A quasi diciannove anni dalla sua morte, e nell’ottantesimo della sua nascita, è per noi un dovere di cronaca restituire la dimensione di un personaggio e spalancare una finestra alla luce dello spirito irrequieto ed esigente di Casimiro Ferrari.
Abbiamo detto “personaggio”, e in effetti questo sostantivo lo qualifica bene, perché normalmente riservato a persone che si sono distinte nell’attuazione della loro specifica vocazione, ponendosi a un livello superiore di tutti quelli che praticano una disciplina, in questo caso l’attività alpinistica. Ma per il Miro (come tutto lo chiamavano) “personaggio” non basta: Casimiro Ferrari è più che un personaggio, è una persona unica, che non può essere confuso con nessun altro.
Non era un tipo che si metteva in mostra, ma si impegnava in prima persona, un riferimento per tutti gli appassionati di montagna, e i successi ottenuti stanno a dimostrare la sua statura e il calibro del suo livello.
Per quanto ho ricevuto e avuto modo direttamente di conoscere ed apprezzare, ho sempre ritenuto che il Miro volesse essere padrone del proprio tempo e solo la piena immersione nella Natura, e in particolare quella della Patagonia, gli garantiva quella condizione ideale.
Casimiro cercava di condividere con altri ciò che andava cercando, e glielo chiedeva a modo suo, coinvolgendoli in uno stile tutto suo di amicizia, stima e partecipazione, attento al duplice aspetto alpinistico e umano.
La sua figura leggendaria è dunque paragonabile a quella di due altri grandi lecchesi del secolo XX, gli intramontabili Carlo Bigio Mauri e Riccardo Cassin.
Casimiro Ferrari
(a ottant’anni dalla nascita)
di Renato Frigerio
Casimiro Ferrari nasce il 18 giugno 1940 a Rancio, lo stesso rione di Lecco dove era nato anche il Bigio.
La generazione di Casimiro è forse l’ultima che conserva come retaggio, ma anche come sudditanza e sottomissione, un orgoglio smisurato, una grande voglia di ben impressionare per essere giudicati positivamente e di non fare brutte figure. Ne deriva una serietà di preparazione e di approccio, un’umiltà nell’apprendere, un desiderio di farsi notare e impressionare favorevolmente che sono il seme di Lecco alpinistica. Tutti alpinisti della domenica, nessun professionista della montagna, un vivaio inesauribile.
Difficile dire cos’ha dentro, più facile dire cosa ha alle spalle Casimiro e come lui i giovani della sua generazione. La tradizione? La passione per l’alpinismo è spontanea germinazione, ma c’è di più, amicizia, cuore, fraternità, solidarietà. C’è il seme, il fiore, il frutto, e il nocciolo per riprendere il ciclo produttivo. C’è anche l’aiuto degli altri, della città, degli ammiratori, dell’ambiente, che rende coraggioso Casimiro e i suoi Ragni.
Dal grande Cassin, all’eclettico Carlo Mauri che si esprimeva con fasi di genialità a volte estemporanee e non solo strettamente alpinistiche, con Casimiro Lecco si è assicurata la continuità storica, nel solco dei Boga Dell’Oro, Gigi Vitali, Ercole Ruchin Esposito, Ugo Tizzoni, Vittorio Ratti e tutti gli altri Ragni della Grignetta. E il percorso continua: per questo gli dobbiamo grande riconoscenza.
La generazione di Casimiro ha inizialmente come riferimento più vicino i vari Luigi Castagna, Carlo Mauri, Walter Bonatti, allora rifugista ai Piani Resinelli. Più facile cercare il dialogo con loro che con i più anziani, quali Cassin. Ma l’ambizione più sentita è proprio quella di diventare Ragno, anche se solo come riconoscimento e trampolino di lancio, quale punto di partenza.
Ferrari diventa quindi il “tutore morale” di questo periodo, proprio perché risulterà sempre positivo nella sua azione in favore dell’alpinismo: con esaltanti conquiste, trascina e offre angolazioni nuove, dove sempre si esprime un forte desiderio di azione.
