Bit.Alpinismo – Rewind

Avevamo già pubblicato il 3 aprile 2017 una versione più elaborata di questo articolo. Che perciò viene presentato oggi nella versione originale.

Bit.AlpinismoRewind
(considerazioni per una sglobalizzazione)
di Lorenzo Merlo
(scritto nel 2003)

Muoversi ora con la disponibilità di tecnologia per la comunicazione (telefoni satellitari, collegamenti al web, meteo in tempo reale, contiguità virtuale con la civiltà e gli affetti profondi e personali e comunque anche concreta per mezzo di elicotteri, cioè contiguità con potenziali soccorsi organizzati che, con eventuale tempo favorevole, sono quasi una garanzia almeno per parte delle situazioni) è in un certo senso un ambiente che, senza tirare troppo, può essere assimilato a quello del chiodo a pressione/superdirettissime a goccia d’acqua, ovvero a quello dell’impiego dell’ossigeno per le salite ad alta quota. Sono tre diverse espressioni parzialmente assimilabili perché tutte queste tre direzioni esistono entro l’impiego strumentale della tecnologia per la garanzia della prestazione.

La crescita della capillarizzazione della mediatizzazione in tempo reale è collusa con la crescita della quantità di informazione che ogni individuo è tendenzialmente costretto a subire. La messe di dati, diversamente da quanto si è tenuti a credere però, non crea informazione e sapere. Crea luoghi comuni. In termini simbolici,

il luogo comune non è un trait-d’union bensì unmuro nei confronti della verità. Nessuna compassione – in senso laico – può avvenire tra chi detiene il luogo comune e ciò che il luogo comune copre. Così, la grande quantità digitale e non di informazione implica anche il rischio di distanziare al posto di avvicinare le parti. Se le imprese fino ai tempi di Cassin e di Bonatti erano capaci di rappresentare tutti noi, già le ultime di Messner, e a maggior ragione, quelle accadute più recentemente, non avevano più la capacità di esprimere un sentimento comune, mentre acquisivano quella di far nascere quasi l’indifferenza nell’immane pubblico che ne veniva a sapere (e non solo quello profano di montagna). Una specie di esorcizzazione. Così come il comico continuando la sua satira politica partecipa a rendere via via più ordinario ciò che all’origine era straordinario.

Si percepisce un senso di superfluo messo in evidenza da una mediatizzazione (web, tv digitale) disponibile a sottolineare ogni valore tecnico sportivo, ma nel contempo incapace a “dimostrare” l’esigenza storica e sociale delle grandi imprese di oggi.

La dimensione tribale, “clànica”, di vallata, di regione e di nazione dell’alpinismo conteneva ed esprimeva esigenze di identità e di confronto condivise dal terreno sociale che le produceva.

Un’assistenza e un’architettura intima e psicologica definitivamente svanite con il wireless, perse nello spazio della comunicazione satellitare.

Oggi un record muove il palmares personale, gli elenchi di biografi e storiografi, ma non ha più un popolo – se non personale e commerciale – di sodali ammiratori capaci di sentire, come volere, quell’impresa stessa.

Si può tranquillamente dubitare che la notizia sia “spinta” dall’ufficio stampa dello sponsor che “per diritto commerciale” la diffonde per proprio tornaconto marketing, secondo logiche che sussistono e riguardano più il business che le dimensioni precipuamente alpinistiche. Potremmo aver a che fare con un alpinismo paritario con il commercio che muove. Se la cosa non è in fondo una novità da addebitare esclusivamente ai giorni d’oggi, diversamente da un tempo, è la dimensione che diviene sostanza, è il medium che è il messaggio.

Reinhold Messner e Peter Habeler dopo la loro salita senza ossigeno dell’Everest (1978)

Whymper risuonò negli ambienti inglesi. Comici, Solleder e Cassin uscirono dalla famiglia della montagna per raggiungere quella più ampia del nazionalismo. Bonatti entrò nelle case di tutti. Messner affermò la dimensione professionale dell’alpinismo e le sue comunicazioni divennero di tipo sociale. Dopo di lui venne il tempo della tecnologia del tempo reale, ove il sacro è esorcizzato al punto da perdere la sua voce umana ed acquisire quella della merce.

Nel gelido cosmo della comunicazione permanente in tempo reale si è perduta una saggezza. Una saggezza esoterica con le sue vene essoteriche. Quella che per secoli era stata capace di tramandare le basi terrene di ogni fare. Quella che era riuscita a far sentire in ognuno – salvo eccezioni – il solco fondamentale per riconoscere la propria vita, la propria identità, natura, direzione, valori. Quella dei Padri.

