto e loro decideranno che fare.
La mattina dell’1 è segnata dalla partenza di Mario, dall’invito a pranzo al senatore Giovanelli, con il quale si può parlare davvero di molti argomenti. Egli ci inviterà a sua volta a cena, previa conferma. Che arriva solo quando ormai Giuseppe e io abbiamo finito di mangiare. Fausto ci rimane un po’ male, così decido di seguirlo al suo campo, solo per la compagnia.
Il tempo ha fatto il matto tutto il giorno e continua. La temporanea schiarita notturna ormai non inganna più nessuno. Al campo sono agitati perché domani saliranno all’Alì Camp e quindi al Gondogoro Pass il giorno dopo. Sperano in un tempo migliore e soprattutto di non farsi massacrare dalla quota del valico.
La mattina del 2 ingerisco un uovo fritto che quasi subito mi provoca nausea. E sarà così per l’intera giornata, senza scrivere una riga. Al pomeriggio mi rinchiudo in tenda e dormo. Giuseppe e io siamo soli, nevica e sono malato.
Alla sera mi alzo per deglutire due sorsi di minestra, ma finisce che devo correre alla tenda-toilet. Mi dispiace non fare compagnia a Giuseppe, che già è irritato per la forzata inattività, preferisco sbattermi in tenda e dormire tutta la notte. Nessuna novità da Jacopo e Andrea.

Concordia, 3 agosto, ore 9
Prima di riemergere dalla tenda per colazione, la considero nella sua dimensione chiusa, mondo concreto di identica ripetizione giornaliera. Difesa contro il ticchettio che ha imperversato la notte. Le mie cose sono sparse, più o meno come le ho lasciate quando ho cambiato tenda il 30. Dormo su quattro materassini che la pendenza spinge contro il palo al centro. Il cuscino è una pila di due sacchetti di plastica, il primo con le camicie pulite, il secondo con le t-shirt. Al di sopra, per non mettere la testa proprio sopra alla plastica, c’è una t-shirt non ancora classificata come sporca.
Un ulteriore materassino occupa l’altra parte dell’abitacolo, onde smorzare il contatto diretto con il ghiaccio. Tra il telo esterno e quello interno ho messo gli oggetti che non servono sempre e che non patiscono, le sacche da trasporto, la piccozza, i ramponi, l’imbragatura, i due sacchetti con i guanti da lavoro. Figura anche una bottiglia vuota, dall’unica libagione di Arneis fatta il 29 sera, grazie a Pietro Giglio. Per dormire ho scelto la parte sinistra. Al fondo della parte destra è un sacco pesante con le batterie, che credo di aver portato in sovrannumero. Poi un contenitore di plastica a coperchio avvitato, teoricamente impermeabile, racchiude i film 6×6 esposti. Un sacchetto di nylon viola racchiude invece i 24×36, protetti dal loro piccolo contenitore di plastica. Tornando verso la testata, sul lato destro, ecco le due ricetrasmittenti, il corpo Nikon di riserva (che spero di non aprire neppure), lo zaino Lowe pro verde che contiene il materiale fotografico; poi ancora i film vergini, sia i 24×36 che i 6×6. Questi ultimi, vista la mancanza di Noblex, non li userò più ma ovviamente li tengo. Lo zaino racchiude anche le mie cose più preziose, il passaporto, il biglietto aereo, i soldi.
Ogni tanto controllo se ogni cosa è al suo posto, il coltellino, i biglietti da visita. Mi conforta che ogni cosa sia lì dove deve essere. I pantaloni kaki, usati per il trekking fino a qui, sono lì appoggiati: li sposto ogni volta che cerco qualcosa, prima o poi li ripiegherò. Anche giacca a vento e veste duvet sono lì, in quella zona, a coprire ciò che ho appena descritto, come se gli oggetti coperti dovessero avere meno freddo. Non so perché ma l’apparecchio GPS è lì alla testata del materassino, non lo uso da quando sono andato al CB del K2. Un piattino di metallo alloggia qualche sasso per tener ferma una sottile candela rossa che accendo ogni sera quando mi corico, per leggere o scrivere. Accanto è la pila frontale, un aggeggio obsoleto che mi ha provocato solo problemi di contatti e pile scariche. L’accendino è nella tasca laterale, assieme al lucchetto e alle chiavi per chiudere la sacca. Sempre sul materassino troneggia la borraccia che mi ha regalato l’ufficio turistico della Carinzia. Dentro è acqua con sali integratori e polverina al gusto di aranciata, che bevo con disgusto ogni tanto. Poi c’è l’orologio, che odio portare al polso, quindi il termometro. Dietro al mio cuscino, sfatti, i sovrapantaloni imbottiti finora non usati, in attesa di temperature più rigide. Quella è anche la posizione notturna dei due telefoni satellitari (spenti), quello di Montana e quello del CAI, riposti amorevolmente nel mio berretto baltì.