Questo suo modo di vedere ora può apparire superato, ma per Casimiro è stato sempre una ragione nelle scelte, una feroce passione, un amore possessivo e lacerante per Lecco. Fiero delle sue radici lecchesi, conosce la facilità con cui certe etichette possono compromettere la sua evoluzione, non dà adito a critiche, evita le osservazioni, riesce ad imporsi e a godere la fiducia di tutti, Cassin e Mauri compresi. Allorché ritiene che il suo valore è da tutti apprezzato e condiviso, con la fiducia nei suoi mezzi cerca la sua dimensione alpinistica, inseguendo nuove esperienze, consapevole che ognuno in montagna debba saper trovare la propria dimensione per sentirsi appagato. Lavora per vivere, ma si sente felice solo immerso nella natura e sviluppa uno spirito di osservazione straordinario; si applica con sacrificio alla sua preparazione atletica, che in quei momenti non aveva assunto gli aspetti specifici di oggi. Allora tutto si basava sulla resistenza fisica, sulla conoscenza tecnica delle vie percorse: mancando questa si doveva ricorrere alle informazioni degli alpinisti che ci avevano preceduto, sull’affiatamento dei compagni, su una concentrazione per affrontare l’ambiente e, contrariamente ai tempi successivi, solo dopo veniva quale importanza il passaggio tecnico come difficoltà da superare. Ecco perché in genere i lecchesi effettuavano ripetizioni solo dopo che un altro lecchese aveva conosciuto il percorso e l’ambiente.
Avendo il privilegio di vivere a Lecco, dove la montagna fa parte del paesaggio, la si conosce, diventa familiare e non ti incute paura, ma ti fa capire che devi solo portarle rispetto. Ma più conosci la montagna, più ti conquista e più diventa importante, soprattutto per te stesso. Dopo la gloria casalinga, vuoi uscire da Lecco: Grignetta, Resegone e Corna di Medale non ti bastano più.
Con quella scuola e in quella mentalità, a Lecco Casimiro diventa qualcuno e fa parlare di sé. Infatti Mauri se ne accorge e lo fa sognare parlandogli di montagne da conoscere e di progetti da realizzare assieme. Casimiro è fiero di tanta attenzione. Con Mauri non perde tempo in sentimentalismi, si parlano in dialetto, parlano delle rispettive famiglie: è amicizia. Mauri qualche volta arrampica con Cesare Giudici, che è il fratello di Serena, moglie di Casimiro. Con Cassin, entrambi di carattere un po’ chiusi, burberi, esigenti con se stessi come lo sono col prossimo e sempre convinti del proprio valore, parlano di altro, soprattutto dei loro giorni di caccia: sono amici, si stimano, la differenza di età diventa un fatto secondario. E sì che per Casimiro non è stato tutto facile. Non essendo abile sugli sci, arrampica anche d’inverno.
Abbiamo già detto che svolgeva un allenamento tecnico specifico, quindi per prepararsi ad affrontare certe vie arrampica in Grigna anche d’inverno. Proprio in questa stagione incappa in un incidente salendo a tiri alternati, quando si trova da secondo di cordata, ai Torrioni Magnaghi, nel febbraio del 1961. Sia lui che il compagno, che nel volo lo trascina, si salvano atterrando sulla neve. Il compagno però deve sopportare a lungo le conseguenze, leggermente danneggiato agli arti inferiori.
Casimiro, dopo questa esperienza, non si sente più di arrampicare da secondo di cordata per almeno due anni, vuole essere solo capocordata. In maggio lo vediamo già salire la Tissi alla Torre Venezia e la Cassin alla Torre Trieste in Civetta! Anche durante il servizio militare alla Scuola Militare Alpina di Aosta nel 1962, deve subire una sosta forzata per dei reumatismi. Ma supera tutto con il recupero prodigioso non solo della salute, ma anche dell’entusiasmo e della gioia di vivere.
Per due anni, nel 1965, gestisce il rifugio Carlo Bobbio 1932 m all’Alpe Sengio in Val di Lei, concludendo che questa attività non si possa conciliare con la sua aspirazione di alpinista: troppi sono i sacrifici e le rinunce che si impongono.
Ritorna quindi ad accumulare meriti alpinistici per allargare i suoi orizzonti. Traccia vie nuove sulle Grigne, eccone alcune: sul Secondo Magnaghi, quello Centrale, via Direttissima, tra la via Ruchin e la Castagna; alla Mongolfiera, sulla parete nord-est; sulla Corna di Medale via Direttissima dei Ragni alla parete sud-sud-est. Altra performance notevole, per quei tempi, la ripetizione, lungo la parete nord, della via Brandler-Hasse alla Cima Grande di Lavaredo, una salita considerata tra le più complete e impegnative delle grandi classiche nelle Dolomiti.
