Metadiario – 152 – Boulder Highway (AG 1989-002)
Sapevo bene anche prima chi era, però la simpatia di Franco Ribetti mi si era stata rivelata al Festival di Trento del 1988. Lui si era fatto il viaggio Torino-Trento già l’anno precedente, quando era stata fatta nell’ambito del Festival la prima edizione di MontagnaLibri. La sua grande passione per i libri di montagna l’aveva ricondotto a Trento anche nel 1988: lo avevo incontrato mentre stava valutando se comprare o meno un costoso esemplare, avevamo parlato a lungo, misurando le nostre rispettive manie di collezione ma anche di progetti e sogni nel cassetto di scalate. Avevamo anche arrampicato nella palestrina di Coltura, con noi era anche Royal Robbins. Di mestiere lui era dirigente di un’azienda che commerciava vini, ma a me sembrava che di tempo libero ne avesse abbastanza. Per questo c’eravamo tenuti in contatto e finalmente venne l’occasione di fare un weekend in montagna assieme.
Scegliemmo la Svizzera centrale come prima uscita. Era appena stata pubblicata la prima edizione di Schweiz-Extreme, una guida rivoluzionaria di scalate in Svizzera, a cura di un personaggio che sarebbe in seguito diventato assai famoso, quel Jürg von Känel autore, disegnatore ed editore di tutte le future guide della Filidor Verlag.
Decidemmo di provare la via Adlerauge sulla parete sud-est del Klein Wellhorn 2701 m, un itinerario aperto da Kaspar Ochsner con Ruth Baldinger e K. Glarner nel 1987.
Il 23 giugno 1989 il tempo incerto ci consigliò di arrampicare sui monotiri di Goescheneralp, ma il 24 prendevamo da Rosenlaui 1321 m il sentiero per la Engelhornhütte. Giunti al ponticello in legno sulla forra della Gletscherschlucht, lo abbandonammo a destra per prendere una traccia inizialmente un po’ incerta che supera con una corda fissa una breve fascia rocciosa bagnata e poi si innalza con strette serpentine in un bellissimo bosco rado di pini cembri. Dopo circa mezz’ora uscimmo sulla morena sotto il Wellhorn, dove notammo alcune piazzole da bivacco cintate di pietre.
Una parete spettacolare, una gemma di calcare marmoreo incastonata tra i picchi rocciosi degli Engelhorner e i ghiacciai dell’Oberland. Tra le vie moderne a firma Kaspar Ochsner, Adlerauge non era tra le più difficili tuttavia l’ambiente era abbastanza severo. In altri tre quarti d’ora arrivammo all’attacco, con il nome della via scritto in arancio sopra ad una nicchia.
La via è piuttosto lunga (18 tiri fino al libro di vetta, 20 se si esce in cresta) e le difficoltà sono continue (12 tiri sono sopra il 6a). Notammo subito che la chiodatura era buona in generale, ma con spaziatura eterogenea: ravvicinata sui passi difficili, si allungava molto sulle difficoltà più basse, con lunghi run-out che richiedevano un po’ di decisione. All’inizio l’arrampicata era molto tecnica e sui piedi, poi si faceva via via più atletica in alto.
Il passo chiave è al 12° tiro, un muro a piccole prese sovrastato da uno strapiombo: degli 8 spit presenti mi sono trovato costretto a tirarne tre. Peccato, perché le altre lunghezze le trovammo tutte generose con noi, dunque esaltanti.
Il 18° tiro è un bellissimo muro a buchi e lamette, seguito da un ultimo run-out di circa 10-12 metri fino alla sosta. Lì c’era il libro di Via e scoprimmo che la nostra era la 33a salita (e ovviamente prima italiana). Gli ultimi due tiri per uscire in cresta non sembravano così belli e non avevano la predisposizione per le soste di discesa. Così iniziammo subito la serie di 14 corde doppie che ci riportò alla base.
La sera avevamo già risalito la stradina che da Gadmen porta al posteggio 1570 m di Birchlaui: ancora non c’era la piccola funivia che oggi porta al Taellihütte 1726 m. Al mattino presto del 25 giugno oltrepassammo il piccolo rifugio e raggiungemmo la base e lo zoccolo (facilitato da alcune corde fisse) della parete sud del Taellistock 2579 m. La nostra intenzione era di salire la via più classica, quella che Sepp Inwyler e A. Bielmeier avevano aperto nel 1960 con un po’ di artificiale ma che oggi si può scalare con difficoltà fino al VII-.