Alla mia sinistra continua la fila di sacchetti, quello delle calze, quello delle mutande, quello della biancheria sporca (accuratamente annodato), quello delle medicine. E poi ancora le candele, il borsino da toilette, gli scarponi. Uno di questi alloggia la bottiglietta di plastica segata al collo che al mattino è sempre piena di piscio. Infine, cacciati là alla rinfusa vicino a una cerniera che stenta ad aprirsi o a chiudersi, gli stivaletti imbottiti che uso come calzatura da riposo, orrendi a vedersi e più freddi di quanto uno potrebbe aspettarsi.
I movimenti per uscire dalla tenda sono goffi, sia perché ho dormito per 18 ore, sia perché i sassi, che dovrebbero fare da scalini al monticiattolo di ghiaccio su cui appoggia la tenda, ogni notte si assestano a capriccio perdendo solidità. Occorre risistemarli con pazienza, senza opporsi alle naturali modifiche del ghiacciaio e assecondandone i lenti movimenti.
Uno potrebbe chiedersi perché mai ho sciupato pagine e inchiostro per descrivere una normalissima tenda. Certo, una banalità. Ma un luogo per nulla ordinario come questo richiede il comfort della banalità, delle più semplici certezze.
Un’altra sicurezza è data dalla fila, non dico continua ma pressante, dei portatori che ci vengono a trovare per essere visitati e avere medicine. Tosse, catarro e bronchiti sono il minimo. Si siedono rispettosi sulla sediola, esprimono a gesti la loro anamnesi, in un dialogo di occhiate e sorrisi, con poche parole.
– Salamaleitkum!
Il difficile è sempre spiegare quante pillole devono prendere al giorno, una o due, quando e per quanti giorni (nella speranza che non ingurgitino tutto assieme).
Sono indeciso se entrare in tenda mensa, dove si sono accomodati una decina di olandesi: viaggiano con Walji’s, quindi sfruttano la medesima organizzazione. Giuseppe, medicati gli ultimi baltì, ha deciso di entrare. Io non ho fame e non ho voglia di sforzarmi in inglese. Preferirei andare a vedere cosa combinano i collector al campo militare, ma rimando a domani, quando ci sarà il sole e se ci sarà.
E poi vorrei lavarmi e cambiarmi, ma rimando anche questo. Oggi forse andremo all’altro campo, dove abbiamo saputo che una dottoressa italiana staziona a presidio dei gruppi di Nodo Infinito. Non posso dire di annoiarmi, però continuo a lamentarmi con me stesso che il tempo passa troppo lentamente. Eppure sono venuto qui apposta, per scardinare le leggi del tempo, per mettere in movimento lo spazio più immobile, quello della mente prigioniera. A volte dubito di farcela e mi lascio andare al conto alla rovescia di quanti giorni mancano.
Ieri sera volevo telefonare a Guya, ma non l’ho fatto nel timore lei cogliesse un’eccessiva tristezza: meglio rimandare a quando l’ovetto sarà completamente digerito. Stasera forse telefonerò. Fuori intanto si sono decisi a smontare le tende pericolanti, di certo per via del gruppo olandese che pernotterà qui. Un gruppetto di italiani, già passato di qua l’altro giorno, è tornato a trovarci e ci ha portato la notizia che forse domani sarà bello.
Concordia, 4 agosto
Nel tardo pomeriggio di ieri (3) sono ripassati qui la guida Gianni Pasinetti e i due suoi trekker Fausto Giovanelli e Claudio Andressi. Non ce l’hanno fatta a superare il Gondogoro Pass e sono tornati indietro all’Alì Camp fino a qui. Il resto del gruppo ha proseguito, grazie all’aiuto di Merizzi e Michieli. Deve essere stata una fuga, senza poter vedere nulla. I compagni di Gianni non stanno bene perciò, anche per questione di tempi, hanno chiamato l’elicottero (che si è ben guardato dall’arrivare con una visibilità del genere).
Agli ospiti in tenda si aggiunge Annalisa Fioretti, la dottoressa che era stata segnalata in arrivo il giorno prima. Ci ha preceduti nel farci visita.