Dalle ripetizioni alla tendenza a cimentarsi nell’alpinismo invernale, teso ad affrontare la natura alpina nelle sue condizioni più avverse e difficili: prima invernale della via Paolo VI al pilastro sud della Tofana di Rozes nel 1963; prima invernale dello spigolo nord, via Risch, del Pizzo Badile, in due giorni, nel febbraio 1965; prima invernale della via Messner-Holzer al Castello della Busazza in Civetta, parete sud-est, nel 1974. Casimiro sperimenta cosa si prova aggrappati alla gelida roccia invernale, dove ogni appiglio è in genere coperto di ghiacio o di neve. Affronta i mutamenti di temperatura, quando il termometro scende sotto lo zero. E adesso? Troviamo sempre Casimiro con giovani lecchesi, quasi sempre più giovani e meno esperti di lui come compagni di cordata, forze nuove, capaci ed entusiasti di stare con lui. Il 1965 è anche l’anno che vede il comune di Lecco premiare i Ragni per l’evidenza dei loro risultati.
Ancora una via nuova nel 1968 denominata Direttissima dei Ragni sulla granitica parete sud-est del Grand Capucin, nel cuore del Bianco, compiuta in tre giorni.
Le montagne di Lecco, le Alpi e le Dolomiti hanno offerto molto a Casimiro. Ed è proprio Carlo Mauri che, mantenendo le promesse, gli offre l’avvio di nuove soddisfazioni, chiamandolo con lui ad una avventura in campo extraeuropeo, che segna infatti il ritorno del Bigio alla Terra del Fuoco nelle Ande Patagoniche del Cile. Corre il 1966, obiettivo la conquista della vetta del Monte Buckland 1800 m, con un’equipe di sette persone.
Una montagna che sorge quasi direttamente dal mare, un picco ripidissimo e strano, tutto corazzato di ghiaccio, in una terra lontanissima. La vittoria arriva, precedendo americani e giapponesi, e superando difficoltà strutturali aggravate da quelle climatiche.
Carlo Mauri ha grande forza d’animo e Casimiro trova in lui uno degli uomini più sensibili che abbia conosciuto. Casimiro sostiene da buon lecchese e artigiano che “il mestiere bisogna rubarlo pigliando il meglio da tutti”… infatti prende da Mauri e prenderà da Cassin.
Casimiro verifica altre emozioni, paure, trova nuove risposte agli interrogativi di cosa si prova e cosa ci spinge a rischiare in montagna. Prosegue quindi la sua cavalcata leggendaria. Nel gennaio del 1966, al ritorno dal Buckland, ne approfitta per puntare alla normale dell’Aconcagua, in Argentina, e per allontanare con un valido test a quasi 7000 m il sospetto di un presunto “soffio al cuore” riscontrato da alcuni medici ai tempi del servizio militare… Che c’era di meglio se non l’Aconcagua, il monte più alto dell’emisfero occidentale? L’Aconcagua, che significa “sentinella di pietra”, è anche la più alta cima fuori dall’Asia. Questa salita all’Aconcagua risulta una prova di resistenza, di forza, di capacità di soffrire più che di abilità. Una vera scommessa fisica. Messo alla prova mentalmente e fisicamente, con criteri chiari e concreti, non subordinati ai concetti degli altri, trovi la spiegazione che conta di più: la soddisfazione personale dell’esercizio della propria più profonda volontà di successo, quando determinazione e ambizione non bastano.
Il ghiaccio è rotto. Le Ande diventano il nuovo campo d’azione, e precisamente l’imponente catena di Huayhuash, nel Perù. Nel 1969, con Cassin, sulla parete ovest del Nevado Jirishanca 6126 m, in otto uomini, affronta una difficilissima ascensione.
Nel 1972, altra vittoria. Con gli amici del CAI di Gallarate raggiunge la cima vergine del Nevado Huantsan Ovest 6270 m, nella Cordillera Blanca. Nel 1975 sulla parete sud-ovest dell’Alpamayo 5945 m con i Ragni conquista una via di ghiaccio compiendo un’altra splendida impresa. Nel 1979, sempre su pareti di ghiaccio con elevate difficoltà, è la volta della parete sud del Nevado Sarapo, una piramide di 6148 m, a cedere agli attacchi di Casimiro.