Anche questa salita era presente su Schweiz-Extreme, ma io ricordavo molto bene quando Gabriella Morini aveva tradotto il libro di Walter Pause Im extremen Fels: quell’itinerario era il numero 22 e già allora mi era sembrato bellissimo…
Così scriveva Pause: “Risalendo la rampa occidentale della strada del Sustenpass, incontriamo sulla destra i monti delle Alpi dell’Uri Occidentale, circondati da ampi ghiacciai, sulla sinistra il Taellistock inserito nella cresta calcarea della Gadmenfluh. La parete sud del Taellistock offre il terreno ideale per le massime prestazioni di arrampicata libera su roccia calcarea. Il versante sinistro (sud-ovest), che si innalza sopra lo zoccolo quasi a perpendicolo, è stato scalato per la prima volta nel 1959 dalla cordata di Max Niedermann e Dietmar Ohngemach. Il tracciato conta 4 passaggi di VI grado e per il resto si presenta poco o mediamente difficile. I protagonisti della prima l’hanno superato in 9 ore… Un anno dopo S. Inwyler e W. Richard ne percorsero il lato est, che nella foto si trova lievemente a sinistra (a ovest) del pilone ancora illuminato dal sole. I primi scalatori impiegarono 15 ore: oggi lo stesso tracciato, di 400 m, viene superato in 5-7 ore. Tutti i chiodi (35) sono (di solito) in luogo, anche i chiodi di fermata. La via sale linearmente, con scarsissime deviazioni. Il giudizio di Max Niedermann su questo difficile itinerario, che egli conosce molto bene, è il seguente: «La parete, che richiama un po’ le bastionate dolomitiche, offre al rocciatore un tracciato estremamente vario, in roccia buona prevalentemente verticale se non strapiombante». Questo breve commento aiuta a classificare la via: infatti Max Niedermann è il primo scalatore di molte delle vie da noi descritte in questo libro, e sempre di vie moderne, estremamente complesse con tracciati determinati dalla logica, non dall’esibizionismo. Ricordiamo ad esempio la parete nord dello Scheideggwetterhorn, il Grosser Drusenturm, la Scheienfluh, la Graue Wand e il diedro dello Hundstein… La Gadmenfluh, tra la Gadmental e la Gental, si trova inserita in quella lunga cresta calcarea che dal Titlis, presso Engelberg, si dirige verso sud-ovest allineando le sue massime cime, cioè il Reisend Nollen, i Wendenstöcke e il Tellistock. Chi si ferma in vetta e guarda verso sud, scopre a sinistra il Sustenhorn e i Tierberge e, al centro, la catena principale delle Alpi dell’Uri che dal Dammastock arriva fino al Galenstock in vicinanza del Furkapass. Sulla destra si gode l’affascinante spettacolo delle Alpi Bernesi. Questa regione è tutta affascinante! Già il viaggio d’arrivo da Zurigo è ricco di vedute senza pari, di scoperte sensazionali: il lago di Zug, le montagne che sembrano uscire a piombo dall’intricato alveo del Lago dei Quattro Cantoni, i freschi tappeti erbosi che sembrano appesi al cielo color azzurro intenso; poi il Rigi, il Pilatus, l’Uri-Rotstock, il Titlis, addosso gli uni agli altri così, quasi accidentalmente, come creati con raffinata genialità da un formidabile architetto del paesaggio… […] (Pause riporta che il compagno di Inwyler era W. Richard: in realtà era A. Bielmeier, NdR)”.
Eravamo emozionati nel seguire le orme della cordata Inwyler-Bielmeier. Nel 1960 avevano scalato questa muraglia di 16 lunghezze di corda che c’incombeva sopra, incredibilmente esposta e ripida: e lo avevano fatto con i pesanti scarponi da montagna allora comuni e con quell’attrezzatura antica che anche noi conoscevamo bene.
Dai 2170 m dell’attacco, dopo due tiri di riscaldamento, salimmo il terzo di V+ e il quarto di VI+ in obliquo a sinistra, uno dei tratti più belli dell’intera salita, fino a un tetto giallastro. Ricordo che nella quinta lunghezza il passo chiave di VII- è in corrispondenza di un tetto giallo a circa 10 m sopra la sosta 4.
