Dal 29 settembre al 1 ottobre 2023 si svolgeranno i Colloqui di Dobbiaco, “Toblacher Gespräche” in tedesco, che ogni anno affrontano le tematiche ambientali di maggior rilievo nell’omonima località in Alta Pusteria, e che hanno visto la luce grazie al loro ideatore, l’ecologo, sociologo e artista Hans Glauber.
Al convegno di Dobbiaco partecipano rinomati relatori provenienti sia dall’Italia che dall’estero, trattando i più svariati aspetti dell’ecologia e proponendo di pari passo delle soluzioni concrete. Nel frattempo i Colloqui di Dobbiaco sono diventati un prestigioso laboratorio di pensieri indirizzati ad una svolta ecologica sia all’interno dell’arco alpino che oltre i suoi confini. Dopo la prematura scomparsa nel 2008 di Hans Glauber, l’ideatore e l’anima del convegno, ora sono Wolfgang Sachs e Karl-Ludwig Schibel ad organizzare e dirigere i lavori in piena continuità con lo spirito di Hans Glauber, convinto visionario di una vita migliore se vissuta all’insegna “del più lento e del meno“.
Capire la resilienza
(Intervista a Paola Viganò)
di Karl-Ludwig Schibel
(pubblicato su toblachconference.wordpress.com)
Ricevere la Medaglia d’Oro alla carriera dell’Architettura Italiana nel 2018, a meno di sessant’anni, può sembrare prematuro, ma già 5 anni prima Paola Viganò, architetto e urbanista, era stata insignita del Grand Prix de l’urbanisme, prima donna ad ottenere il premio. Questi ed altri riconoscimenti fanno onore a un’opera in piena evoluzione rispondente a dinamiche e sfide che Paola Viganò ha colto fin dai primi progetti, al tempo insieme a Bernardo Secchi, come “Le Grand Paris, métropole de l’après Kyoto” nel 2008. Pensare insieme estetica e funzionalità, sociale e vivibilità, ecologia e adattamento ai cambiamenti climatici a livello teorico, come in “Dall’urbanizzazione alle città” di Murray Bookchin è una cosa. Paola Viganò con grande creatività e coraggio non solo fa confluire queste dimensioni nei suoi pensieri, ma li traspone anche nei suoi progetti urbanistici.
Andando verso i Colloqui di Dobbiaco 2023, “Stop al cemento! Della resilienza e rigenerazione delle nostre città in tempi di caos climatico”, che apriranno proprio con una lectio magistralis di Paola Viganò, abbiamo cercato di capire meglio la sua comprensione di una professione di grande responsabilità per il futuro delle nostre città in tempi di rapido cambiamento, dove le certezze storiche si disintegrano e ci si ritrova a progettare in condizioni di transizioni complesse e profonde incertezze.
Le riflessioni sue e di Bernardo Secchi alla fine del primo decennio di questo secolo mettevano a confronto le immagini, ad esempio, di Anversa come città dell’acqua, del porto, delle ferrovie, della ecocity, delineando possibili strategie per un territorio di una nuova modernità. Sono passati quasi 20 anni. Nel suo lavoro, sono cambiate le priorità nel progettare la città di oggi? L’obiettivo di una “nuova modernità” è sempre valido? Le città continuano ad essere una “risorsa rinnovabile”?
PV: Direi innanzitutto che i concetti e le idee, se sono interessanti, difficilmente scadono come i prodotti surgelati nel giro di qualche ora! Hanno una capacità di durare e allo stesso tempo si adattano e rivelano nuove profondità. Utilizzati venti, trent’anni fa, questi concetti esprimevano preoccupazioni parzialmente diverse, si applicavano in un contesto diverso, però “la città come risorsa rinnovabile” è ancora tutta da scoprire, ad esempio. Le idee sono spesso ridotte a uno slogan e lo slogan, a un certo punto, non interessa più perché l’abbiamo già ascoltato troppe volte: in realtà è necessario tempo per andare fino in fondo a queste ipotesi, e penso ai temi discussi all’epoca, soprattutto al lavoro con Bernardo Secchi. Ho iniziato a lavorare con Secchi alla fine degli anni Ottanta ed effettivamente era un contesto nel quale l’urgenza dei temi ambientali, dopo la crisi degli anni Settanta, si era un po’ persa, non era ancora riemersa con tutta la sua forza attuale. Non sembrava essere il centro del discorso anche se fin da subito – e penso per esempio al piano di Bergamo che è stato redatto all’inizio degli anni 90 – il nostro lavoro ha posto il sistema ambientale al centro della costruzione del progetto. Questi temi, appunto, col passare del tempo si sono casomai confermati e sono stati rafforzati da una maggiore presa di coscienza di questi aspetti; la crisi ecologica è poi esplosa in tutte le sue dimensioni e adesso quelle scelte sembrano scontate. Ripeto, però, siamo andati veramente fino in fondo, ma non lo penso solo delle cose che abbiamo detto trenta o più anni fa, lo penso anche di molti altri concetti che usiamo quotidianamente. Faccio un esempio tra tutti, il concetto di resilienza è un concetto del quale non abbiamo ancora capito la profondità di cambiamento che implica. Idee e concetti hanno bisogno di tempo per essere capiti, approfonditi, per arrivare fino alle loro estreme conseguenze. Quando abbiamo l’impressione che certe parole non servano più, perché usurate o coperte da strati ideologici pesanti, è in quel momento che dobbiamo chiederci se le abbiamo veramente comprese.