Ma sempre nell’America meridionale è la Patagonia a contagiare Casimiro Ferrari, ed è l’inizio di una storia tutta sua. Le Ande Patagoniche Australi hanno la conformazione orizzontale delle grandi estensioni, non chiudono gli spazi all’orizzonte, ingannano l’occhio abituato alle Alpi. Dislivelli e distanze assumono una dimensione diversa, più ingannevole. E non ci sono solo vette conosciute e spettacolari come il maestoso Fitz Roy e il fantastico Cerro Torre.
Tutto ebbe origine col tentativo alla parete ovest del Cerro Torre 3102 m, un gigante mitologico, che si erge come obelisco e primo ostacolo verso l’Oceano Pacifico, battuto da un vento terrificante, e da questo versante quasi tutto ricoperto di ghiaccio. Nel 1958 Carlo Mauri e Walter Bonatti avevano affrontato questo Cerro Torre fino al colle tra Torre e Cerro Adela Nord, chiamato Colle della Speranza, a quota 2700 m. Nel 1970 Ferrari è con Mauri e il tentativo si infrange a 250 metri dalla vetta, punto massimo raggiunto da Ferrari con Piero Ravà. La montagna e l’imprevedibilità del clima sono superiori agli uomini. Ferrari rimugina sul problema, matura un nuovo assalto lecchese, si sente più maturo, e scegliendo gli uomini si accolla tutte le responsabilità. Fra i 27 Ragni che hanno dato la disponibilità a partire, solo 12 saranno i componenti la spedizione, che si sobbarcheranno il massacrante lavoro del trasporto a spalle e con una slitta improvvisata di tutto il materiale attraverso il ghiacciaio dello Hielo Continental.
Gaston Rébuffat diceva “Ovunque c’è una volontà, c’è una via”. Ferrari ha la carica giusta. Ed è nel 1974 che i Ragni guidati da Casimiro ritornano al cospetto del Torre. La spedizione raggruppa un mix di talenti, alpinisti di autentico valore, gente pronta a sacrificarsi, con Ferrari ad assumere il ruolo preminente di regista e attore protagonista. Dopo giorni senza mangiare, disidratati, quattro Ragni sono sul Torre: sulla vetta, superando 37 lunghezze di corda, di cui 7 attrezzate.
Il lecchese e Ragno Floriano Castelnuovo è stato nel 1990 sulla vetta del Torre in elicottero come cineoperatore/alpinista durante le fasi di lavorazione del film Grido di pietra. Dopo aver visto degli spezzoni di corda rimasti sulla parte terminale verso la cima, afferma che da dove sono passati i quattro Ragni Mario Conti, Pino Negri, Daniele Chiappa e Casimiro, è un’impresa da pazzi per il rischio. Ferrari dice che sul Torre ha forzato la sua concezione di non andare oltre un certo rischio calcolato, ma c’erano tutti i presupposti per concedersi questa trasgressione, anche se non dovrebbe esistere alcuna cima che valga la vita.
Convinzione, uomini affiatati, le debolezze transitorie affiorate, Ferrari ha saputo dominarle con l’esempio trascinando gli altri. Sul Torre, Casimiro ha solo occasionalmente sconvolto la sua filosofia che prevede esclusivamente rischio calcolato. Lì era andato oltre i limiti, oltre un certo rischio. Scalare una montagna, le difficoltà e i pericoli gli danno gioia e libertà dalle ossessioni della vita, anche se si deve combattere per mantenere ordine nella propria mente, che essendo razionale, vorrebbe rinunciare. Capire la montagna e amarla, essere di riferimento ai compagni, questo lo esalta. La vittoria lo fa sentire umile, persino un po’ imbarazzato verso chi non è lì e non ce l’ha fatta ad andare in cima. Non si può presentare alla montagna il curriculum vitae, lo status, essere un buon padre: la vittoria di pochi è il successo di tutti. Con i suoi ragazzi si sente stanco ma elettrizzato. Il suo non è un viaggio in cima ma dentro a se stesso, la montagna è indifferente, dopo tutto è fatta di ghiaccio e roccia. Una vittoria come quella riportata sul Torre ti fa scomparire le ansie e le complicazioni della vita. È giusto soffermarsi sul Torre perché questo è il capolavoro di Casimiro, ma anche pietra miliare ed espressione di Gruppo omogeneo e unito: i Ragni.