Vista dal basso la fessura principale che segue sembrava abbastanza paurosa, ma in realtà offriva ottimi appigli: come pure quella seguente, assolutamente brillante su una parete ripida, costellata però di maniglie in modo che le difficoltà rimangono gestibili. Dopo i primi 10 m lasciammo la fessura principale e puntammo a sinistra all’evidente sommità del pilastro, un punto di sosta molto comodo.L’ottavo tiro ci portò ad un anfiteatro roccioso sotto a grandi strapiombi, per uscire dai quali la nona ricorre alla famosa traversata a destra. Il luogo è spettacolare, ma per fortuna le difficoltà sono contenute. La fascia su cui si attraversa è in genere larga 30-40 cm. Solo alla fine, dove riprendemmo a salire, ci sono 2-3 passaggi un po’ più difficili di arrampicata in parete. Naturalmente ci mettemmo nei panni dei primi salitori, per i quali di certo si trattò di cosa molto audace, una grande impresa perché con il materiale di allora lì era ben difficile proteggersi.
Il tiro dopo, ancora bellissimo, presenta un altro passo di VII-. Ma da quel punto notammo che la chiodatura si rarefaceva un poco, tanto che nel dodicesimo tiro usammo qualche friend, anche perché la fessura era gialla e intimidatoria, ma era come se i friend li chiamasse!
Ancora VI- e VI nel 13° e 14° tiro, un’arrampicata senz’altro più alpinistica in diedri e camini più sprotetti. Ma vedevamo la fine: dopo un 15° tiro facile, salimmo l’ultimo camino che, profondamente intagliato, suggeriva ancora timore. Ma grazie alla roccia lavorata fu davvero divertente.
Rinunciammo a salire sulla vetta principale e preferimmo seguire gli ometti della cresta est per circa 250 m fino a scendere per la rampa della via normale, utilizzando anche qualche calata.
Fare cordata con Franco si era rivelato assai produttivo, oltre che essere uno spasso continuo di battute, un misto di umorismo torinese-britannico.
A casa mi aspettava il lavoro, ma soprattutto occorreva chiarire il da farsi con Nella: eravamo alle solite, dovevamo decidere chi si teneva quale casa, quale mobile e quale tappeto, una sofferenza necessaria alleviata solo dall’accettazione di un destino che ancora una volta ci separava. Non eravamo sereni, perché soltanto rassegnati. Anche se i destini si prefiguravano diversi: lei di fronte alla solitudine, per lo meno affettiva, ed io consapevole di re-iniziare una storia d’amore che non ero riuscito a prevaricare.
Il primo di luglio ci ritrovammo perciò a camminare verso il Miroir d’Argentine 2325 m, una placconata di oltre 400 m di dislivello nel Vallese, in Svizzera. Avevamo passato la notte nel mio furgone a discutere e non eravamo nelle condizioni migliori. Dal villaggio di Solalex ci volle un’oretta abbondante per raggiungere la base della parete che, con la sua esposizione a nord, ci avrebbe garantito il fresco necessario in quella giornata caldissima.
Tra le numerose vie presenti, ne scegliemmo una degli infaticabili fratelli Rémy: Zygofolies, 6a+ max, 6a obbligatorio, in circa 14 tiri percorre il fianco destro dello zoccolo e attraversa in diagonale tutto il lato destro della placconata per poi uscire nel punto più alto, con un percorso generalmente molto logico. Purtroppo non andammo oltre il quinto tiro: Nella era stanca e niente affatto nelle giuste condizioni di spirito.
La sera eravamo già rientrati in Italia e la mattina dopo ci incontrammo con Franco Ribetti e Lino Castiglia: andammo al Pilastro Lomasti e iniziammo a salire La Rossa e il Vampirla, la bella via che lo stesso Castiglia aveva aperto con Flaviano Bessone l’anno precedente, calandosi dall’alto secondo le nuove mode. Non andammo oltre la seconda lunghezza perché colpiti da un furioso scroscio temporalesco.
Nella ed io vi tornammo da soli il 9 luglio, una settimana dopo. La via si rivelò molto bella, continua sul 6a, con la terza e la quarta lunghezza un po’ più difficili, con un’arrampicata sempre molto tecnica, mai di forza.
Sul terzo tiro il passo chiave consiste nel superare un piccolo strapiombo, con due singole tacche da tirare (6a+); il quarto è una bellissima fessura (6b), un po’ sbilanciante nei primi metri, poi più facile. Notevoli anche gli ultimi due dei sei in totale.