La sera gli olandesi si erano confermati simpatici anche se di poca elasticità di programmi. “Domani il tempo farà ancora schifo” dico, ma loro non demordono e partiranno ugualmente per il CB del K2. Mi permetto di consigliare una giornata di riposo, ma mi rispondono che si sono riposati fin troppo nella marcia fino a qui (!!!) e che il giorno dopo ancora vogliono andare allo Shangri-la Camp sulla via dei Gasherbrum e quindi ancora Alì Camp e Gondogoro Pass. Un programma davvero nutrito, concludo poco convinto.
Questa mattina, se possibile, il tempo è peggiorato. Neve per tutta la notte, le tende al limite, olandesi partiti (meno quattro, i più furbi).
Altro giorno sadicamente uguale, neppure i collector vanno a lavorare, nella neve fresca non sarebbe possibile. La solita fila di baltì dal medico, una telefonata da Skardu di Mario e Franco, ancora Gianni, Fausto e Claudio che ci portano i loro avanzi di grana e prosciutto in un bellissimo bidone di plastica (lo terrò). Sono proprio gentili, sperano che l’elicottero li prenda domani o dopodomani, per non perdere l’aereo per l’Europa. Giuseppe distribuisce pastiglie, Fausto legge l’Inferno della Divina Commedia (Ahi genovesi…), Gianni si nutre dei mielosi giudizi dei soci CAI trascritti nel librone ufficiale. A me verrebbe da commentare che se tutta quella varietà di emozioni descritte potessero essere vissute da una sola persona, quella sarebbe la più felice del mondo. Ma non scrivo nulla, per rispetto.
Passano anche quelli di Avventure nel Mondo che hanno deciso di non affrontare il Gondogoro e di scendere subito per Gore 2 o Urdukas (dipende dai portatori).
Alle 16 mi ritiro in tenda per scrivere, ho la sensazione che il tempo stia cambiando. Ciò mi porta ad affrontare il prossimo cambio d’abiti e di biancheria intima. Ho sbagliato parecchie cose nel mio bagaglio. I dopo-sci sono troppo freddi e ormai puzzano… La cerniera laterale per infilarli è una vera tortura. Non mi cambio la maglia intima a maniche lunghe da quando ho recuperato qui a Concordia dei completi intimi dimenticati da qualche socio CAI. Indosso la felpa rossa di cotone che avevo quando sono arrivato qui, una camicia con tasche, il pile nero, il duvet. Quando m’infilo nel sacco piuma sento distintamente il sudaticcio dell’intimo allo stremo. Il berretto, di pile, è perennemente calcato sulla testa, ormai infastidita dai primi pruriti. Se mi gratto sotto i capelli, rimane una sostanza biancastra sotto le unghie, che ciò nonostante sono abbastanza presentabili, mentre i piedi sono avvolti in un paio di calze di cotone troppo leggero, sempre le stesse da Urdukas, forse un record. Trovo inutile cambiarle fino a che non potrò lavarmi i piedi al sole e in un catino. L’uso delle salviette non è sufficiente, per di più voglio farne un consumo moderato, dedicato al sommario bidè. Qui infatti arrivano note ancora più dolenti. Da queste parti infatti si urina spesso e l’igiene va facilmente fuori controllo. Sotto alle mutande lunghe ormai puzzolenti e sotto ai pantaloni tecnici North Face, il corpo agogna un ricambio di mutande. Domani, forse.
Questa è la situazione di chi dovrebbe essere qui per meditare, al cospetto dei colossi, nel rispetto del creato esagerato, con il sospetto di aver tutto sbagliato.
Domani, con il bel tempo, devo controllare i carichi finora raccolti, il perché di una numerazione che ha subito un salto tra il 21 e il 31, quanta spazzatura è ancora da raccogliere all’Army Camp di Concordia, quindi provvedere per le due discariche tra Gore 2 e Concordia. Quanti sacchi di juta ci servono ancora e infine fare un programma di sgombero da sottoporre a Mehfuz.
Concordia, 5 agosto, ore 11
Mi sveglio nel progressivo calore di un sole appena levato nel grandioso circo. Gli olandesi partono per il Shangri-la senza sapere ancora se torneranno qui o andranno direttamente all’Alì Camp.