Ma Casimiro ha appena iniziato le sue assidue frequentazioni in Patagonia. A vent’anni dalla conquista del Cerro Torre, trapiantato stabilmente in Patagonia, Casimiro sarà oggetto di spontanee manifestazioni di affetto e festeggiamenti calorosi, tanto da rimanerne commosso. Anche in Argentina il ricordo della conquista del Torre ha un significato enorme. In Patagonia il tempo è fermo, è condizione di vita. La velocità non ha nessuna importanza. Il ritmo frenetico del nostro tempo è sconosciuto. Misura del tempo sono l’uomo e la natura. Solo il vento è onnipresente. Contano essenzialmente i rapporti umani, la solidarietà, dove le distanze sono infinite e la sopravvivenza difficile.
Non si formerà mai una borghesia nel senso europeo, nessuno vuole mettere radici in Patagonia. Solo Casimiro, considerato eretico, caustico, e competitivo a Lecco, più di facciata che in realtà, e per chi non lo conosce bene, accarezza questo desiderio. Non gli basta più tornarci almeno una volta all’anno, vuole viverci. Ne è affascinato. Lì vive gente generosa e la solidarietà esiste e sistema anche i casi più disastrati perché c’è ancora lo spazio per esprimerla.
Nel 1976 registra un altro grosso exploit sull’imponente Fitz Roy 3405 m, riconoscibile da lontano, inconfondibile e di comodo accesso. Ferrari vince il pilastro est, tentato dai francesi nel ’68, dai nostri connazionali di Rovereto nel ’72 e dai monzesi nel ’73, dagli svizzeri nel ’74, a loro volta arrestatisi a 200 metri dalla vetta. La spedizione dei Ragni è di dieci alpinisti, con due in vetta. Uno di questi è Casimiro, dopo 8 giorni di scalata per superare 1200 metri di dislivello con difficoltà ED+.
Casimiro con Torre e Fitz Roy trova successo e merito in campo internazionale. I risultati parlano chiaro, ma lui si trova a disagio fuori dal suo ambiente. Solo a Lecco per lui è tutto godibile. Nel 1984 vince il pilastro nord-est del Cerro Murallon 2656 m con un gruppo di sette Ragni, in quattro giorni e mezzo di scalata e uno per la discesa, con fasi di brutto tempo. È una salita tecnicamente molto difficile, che riesce solo al terzo tentativo dei Ragni, impegnativo per la necessaria resistenza fisica e per la situazione ambientale. Nel 1985 in due giorni ha ragione del Cerro Norte 2950 m lungo la parete est. Nel 1987 gli si arrende dopo sei giorni il San Lorenzo 3706 m, con una via integrale diretta che si sviluppa sulla lunga cresta est, con discesa dal versante ovest. Fanno parte della spedizione altri tre lecchesi del gruppo Gamma. Siamo ai confini col Cile e sussistono notevoli difficoltà di orientamento e di natura ambientale.
La discesa avviene per un versante inesplorato e intricato nel quale Ferrari brilla per la dote di indovinare agevolmente la via di discesa. Dotato di un eccezionale senso d’orientamento e di spiccato spirito di osservazione, riesce a districarsi in situazioni complesse e apparentemente impraticabili. Nel 1988 ritorna in Patagonia per vincere la grande piramide del Riso Patron 3109 m. Nel 1989 ha successo in invernale tracciando una via nuova al San Valentin 3910 m, una montagna di roccia e ghiaccio, la più alta della Patagonia. Nel 1992 con due giovanissimi rocciatori lecchesi del gruppo Gamma vince l’Aguja Bifida 2394 m, nel gruppo del Torre. Nel 1993 è la volta del Cerro Grande 2751 m per una via di ghiaccio. Nel 1994 con un giovane scalatore argentino trovato sul posto traccia una direttissima sulla parete est dell’Aguja Mermoz 2732 m, nel gruppo dei satelliti del Fitz Roy. Al rientro da questa montagna è accolto per i festeggiamenti significativi per il ventennale della conquista del Cerro Torre, cui prima si accennava.