Bibi era tornata dall’Alpamayo, per fortuna non l’avevano neppure tentato. Il 15 luglio mi ritrovai con lei a scalare, noi due da soli e avendo entrambi definite le proprie posizioni affettive con i rispettivi partner. Mi sembrava la fine di un incubo. Per festeggiare avevo scelto una via mitica, Boulder Highway alla Benzinplatte dell’Oelberg, a nord del Grimselpass, in Svizzera. Questa era stata aperta nel 1979 dal zurighese Hans Howald con la tedesca Christel Feederle (che allora non era ancora sua moglie). Ne salimmo sei lunghezze, quindi praticamente i tre/quarti, ma la manciata di passi in A0 che avevo fatto unitamente a un volo sul sesto tiro, mi convinsero che dovevo tornare più preparato… Il giorno dopo andammo a scalare alla Marée, sul Grimselsee, dove incontrammo Mario Verin e la sua seconda moglie Verena (Vreni).
La sera del 26 luglio ero a Torino, a casa Ribetti, dove conobbi sia la moglie Marvi che i due figli Marco ed Erica. Una famiglia che esprimeva un grande calore. La mattina dopo partimmo prestissimo, perché avevamo un obiettivo ambizioso, la via Ayla alla parete sud-ovest della Première Tour de la Tête Noire des Cerces.
Mi diceva Ribetti che nell’appartato Vallon de La Moulette, sopra le vecchie miniere, ci sono i gioielli dei nostri giorni: alcune vie di notevole bellezza ambientale, entusiasmanti sotto il profilo tecnico. Pareva che su Ayla prevalessero muri verticali e passaggi da risolvere più con l’astuzia che con la forza, per una splendida salita in continuità.
La via era stata aperta nel 1987, un po’ a destra della Voie des Grands Surplombs, da Philippe Pellet con Philippe Mach e Lionel Pilar.
Già sulla prima delle nove lunghezze (6b un po’ stretto…) è necessaria parecchia concentrazione, passi di placca si succedono in lunghezze assai sostenute e lunghe di roccia ottima. Riuscimmo la via in libera ad eccezione della quinta lunghezza, data di 7b+ (ma dicono anche quello un po’ stretto…)
E’ una via assai estetica che richiede sempre la massima precisione nell’appoggio delle scarpette sulle piccole tacche e grande equilibrio. Pare che Pellet, che firmò proprio qui il suo primo dei suoi tanti e bellissimi itinerari, nella quinta e nella sesta lunghezza abbia cercato volontariamente le difficoltà, tralasciando alcuni passi più facili sulla destra: e che per fare questo abbia anche dovuto cambiare compagni…
Scendemmo con nove corde doppie.
La volta dopo con Franco evitammo la levataccia andando a dormire all’Hotel du Rocher Baron. La Blonde, una simpatica signora dai capelli decisamente tinti, assieme al marito teneva questo squinternato alberghetto, con annesso bar, a Saint-Martin-de-Queyrières, un villaggio a qualche chilometro a sud di Briançon. La Blonde faceva tutto lei, mentre il marito era impegnato dalle undici di mattina fino a tarda sera a condividere shot di birra con villici sodali.
Era il 23 luglio 1989 quando con Franco salivamo verso la sorgente Marcellin sotto alla Tête d’Aval. Dopo qualche difficoltà a reperire l’attacco giusto, iniziammo a salire Le Trou Noir, una via aperta da Jean-Michel Cambon con Serge Ravel nel 1985. Era Franco l’esperto di questa montagna, avendone lui già salito una manciata di vie. Allora non si faceva tanta differenza nell’attrezzatura, e quando gli spit erano da 8 mm nessuno aveva da ridire… Questa via di 350 m, max 6c con 6a+ obbligatorio, presenta 14 lunghezze. Deve il nome al caratteristico buco nero posto alla fine della decima lunghezza che ai primi salitori apparve subito come un abisso senza fondo: ma dopo mezzo minuto di esplorazione lo ridimensionarono di parecchio. La via si rivelò molto bella, anche se Franco mi ripeteva che le altre da lui fatte erano ancora meglio. Stranamente feci un resting su un passo di 6b+ mentre feci bene il 6c.
Il conto aperto con Boulder Highway premeva per essere pagato: ci tornai con Bibi e con il rinforzo di Franco Ribetti e Lino Castiglia, ai quali avevo fatto una capa tanta sulla bellezza di questa via. Era il 29 luglio, il giorno del mio compleanno.
“Hans Howald ha avuto un’influenza decisiva sulla Svizzera tedesca nel campo dell’arrampicata, aprendo numerose e belle vie molto esposte nelle lastre granitiche della zona dell’Handegg. Jürg von Känel e Martin Scheel lo seguirono presto su questa strada (Claude Rémy)”.