Lei ha evidenziato l’incongruenza tra la necessità di mantenere aree permeabili per l’infiltrazione delle piogge sempre più intense come adattamento e l’imperativo di “rendere la città compatta”, soluzione favorita da molti. Densificazione. Dunque, quando parla di città estesa, orizzontale, non si esprime a favore di nuove costruzioni? Se così non fosse, come soddisfare il fabbisogno di spazio abitativo? Il governo tedesco, ad esempio, vorrebbe costruire 400.000 nuovi alloggi ogni anno.
PV: Il discorso urbanistico, diciamo tradizionale o ortodosso – ma ormai anche qui stiamo per valicare una soglia – è ancora quello di immaginare che ci sia un’unica soluzione alla questione della crisi ecologica e che questa sia la densificazione. Che può essere maggiore densità di abitanti, di attività, può essere densità nel senso di usi – in sé la densità non è né buona né cattiva. Però alla questione dell’aumento della densità si unisce l’idea della concentrazione, di accentrare in pochi luoghi tutte le risorse, le occasioni, le possibilità di lavoro, la cultura. In questi anni abbiamo assistito a un messaggio che di fatto ha messo insieme due temi non necessariamente da tenere insieme: densificare e concentrare. Si poteva immaginare di densificare un po’ di più la città, ma non di concentrare tutto, ad esempio in alcune grandi aree metropolitane e nemmeno in tutte, perché ci sono molte aree metropolitane, soprattutto in Italia, che sono assolutamente marginali pur essendo definite aree metropolitane. Questa è una prima osservazione; la seconda è che con la densificazione si giustificano argomenti, chiamiamoli di “stampo ecologico”, che si riferiscono all’idea di non consumare altro suolo. Questo è sicuramente un argomento forte, non lo sto criticando, rimane però il fatto che la città ha bisogno di queste porosità, di trovare un contatto con il suolo, ha bisogno di avere spazi verdi che adesso abbiamo imparato sono anche gli spazi necessari per ombreggiare, per abbassare le temperature urbane, per infiltrare l’acqua …, ma non solo. Psicologicamente parlando, l’abbiamo visto anche durante il Covid, chi non aveva a disposizione o vicino a casa spazi aperti di qualità ha sicuramente vissuto molto peggio di quelli che invece hanno avuto la fortuna di avere vicino un bosco, un fiume, o un lago. Quindi non c’è alcun dubbio che ci sia un rapporto intimo, importante tra noi e i paesaggi nei quali viviamo.
L’idea di compattare la città – senza tener conto del fatto che la città è fatta di spazi i quali forniscono servizi ecosistemici necessari al suo buon funzionamento e alla sua resilienza – perché basta una pioggia un po’ più intensa a far capire che se non si hanno questi spazi a disposizione la città soffrirà di danni e problemi – questa idea della città assolutamente compatta e concentrata, dunque, penso stia iniziando a mostrare i suoi importanti limiti. Metto invece assolutamente in discussione e critico l’idea della concentrazione. Questa concentrazione, che ha impoverito i territori. Basta guardare le carte della marginalità in Europa, per non parlare della marginalità negli Stati Uniti e in altri continenenti – e rendersi conto che la logica della concentrazione ha privilegiato alcuni, pochi luoghi a discapito degli altri e che questi altri luoghi hanno perso servizi, popolazione, la possibilità di un’accessibilità che magari nel passato avevano. Abbiamo chiuso le ferrovie, le scuole, abbiamo fatto moltissime cose che hanno diminuito l’abitabilità di luoghi che erano abitati nel passato. Penso ci sia veramente un grosso problema di ingiustizia spaziale e sociale che deve essere ripreso.