Il primo passo verso quella perdita risale al secolo scorso, quando la percentuale di figli che non assistevano più al mestiere dei propri padri avviavano il processo oggi al culmine. Un culmine il cui peso non ha ancora trovato la sua bilancia. Sui piatti si confronteranno ancora una volta il progresso e l’umano. Ma quanto progresso c’è nelle conference call, nei mediashopping, nelle adozioni a distanza? E quanto umano perduto? I suicidi numerosi e in crescita tra le più emancipate società occidentali, la diffusione e l’impiego di armi tra i giovani della più grande democrazia del mondo, le guerre d’ordine economico, ne sono il segno e l’indice.

Naturalmente, come ci sono similitudini, pragmatico-filosofiche in questo caso, così ci sono molte differenze. Sono evidenti, non serve qui precisarle. Sono però forse più di tipo formale che sostanziale.

Se storicamente conosciamo i contesti che hanno provocato certe espressioni, possiamo anche – senza sforzo – dare tutta la legittimità a quelle stesse espressioni. Così, come chi sosteneva che impiegare i chiodi a pressione fosse del tutto ordinario e condivisibile; e così altrettanto per l’impiego dell’ossigeno, ulteriormente sostenuto dall’inconfutabilità (sic!) della verità scientifica che fino a Messner aveva considerato impossibile sopravvivere a certe quote senza l’ausilio delle bombole.

E così oggi che siamo nel pieno della luce della comunicazione permanente, perché mai dovremmo allontanarcene? Perché mai dovremmo rinunciare? E’ una domanda alla quale non ha senso e valore fornire una risposta razionale. Anzi, razionalmente parlando, c’è il rischio di ritornare a formulare la domanda stessa.

E’ umanamente che si può trovare una risposta. Umana è stata la risposta che ha evitato di finire nel “vicolo cieco” di un alpinismo di chiodi a pressione. Umana è stata la dimostrazione dell’Everest senza ossigeno. Umana sarà la spinta di coloro che vorranno tornare a valutare una prestazione anche in funzione degli ausili tecnologici impiegati. Così come oggi dopo anni di pareti perforate a favore del plaisir è forte il movimento che rinnega quella stagione, che da quella stagione nasce e trova i motivi umani per non perforare più là dove il clean climbing può essere praticato.

La stagione dell’edonismo ha trovato i suoi confini forse più per motivi economici che spirituali. Forse, quella dell’opulenza li troverà attraverso argomenti oggi nuovi per molti, almeno nella loro forma più esoterica. L’ecologia ci ha fatto portare a valle le corde e i resti delle spedizioni precedenti, ci ha spinti a compiere salite senza lasciare traccia, senza abbandonare alcunché di ciò che un tempo, in quanto rifiuti, era normale lasciare là. Ma non ci ha ancora costretti all’angolo. Non ha avuto la forza per lasciarci a terra, per evitare di consumare un volo intercontinentale, per suggerirci che entro la nostra bella passione c’è ancora tanto di colonialismo culturale, di esportazione della verità.

L’astronauta Maurizio Cheli e il suo computer al campo base dell’Everest

Quel punto di forza che l’ecologia non ha saputo offrirci potrebbe arrivarci in dono dalla cosiddetta ecologia profonda. Una dimensione dell’ecologia che non è vincolata alla dimensione materiale, che non sta entro le leggi, i decreti e i regolamenti e le sanzioni. Sta nell’uomo. Nelle sue consapevolezze. Finché non sentiamo il creato come una parte di noi, finché l’Uno non si mostra a noi facendo sparire l’io nel quale soggiorniamo spensieratamente, la dimensione materiale dell’ecologia sembrerà il massimo che possiamo fare. Sembrerà un argomento per il quale si potrebbe provare soddisfazione. Ma la raccolta differenziata non vale nulla se le azioni, i pensieri e i sentimenti restano allineati e riflettenti una cultura totalmente materialistica. Se cioè il nostro fare si accontenta dello scopo che può raggiungere e non è in grado di scegliere, ragionare e volere per l’infinito.

C’è un sapere dentro l’umano che non passa dall’intelletto, dallo studio e dall’avere. E’ quel sapere che ha impedito la morte dell’alpinismo per ben due volte. E’ ancora lui che ha creato il clean climbing prima e il trad oggi. C’è da sospettare che ancora a lui dovremo rivolgerci per fare il punto. Per ritornare alla domanda fondamentale, quella che ci chiede di dare un peso e una misura ad una impresa – perché comunque impresa resta – compiuta secondo il modello ecologico o secondo quello dell’ecologia profonda. Sì, perché, se oggi non abbiamo incertezze su quale salita sia di maggior significato se compiuta con o senza l’ausilio dell’ossigeno, dello stile impiegato, della traccia battuta, delle fisse preallestite, dello sfruttamento degli involontari servizi forniti da altre spedizioni ed alpinisti, lo dobbiamo alla consapevolezza che le scelte compiute da alcuni, in anticipo su tutti, ci hanno provocato. consapevolezze che oggi non sembrano soddisfatte se chi usa le bombole le porta anche a casa, vuote o piene che siano. Non ci basta più, in sostanza il criterio ecologico, pretendiamo un’etica maggiore per sentire quella soddisfazione.