Hans Howald è stato un precursore di alcune tre le vie più difficili nelle Alpi svizzere. I suoi compagni per lo più erano gli svizzeri Ernst Balsiger e Beat Streich, assieme alla tedesca Christel Feederle.
Alcuni personaggi mi hanno incuriosito più di altri, e tra loro è certamente Howald. E’ del 1970 la prima ascensione del pilastro sud-est del Wendenstöcke, del 1976 la via Isabella al Lauchernstock. Nel 1978 realizza la prima in libera della cresta ovest del Salbitschijen (VII+). Nel 1979 sull’Oelberg (Handegg), Herrenpartie (VI-), Boulder Highway, Siebenschläfer (VII+), Engeliweg (V+), Schiefer Traum (VII+). Nel 1980: sulla Quarta Torre del Salbitschijen, Embryotransfer (VII/A0); sulla parete sud-ovest del Gross Büelenhorn, Dschingiskan (VII/A0); sull’Oberes Bielenhorn, Femenistenweg (VII). Nel 1981: sale un grande diedro sulla parete nord dell’Eiger (Nordverschneidung ) che termina sulla cresta ovest (1300 m, VII+/A2); sulla parete sud del Titlis, Handstreich; sulla parete sud del Wildhauser Schafberg, Sandührliweg (VII); sulla parete nord del Kreuzberg (Alpstein), Hans im Glück (VII+/VIII-).
Nato a Zurigo il 22 dicembre 1949, ha studiato elettrotecnica ed economia aziendale, scalando attivamente dal 1966 al 1983 per poi concentrarsi sulla carriera di manager presso aziende americane di computer e software (tra cui Unisys, Oracle, IBM). All’età di sessant’anni iniziò ad andare in monociclo e attraversò così l’Europa dall’Atlantico al Mar Nero (4.171 km).
Quella volta eravamo un po’ preoccupati, il volo che avevo fatto nel tentativo mi pesava come un macigno e avevo davanti sei lunghezze per neutralizzarlo. Troppe. In più sapevo benissimo che i tiri di aderenza non erano mai stati il mio forte, anche perché le mie caviglie si piegano meno della media. Non sono mai riuscito infatti ad accucciarmi tenendo l’intera pianta del piede a contatto con il pavimento: il tallone rimane alzato. Dopo il primo tiro di “riscaldamento”, con la seconda lunghezza si entra nel vivo della questione. E’ questo il cuore della Benzinplatte, una vistosa pancia di granito che si riesce a salire solo grazie a una stranissima “vena” dotata di microappigli e microappoggi.
Il passo chiave di VIII- (ma alcuni lo danno di 7a+…) si trova in questo tiro. La volta scorsa mi ero ampiamente attaccato ai rari spit, ma ora ero deciso a riuscire. Ce la feci a prezzo di una concentrazione spasmodica.
Felice di questo successo, affrontai il terzo tiro (VII+) e portai a casa anche quello. Meno male che sul veramente difficile i chiodi erano abbastanza vicini… Bibi seguiva veloce, con la corda ben tesa. Dietro, Franco e Lino si alternavano non smettendo mai di scherzare come non trovassero mai difficile.
Seguiva un altro miracolo della natura. Come se un gigante avesse tracciato una linea con una fresatrice nel duro granito, una bella fascia correva a sinistra sulla lastra. Traversandola (V) si evitava astutamente la placca ripida al di sopra. Oggi la via è stata ristrutturata: allora lì non c’era alcun chiodo in tutta la lunghezza.
Sul quinto tiro, molto bello, potemmo respirare su difficoltà più umane (VI+).
Il sesto è quello del pendolo, perché c’è un’altra ripidissima e liscia placca da evitare a sinistra. L’esposizione qui è nauseante, dopo metri di VII e VII+ il pendolo non è difficile ma è inevitabile.
Il settimo tiro è caratterizzato da un’estetica fessura ad arco che sale a sinistra formando un tettino (Dächli) con difficoltà di VII-. Bellissimo, ma ci si tiene a sinistra e così, anche qui, nulla che non sia aderenza…
L’ultima lunghezza era quella che offriva l’unico passo in A0 che ancora resisteva anche ai migliori. E comunque, anche tirando il chiodo, le difficoltà date da von Känel erano di VII+, quando altri in seguito hanno parlato di 6c+…
Durante la discesa a corde doppie già discutevamo su cosa fare il giorno dopo. Perché in effetti non eravamo stanchi fisicamente, lo eravamo mentalmente. E si sa che dopo una buona birra lo spirito si riprende in fretta!