Su questo abbiamo molto riflettuto in questi anni sotto il termine di metropoli orizzontale. Volevo mettere l’accento sul fatto che le aree metropolitane – i luoghi dove la ricchezza viene prodotta, più capaci di offrire condizioni di scelta, di emancipazione – così come sono concepite oggi, impoveriscono il resto del territorio. Dobbiamo avere condizioni orizzontali, più paritetiche, condizioni di equilibrio maggiore tra i diversi territori sapendo che ormai siamo tutti un po’ metropolitani, soprattutto in Europa, dove siamo sempre vicini a una città, in una condizione di densità abitativa già molto, molto elevata. Siamo sempre urbani praticamente, e siamo quasi sempre anche metropolitani, salvo poche aree veramente distanti, ma sono davvero poche. Questa condizione metropolitana creatasi nel tempo, chiamiamola “una condizione metropolitana diffusa”, deve essere ripensata tra consapevolezza ecologica e preoccupazione sociale e politica.
Di fronte alla crescita degli eventi metereologici estremi (Ahrntal, Germania, Emilia-Romagna, Vermont) potremmo andare verso una situazione dove l’adattamento ai cambiamenti climatici diventa ingestibile? O comunque richiede parametri molto più radicali? Il che potrebbe significare la fine dell’urbanistica nel senso di progettazione di strategie di trasformazione eco-socio-spaziali ascoltando e progettando i territori. In futuro i piani potrebbero risultare sempre meno dall’immaginario e dalla creatività dell’urbanista e sempre più dalla modellazione della vulnerabilità dei territori ai cambiamenti climatici con delle risposte elaborate magari con l’intelligenza artificiale.
PV: Questo che solleva è un tema molto giusto e altrettanto difficile al quale chiaramente non ho, da architetto e urbanista, una risposta. Penso sia un tema che deve essere sollevato. In questo momento, ad esempio, sto lavorando a Parigi sull’Atlante di Paesaggio della città, cosa che può sembrare alquanto “leggera”, anche se certamente di grande fascino. Un atlante è diverso da un piano, in questo caso una ricognizione condivisa di immagini collettive di Parigi, di esperienze di vita; ciascuno ha diritto di espressione e più letture emergono, più ricco sarà l’atlante. Questa è la prima volta che si realizza un atlante di paesaggio per una grande città. L’idea di paesaggio – ispirata alla Convenzione Europea del Paesaggio – è un tema che trovo oggi incredibilmente ricco, intanto perché solleva l’attenzione di tutti. Quando si parla di urbanistica molte persone e gli stessi abitanti non sono più di tanto interessati, se ne sentono esclusi, nonostante la partecipazione, mentre quando si parla di una città nei termini dei suoi paesaggi, della loro trasformazione e adattamento, vi è una sorta di adesione, di necessità pervasiva di espressione, molti hanno voglia di dire qualcosa, di portare la loro esperienza e di contribuire; è veramente qualcosa che mi ha molto stupito in una città blasée, abituata a tutto come Parigi. Guardando a ciò che sta accadendo in questo momento a Parigi, vediamo che il progetto della transizione ecologica è in piena attuazione. In questi anni sono stati fatti moltissimi interventi, tutti nella direzione di costruire zone permeabili, verdi, di ridurre il traffico, insomma tutti nella direzione della transizione ecologica. Se questo lo prendiamo a grande scala emerge una sorta di “neo-igienismo”. L’igienismo storico condotto da medici e ingegneri, (gli urbanisti non esistevano ancora, gli architetti si occupavano d’altro) forma la base della città moderna. Vedo il riproporsi di una stessa egemonia, di una nuova forma di igienismo, come dell’igienismo ottocentesco e primo novecentesco. L’igiene non è più solo quella dell’acqua, ma è la salute dell’ecosistema. L’igienismo ha avuto un carattere pervasivo, gli interventi sono stati gli stessi in tutte le città: rifare le fognature, l’acquedotto, portare aria e luce. Oggi sta accadendo lo stesso, abbiamo già iniziato a demineralizzazione le superfici, eliminare il più possibile ogni metro quadrato di asfalto, piantare migliaia di nuovi alberi. Vedo un parallelo con quello che si è svolto circa un secolo fa – iniziato prima perché il dibattito sull’igienismo si diffonde già nel XVIII secolo – e l’attuale momento nel quale stiamo ripensando con gli stessi modi pervasivi, dappertutto uguali, omogeneizzanti, la trasformazione e l’adattamento della città al cambiamento climatico.