Bit.Alpinismo – Rewind ultima modifica: 2024-12-31T05:54:00+01:00 da GognaBlog

Scopri di più da GognaBlog

Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.

3 pensieri su “Bit.Alpinismo – Rewind”

  1. Il confronto dell’alpinismo moderno con quello del passato fa emergere le differenze segnalate nell’articolo. E’ giusto richiamare chi si dedica a imprese impegnative a staccarsi dai condizionamenti mediatici e a concentrarsi solo sulle vere motivazioni che devono animare l’alpinista. Credo, comunque, che esistano persone che scalano, anche montagne impegnative, puntando non alla visibilità, ma alla soddisfazione della sfida con se stessi in un contesto ambientale meraviglioso.

  2. Nemmeno io credo di aver capito tutto, ma mi azzardo ugualmente con un commento personale.
    Ho smesso di seguire “la montagna” una ventina di anni fa con l’emigrazione, problemi fisici e lavoro. Ultimamente ho ricominciato a leggere e guardare video e penso che l’alpinismo sia il più bel sport che una persona possa praticare, nonostante, personalmente, oggi la mia droga sia il cicloturismo. Quello su cui oggi più filosoficamente sorrido, sono le discussioni sul nulla che il nostro (mi permetto di ritenermi ancora alpinista nonostante tutto) sport fa da secoli.
    Leggendo l’articolo ho pensato: ma perché non ci facciamo un po’ i ca*** nostri? Guardiamo solamente il lato ecologico e della sicurezza dell’individuo, poi che ognuno salga come meglio crede pareti e cime himalayane e se ci guadagna buon per lui.
    Piccoli esempi. Parete Preuss al Campanile Basso, Preuss la salì senza un solo chiodo, Italia 61 al Ciavazes se non ricordo male la via era un chiodo dopo l’altro. Sono due vie in Dolomiti, una sarà più prestigiosa dell’altra, ma chi le aprì trovò la sua soddisfazione personale e non fece male a nessuno. Messner senza ossigeno sull’Everest in solitaria che diventa sempre più famoso, contro el sciur Brambilla con ossigeno ed accompagnato da una guida nepalese, passo dopo passo, fino in vetta al medesimo ottomila spendendo i soldi risparmiati per questo suo sogno che fino a qualche decina di anni fa riservato solo “a quelli veri”. Per me i quattro esempi portano a quattro performance che possono essere considerate simili. Ognuno ha affrontato la montagna in maniera differente. L’importante è che non si lasci spazzatura alla base o lungo le pareti e che gli sherpa non rischino la vita accompagnando persone che non sono in grado nemmeno di allacciarsi i ramponi.
    L’importante non credo siano i chiodi di una dell’altra via, chi ci guadagna o chi ha speso, ma che i quattro personaggi si siano diverti ed abbiano portato a termine con successo la loro sfida personale.

  3. Non sono sicuro di aver capito proprio tutto due cose però mi vengono spontanee in mente.
    La prima è che non credo che sia colpa della sovraesposizione tecnologico-digitale ad allontanare l’alpinismo di punta dal sentire comune, ma del fatto di essere diventato semplicemente incomprensibile per la persona comune ma anche per l’appassionato, per i quali risulta semplicemente impossibile comprendere le differenze di valore nelle varie imprese.
    Voglio dire, finché i criteri erano immediati (il primo, la prima, senza guide, senza ossigeno, ecc.) non è stato un problema. 
    Poi le cose si sono complicate anche per gli alpinisti (come paragonare l’arrampicata in dolomiti con quella sul Bianco?) e allora è intervenuta la “pubblicità” o la propaganda, cioé la capacità di dare visibilità e importanza (anche se un tizio che ha fatto la prima sulla nord di Lavaredo e sulle Jorasses ha aiutato)
    Ma adesso, come si fa a valutare/paragonare una solitaria slegati sul Capitan, l’attraversata integrale del Fitz Roy, la Mazeno Ridge o una spedizione in autonomia con 90 miglia in canoa nel mar glaciale artico? O anche solo che differenza c’è tra un 9a e un 9a+, quando a una persona normale non riesce a capire come si possa salire un 6a?
     
    La seconda è che il criterio ecologico sia sempre stato disatteso nella valutazione alpinistica, altrimenti il norvegese (forse) che è partito in bicicletta per scalare l’Everest sarebbe stato acclamato come il più grande di tutti i tempi
     

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.