Così il mattino dopo trottavamo sul lato settentrionale del Grimselsee, dal Grimselpass all’Eldorado. La via scelta era Métal Hurlant, un capolavoro di Yves e Claude Rémy del 1981. Un bellissimo itinerario in placca, anche se il tiro chiave è in un diedro-camino. So che recentemente è stata richiodata con una media di 4/5 fix per tiro, conservando perciò la caratteristica di via non sportiva, visto che occorre portare una serie di friend dall’1 al 3 di cui almeno 3 o 4 del N°2 (medio piccoli) o N°0,75 (BD) per il tiro chiave.
Attaccammo nel punto più basso della parete, su uno speroncino abbattuto con corto muretto iniziale e il nome scritto alla base.
La salita di questa grande classica dell’Eldorado, Métal Hurlant, si è svolta regolare e stupenda, un alternarsi incredibile di muri, placche e fessure di ogni dimensione. Accanto a noi e a sinistra, i fratelli Rémy stavano aprendo un nuovo itinerario e quindi affinando ancora quelle tecniche di apertura che porteranno l’alpinismo moderno ancora più avanti. Ad una sosta restai meravigliato a guardare, a bocca aperta, la freddezza e la bravura di Claude, il capocordata: stava usando uno strumento da poco sulle scene, il perforatore a batterie. Faceva un rumore discreto, un ronzio appena udibile nel vento leggero. Una ferita da bisturi. L’Eldorado è un grande cocuzzolone di granito, un’emisfera emergente da un lago artificiale, il Grimselsee, che è invece una ferita bestiale. Perché “nessun’acqua potrà rimarginare / una ferita inferta nel granito (Maria Rosa Gogna)”. L’uomo distrugge e ama nello stesso tempo.
Il passo chiave era alla settima lunghezza, un diedro-camino che dopo un primo fix era tutto da proteggere… un bel 6b severo, continuo, faticoso. Di 6b ce n’era un altro sul nono tiro, difficile ma senza paragone con il diedro-camino.
Oltre a molte fessure e al diedro mostruoso, c’erano anche tante placche modello Eldorado, obbligatorie. Quando siamo usciti, i piedi facevano male a tutti! Io ero strafelice per la salita onsight!
Arrivati all’ometto sommitale una traccia ben marcata indicava la nostra discesa che riportava all’attacco. Beh, lì ci sentivamo tutti abbastanza stanchi.
Il programma vedeva Lino, Franco e me puntare alle Dolomiti per i giorni seguenti. Ma non volevamo passare da Milano, pertanto riuscimmo a mettere su un treno Bibi che il giorno dopo doveva lavorare in So.Ra.Ro.
Ci fu una divertente discussione, alla stazione di Göschenen 1102 m, dove inizia il Traforo ferroviario del san Gottardo, se fosse più giusto dire “andare su a Milano” o “andare giù a Milano”. Ancora oggi non riesco a scoprire una logica in quella disputa.
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De très belles dalles, où il faut beaucoup de concentration.
Come sempre, un avvincente racconto!
Mi piace il ricordo di Franco Ribetti che era ed è, un uomo di una classe e di una sagace simpatia unica in un panorama alpinistico che molto spesso si prendeva troppo sul serio. Un altro molto simile a Franco e che hai anche menzionato nel tuo bellissimo racconto era Michel Cambon il quale ebbe addirittura il coraggio di mettere come titolo alle sue guide di arrampicata : “Le vie meno peggio del..” grandi uomini di cultura e di montagna.
Ps Adlerauge quel cristo… di Ochsner con le sue clessidrine fatte con il trapano a distanze siderali e munite di cordini marciotti ( quando la ripetei) mi fece vivere una giornata “emozionante” !!
Cribbio, anche stavolta mi mancano un paio di vie: non c’è niente da fare, il maledetto Capo ha visto più montagne di me!
Confermo la incredibile, nauseante esposizione, anche se si è in aderenza pura, di Boulder Highway e i piedi che urlano tutte le volte che si arriva in cima all’Eldorado.
Il se e giù geografico è sempre relativo a chi lo pronuncia.
A Genova in molti dicono di andare su a Rapallo, giù a Recco, giù a Finale e su a Milano. Già più comprensibile.
Dove vivo si dice jii fora (=andare fuori) per ogni posto al di fuori della valle.
Ognuno vede la geografia a modo suo.