Sono pieno di piccole cose da fare, la biancheria da scegliere, decidere subito cosa regalare a Ibrahim e Bashir. Dopo colazione riparo la pila frontale, optando per una specie di interruttore volante. Poi arriva la parte godereccia, cioè il lavaggio al sole con due catini di acqua calda. Prima le parti intime, poi i piedi, poi ascelle, testa e faccia, protetto dal tendone medico. Lavo anche la maglia in capilene, che metto ad asciugare assieme all’asciugamani. I pantaloni e la tuta li piazzo al sole, non lavati, so che il sole fa miracoli anche con gli odori. Nel frattempo arriva il tè, altra piccola cerimonia da non perdere. E sul più bello arriva l’elicottero che, dopo un salto al CB del Broad Peak, atterra a Concordia, presumo per prelevare Pasinetti, Giovanelli e Andressi.
Sfoglio ancora il librone per vedere cosa ha scritto il senatore. Mi colpisce la sua frase di chiusura «la passione e l’impegno politico per l’ambiente trovano in un luogo come questo la freschezza di una sorgente di montagna». Sull’onda, ricopio un’altra frase (firma illeggibile, CAI Novara, 26 maggio 2004): «Nel profondo dell’Himalaya vive la leggenda di un’alta sacra montagna, dalla sua vetta la tua ombra cade sulle terre sottostanti, in esse si rivela la tua via, come in un sogno te stesso». Anche se non è sua, ha fatto bene a ricordarla, perché è veramente bella.
Davanti a me è la Quota 5461 m, ormai diventata quasi ossessione. Ieri Marco Milani mi ha telefonato e mi ha proposto di mandarmi la sua Noblex con Silvia, che arriverà qui il 17 agosto. Di qui ad allora niente da fare, ma questo tempo stupendo mi fa sognare.
Le discussioni religioso-filosofiche con il cattolico Giuseppe continuano: uomo brillante, intelligente, vivido di contrasti, ha scelto la fede come sentiero principale della sua vita. Sa bene quanto sia facile prendere deviazioni-tranello, optare per le tentazioni per poi pentirsi. Il sugo della discussione, anche se di parole ne sono state fatte tante, è determinato soprattutto dalla diversa tipologia delle nostre letture (quante volte mi ha sottolineato l’importanza di leggere semplicemente il Vangelo e in particolare il più semplice, quello secondo Matteo); ma alla fine ci si scontra sulla completezza di Dio, che io riconosco sì origine di tutte le cose ma non ancora “compiuto”, nel senso che Jung dà a quest’idea nel suo Risposta a Giobbe, bisognoso quindi del cammino di conoscenza dell’Uomo per completare la creazione.
Per Giuseppe invece Dio è Uno, sia pur trino, e l’uomo non partecipa al suo progetto, perché l’uomo è nullità e senza Dio ancor meno.
Il nostro parlare è divertente, perché sappiamo che la verità la esprimiamo entrambi e c’è un sottile gioco a fare domande che possono mettere in difficoltà le rispettive visioni. Questo a fin di bene, di crescita, nel fondamentale rispetto dell’esperienza altrui, anche nelle affermazioni più accalorate.
Vedere che qualcuno non è vuoto interiormente accresce la curiosità di capire di cosa è pieno. Fa nascere “compassione” in senso buddhico, apre la strada ai travasi di idee e al commercio spirituale. Giuseppe parla continuamente di adesione, sostiene che è proprio e solo questo che Gesù vuole. Che noi abbiamo fede, che noi aderiamo con gli strumenti di conoscenza che ci sono stati dati. Qui nasce un discorso sulla forse eccessiva semplicità di questi strumenti, paragonati alla complessità delle moderne strutture individuali. Se quindi il cammino di adesione non è uguale per tutti, allora si può parlare di individuazione, quindi di proprio cammino personale. Aggiungo: come se Dio avesse davvero bisogno della nostra molteplicità di individuazioni, dei nostri diversi cammini, delle infinite possibilità di diverse adesioni che la nostra natura imperfetta può fornirgli.
Concordia, 6 agosto, ore 7
Ieri giro pomeridiano, poco più di 1,5 km verso Gore 2, alla ricerca delle discariche. Tra i collector non c’è Susgiat, che non sta bene. Ci si para innanzi una quantità di circa 3.000 kg da schiacciare e imbagagliare. Nella bella luce del sole quasi serale, faccio presente a Mehfuz che è ora di pensare ai portatori, per favore non all’ultimo momento. Di qui ce ne andremo il 22 o il 23: dovrò suggerirgli di pagarli di più, ma non è ancora il momento.
Rilevo le posizioni relative ai giacimenti maggiori, scatto qualche foto, poi torniamo in tempo per assistere a un bellissimo tramonto.