Non so se sia un bene o un male, ad esempio rispetto alla capacità di mantenere le differenze tra i diversi luoghi, ma anche, più in generale, al ruolo della tecnica. È una trasformazione “tecnica” che si sovrappone a trasformazioni sociali, politiche e mi porta a considerare (è il tema del mio ultimo libro che uscirà tra qualche mese) il carattere biopolitico della transizione ecologica. La transizione ecologica mette nuovamente al centro la vita, la questione della sopravvivenza, allo stesso modo in cui all’inizio del secolo era stata al centro la questione dello sconfiggere le malattie. Siamo ritornati dopo un lungo percorso, per ragioni diverse ma con lo stesso obiettivo della salvaguardia e della protezione, alla questione della vita. Il che ci fa riflettere sul tema della resilienza perché tratta della capacità di rimanere in vita, non in una logica di resistenza alle trasformazioni, ma in qualche modo accettando le dinamiche in atto, sviluppando la capacità di assorbire lo shock invece di rifiutarlo in toto. Resilienza è un concetto tutto da esplorare, ha in sé una radicalità che ci porta totalmente al di là di quello che abbiamo sempre fatto e ci impone una accettazione del fenomeno che pesa sul nostro corpo, su di noi come individui, sul disegno delle nostre città e territori. Penso che su questo ci siano moltissime cose da dire e cui pensare.
Il suolo vivente, un suo grande tema, è di particolare importanza anche per il territorio alpino, un territorio di particolare fragilità. La sua visione della transizione ecologica della città estesa, della porosità e del suolo vivente come si coniuga con le realtà del Sudtirolo? I suoi principi guida sono applicabili in un contesto così particolare?
PV: Comincio col dire che io sono alpina e conosco bene la situazione contemporanea delle Alpi. La seconda cosa è che ci sono Alpi ricche e Alpi più povere. Le Alpi ricche sono quelle che ho studiato in questi anni lavorando al Politecnico di Losanna: le Alpi svizzere, in parte anche l’Alto Adige. Qui non si è mai abbandonato il progetto di mantenere la popolazione nel luogo d’origine – tra l’altro, era anche l’obiettivo del piano degli anni Sessanta di Samonà per il Trentino. L’obiettivo era di evitare lo scivolamento nella piana delle popolazioni che abitavano i centri sparsi, come si è fatto in Svizzera, in Alto Adige e anche in alcune parti dell’Austria. Questo piano, almeno nelle sue linee principali, rimane il progetto e la visione da seguire. In tutto il resto delle Alpi invece, le cose sono andate diversamente, se si attraversa la Val d’Ossola si osserva un baratro di differenza. Vedo chiaramente, anche se non vivo più da molto tempo sulle Alpi, questo declino che non viene arrestato, rispetto al quale non vi sono politiche e decisioni sufficienti, come se fosse inevitabile, “naturale”.
Partiamo dai giovani, vanno via perché non ci sono occasioni di lavoro, soprattutto occasioni adeguate ai loro titoli. Si pone la domanda se rimanere, sacrificando gli anni dedicati alla scuola, in una condizione di accessibilità disastrosa o anche di non-accessibilità, senza automobile si è prigionieri. Trovo sia veramente un problema sociale fondamentale. Vi sono poi l’invecchiamento della popolazione e l’economia che soffrirà sempre di più nei prossimi decenni. Dovrebbe esserci un ragionamento complessivo, che consideri allo stesso tempo le diverse questioni: dal cambiamento climatico, a quello dell’economia e il suo adattamento. Le potenzialità di questi territori devono essere rilette alla luce di tutti questi aspetti. Il meteorologo Luca Mercalli dice che nei prossimi decenni le Alpi torneranno al centro dell’Europa. Se da un lato potranno diventare più vivibili e apprezzate, per il loro clima fresco rispetto alle estati torride delle città, dall’altro perderanno molte delle loro risorse, ad esempio idriche, per la generazione di energia elettrica, o turistiche per lo sci. Rimane il fatto che soprattutto le Alpi povere sono oggi un soggetto veramente importante da ripensare. Le Alpi ricche, a loro volta, si stanno adattando, ma se penso alle Alpi svizzere è chiaro come la visione redistributiva degli anni Settanta si sia molto indebolita. Non conosco bene la condizione dell’Alto Adige, ma ho l’impressione che anche in parti delle Alpi ricche la qualità della vita cominci ad abbassarsi, come è successo in quelle che più tradizionalmente sono le Alpi povere. Una diversa idea di metropoli, meno accentratrice e gerarchica, può aiutare a ripensare diversamente anche questi territori.
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Non so spiegarne il motivo, ma qualcosa di questo architetto non mi convince.
L’Alto Adige/Suedtirol è l’unico posto al mondo dove si fa una cosa e allo stesso tempo si propaganda la cosa opposta.
Non ho neppure letto tutto l’articolo per capire che si tratta dell’ennesima presa per il culo in cui ci si dice così tante volte che gli asini volano, che alla fine si vede il cielo pieno. Di asini.