Giuseppe è andato a trovare Annalisa, ma lei era andata con il gruppo suo al CB del K2. Telefono a Guya e vengo a sapere che è con Petra ed Elena, che sono a Milano e non capisco bene perché. Andrea, il nuovo fidanzato della mamma, è stato operato di calcoli. Di sua iniziativa, Guya ha fatto leggere la mia costosissima risonanza magnetica a un amico del Vanetti. C’è la conferma che non ho nulla di preoccupante e che devo tenermi il mio fischio.
C’è un’innaturale attività di Dino, indaffarato a spostare tende o sistemarle. Tanto che la cena è pronta solo per le 20.30, per di più nella tenda della cucina, quindi al caldo. Con Giuseppe ridiamo della situazione, senza scarpe su materassini sudici, appoggiati a cumuli di sacchi piuma bisunti. Ci mettono la tovaglia, però. Il contrasto tra premurosa gentilezza e oggettiva precarietà della condizione igienica commuove e fa sorridere.
– Se lo raccontassi a casa non lo crederebbero! – è la conclusione di Giuseppe prima di attaccare deciso il brodino di carne, squisito, con annessi pezzetti di montone bollito.
Domani arriverà un gruppo di spagnoli, ecco il motivo di tanta confusione.
Concordia, 6 agosto, ore 11
Tra i vari passatempo di Giuseppe quando sta bene (il che da qualche tempo, complice il sole, si verifica con allarmante continuità) ci sono l’esposizione al sole in completa nudità e la costruzione di menhir.
Ieri con l’aiuto di qualche baltì ha rizzato il festone di benvenuto di Walji’s all’ingresso del campo (era da quando sono arrivato che lo vedevo trascurato a terra). Ora troneggia ben fissato e guarnito da due piccole ma notevoli costruzioni menhir. Più in là nel campo, tra le tende, con l’aiuto di me riluttante e di Mehfuz, ha innalzato un enorme pietrone allungato, arricchendolo in punta con due o tre sassi più piccoli (la testa del monaco). Per me potrebbe crollare da un momento all’altro, magari ferendo qualche ignaro passante, ma non sembra che la cosa lo turbi, tanto da costruirne un altro vicino, fatto però di tanti sassi impilati in modo improbabile ma scenico.
– Sta cercando di dare materia alla sua follia! – è il mio commento agli sguardi increduli di Mehfuz.
Intanto Gianni Pasinetti ci telefona da Skardu: il senatore colpisce anche da lontano, adesso lamenta un formicolio ai piedi. Dico di richiamare, adesso il medico non è disponibile (infatti sta costruendo menhir).
In attesa della richiamata giunge la notizia che nel gruppo di spagnoli in arrivo ci sono solo donne. Ciò ecciterebbe la fantasia di chiunque languisca in lande desolate, così dopo aver detto «Vago a tor il café» lamenta anche «n’do saran ‘ste spagnole»!
Mi domando che scrivo a fare queste note. Rileggendole mi sembrano banali, inutili, a volte stese forzosamente. Certo registrano la mia piccolezza d’intelletto, la mia inesistente statura meditativa. Riflettono i dubbi che pernnemente mi assillano, sono le linee di forza di un auto-referenziarsi, incapacità di estraniarsi, di vedere le cose dall’alto di un cielo al di sopra delle nuvole. La mancanza di fede è un pilastro, l’insieme delle debolezze è l’altro. Assieme sostengono un arco di volta sotto il quale si agitano milioni di piccoli vermi, figli indegni del caos, terrorizzati che tutto crolli loro addosso. Lo scenario è Concordia, dove la fanno da padroni il Broad Peak e il Gasherbrum IV. Il primo è un’immensa fortezza la cui quasi unica incrinatura permette a molti di salire, ma allo stesso modo naviga in una quantità di casuali sezioni paurose, dove il crollo di seracchi in imbuti giganteschi ha scoraggiato qualunque tentativo di esplorazione. Il Broad Peak è un mostro possente, non ci si stanca di osservare gli evidenti pericoli che ostenta quasi con vanità. Quanto al G4, è tutta la mattina che lo vedo, che seguo giochi di luce e ombra sul suo perfetto trapezio. La gigantesca parete ovest, appena divisa in due da una famosa nervatura, è in realtà una somma di disordini che la distanza pretende di annullare, ma che a un occhio esperto si rivelano essere risalti, canali, torri e pendii in aperta discordia tra loro. La parte sinistra poi è costituita da alcuni pilastri per i quali la prospettiva nega qualunque logica di connessione e consecutio.
Non so perché insisto tanto a spiare le architetture di possibili passaggi umani, visto che da tempo non è più affar mio. Forse perché il lupo perde il pelo ma non il vizio. Lassù, sulla nervatura, fu Giorgio Anghileri, non tanto tempo prima di morire schiacciato da un autotreno nei pressi di Lecco.
Il 22 giugno 1986 gli australiani Greg Child e Timothy Macartney-Snape con lo statunitense Thomas Hargis sono saliti sul lato sinistro del trapezio, la cresta nord-ovest, via poi ripetuta il 31 luglio 1999 da Yun Chi-Won e Kang Yeon-Ryong, membri di una spedizione coreana. Dal 13 al 26 luglio 1985, in stile alpino, il polacco Wojciech Kurtyka e l’austriaco Robert Schauer scolpirono il loro capolavoro nella parte centrale della parete ovest, a destra della nervatura, fallendo la vetta di un soffio. Raggiunta la cresta sommitale a 7900 metri, i due fuoriclasse, stremati, non pensarono per un istante di proseguire fino alla cima vera e propria e, individuata nella cresta nord-ovest l’unica via di fuga, la percorsero in discesa un anno prima della salita di Child e compagni.
Fu poi la volta, nel 1997, dei coreani Yoo Hak-Yae, Kim Tong-Kwan e Bang Yung-Ho che il 18 luglio giunsero in cima dopo aver superato, in stile assedio, la nervatura centrale della fantastica parete ovest.
Infine la cresta nord-est, quella di Walter Bonatti e Carlo Mauri del 1958, si nega alla vista..
(continua in https://gognablog.sherpa-gate.com/baltoro-2004-3/)
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È da molto tempo che leggo senza intervenire e penso che continuerò su questa linea. Mi piacerebbe però che venis approfondito quanto sollevato da Cominetti…che a questo giro non ha resistito….
Cronaca interessantissima; da normale terrestre che non sopravviverebbe in un ambiente così ostile ringrazio per la condivisione.
Descrizione tecnica professionale che mi ha fatto partecipare nuovamente a questa spedizione come fosse oggi. Pubblico nuovamente quello che mi ha lasciato felice durante il mese di spedizione – Kurt Diemberger, E IL CACOTTO (lo abbiamo visto seduto su una roccia appena partiti da Askole). Il nostro medico lo ha curato con le compresse – LACEDELLI incontrato mentre noi scendevamo – Il capospedizione Agostino Da Polenza andato via in elicottero per via della moglie molto malata (tumore al cervello). RIPETO IL COMMENTO AL QUALE HO PREFERITO NON GIUSTIFICARE LA SUA ASSENZA ANCHE SE NE ERO A CONOSCENZA – Ricordo il tramonto Dal Concordia, su Vigne Peaks e sul Chogolisa . Rimasi muto per tanta bellezza – la famosa Casa Italia al campo base K2 – le vele prima di arrivare al campo base – ed anche il ministro Gianni Alemanno e mons. Andreatta – anch’io ho assistito a diverse slavine – Sono felice di aver fatto con il cai questa esperienza con i 500 soci. Certo Marcello Cominetti ha ragione, e siccome il CAI non mi rappresentava più non mi sono più tesserato – Posso confermare che anche avendo la stessa età di Gogna, non ho accusato nessun malessere. Evviva!
Chissà se qualcuno sa dirmi (è un tarlo che mi rode da anni) le modalità di assegnazione dei trekking al campo base del K2 organizzati dal CAI in occasione del 50enario della prima salita, direttamente dall’agenzia di Beppe Tenti in luogo di un regolare bando a cui avrebbero potuto partecipare altre agenzie.
Al tempo, né Gabriele Bianchi, presidente generale del Cai uscente (che mi chiamò al telefono di notte per dirmi di smetterla di cercare un spiegazione) ma che aveva architettato il tutto, nè Annibale Salsa (che incontrai numerose volte a Savona e a Milano), riuscirono a darmi una spiegazione. Grazie.
PS: nell’Aprile del 2005 in punto di morte, il mio allora socio Cristiano Delisi mi disse di fare luce su questa storia poco chiara perché, noi come altri, eravamo titolari di un tour operator che avrebbe volentieri preso parte alla cosa, ma i giochi, a quanto pare erano già stati fatti.
Montagna bellissima il G IV , montagna di luce.
Caspita. Questa secondo me ha la dignità della grande letteratura.
Chissà se Alemanno in cella stia ripensando a quei giorni lì