Ma un alpinista del calibro di Casimiro non può ignorare l’Himalaya con le sue quote proibitive, con il fascino delle sue imponenti vette. Infatti nel 1985 sale l’ardita cima dell’Ama Dablam 6856 m sempre con i lecchesi e nel 1986 effettua un tentativo allo Shisha Pangma 8046 m. Qui su questi due obiettivi non è richiesta la capacità di esplorazione, ma entrano in gioco altri fattori, che Ferrari vuole conoscere. Infatti nel 1991 lo vediamo sempre con i Ragni ad affrontare il problema del momento in Himalaya, la Ovest del Makalu 8463 m. E Casimiro anche su questo obiettivo dà la carica e trascina. Due giorni da solo al campo più alto prima di desistere. Quota massima raggiunta 7400 m. Nell’ambiente dell’alpinismo lecchese sono tanti i giovani che scalpitano, e solo il tempo ci indicherà chi rileverà la testimonianza del Miro.
Seneca disse: “Il tempo mette in chiaro la verità”. L’alpinismo per molti a Lecco è stato una ribalta, e sicuramente lo è stato anche per Casimiro Ferrari. Sulla Ovest del Torre è stato pubblicato un libro, edito da Dall’Oglio, poi ripreso da altri con diverso titolo. Ferrari ha pure curato la produzione di ben cinque cortometraggi con argomenti: il Cerro Torre dei Ragni, il Nevado Huantsan, l’Alpamayo, il Fitz Roy e l’Ama Dablam. Il cortometraggio sul Fitz Roy si è aggiudicato il Premio “Città di Trento” e Ferrari ha ricevuto dal Presidente Nazionale del CAI sen. Giovanni Spagnolli la “Genziana d’oro”.
Ragno dal lontano 1959, è stato ammesso nell’Accademico nel 1965, ed entra nel GHM nel 1968, nel novero prestigioso di quello che è inteso come l’accademia internazionale dell’alpinismo. Ferrari è stato insignito inoltre del titolo di Cavaliere della Repubblica per meriti sportivi. Questi sono i suoi biglietti da visita.
Ma i suoi concittadini apprezzano l’uomo anche per la sua dedizione al lavoro, una trafileria in proprio a Ballabio, e alla famiglia. Ora i due figli, Ugo e Laura, sono grandi e questo lo fa sentire sollevato, meno responsabilizzato. E proprio per questo appena può trascorre tutto il suo tempo libero a contatto con la natura nella sua casa di montagna a Morterone, alle falde del Resegone, paesino di pochi abitanti, che è andato spopolandosi nel dopoguerra e che d’inverno rimane isolato più volte per la strada inaccessibile per neve.
Semplice, onesto, chiaro, come lui intende la vita. Cos’è la nostra vita senza un ideale? Se incontri Casimiro in montagna gli leggi la sua soddisfazione sul volto, gli occhi vispi luccicano, un sorriso appena più pronunciato. Ma nella sua vita mai ha creduto alle lusinghe di mettersi in vetrina, di voler apparire quello che non era. Mai aveva nascosto le sue umili origini. Sa tenere nascosti i suoi tormenti. Non concede nulla all’improvvisazione. Lui sostiene che il nome di Lecco è una chiave sicura per entrare nel mondo dell’alpinismo. Certo che Ferrari ha contribuito a farlo crescere, esaltando con l’esempio le nuove leve. La sua figura è quella di un lavoratore “drogato” dall’onestà, che diventa voglia di fare tutto, e di fare tutto bene. Il suo orgoglio contagia tutti. La montagna è la sua casa.
L’alpinismo visitato da amici, tra sorrisi e affetti autentici, è come andare per un sentiero del bosco: sempre più difficile da trovare. Non voglio ricorrere a delle esagerazioni celebrative che proprio Casimiro non sopporterebbe. Perché Ferrari ha fatto tutto questo per Lecco, per i Ragni, per la montagna, per la sua vita? Dopo Casimiro incalzano tanti giovani di valore, chi di loro ne raccoglierà lo scettro, scrivendo per la storia di Lecco e dell’Italia alpinistica altre pagine memorabili? Di certo c’è che ci sono le potenzialità. Staremo a vedere chi si affermerà in un modo altrettanto dirompente, prepotente e insindacabile.
Perché Casimiro ha fatto così tanto e così bene? Certamente non “perché era lì” la montagna, come spiegò enigmaticamente l’inglese George Herbert Leigh Mallory quando gli chiesero perché intendeva scalare la vetta più alta del mondo. Questo già nel 1924 quando la spedizione guidata da Edward Felix Norton muoveva all’attacco dell’Everest dal versante tibetano e settentrionale, giungendo fino agli 8572 m. Poi si sono lette altre cose di Mallory: “C’è qualcosa nell’uomo che risponde alla sfida della montagna e le va incontro: è la lotta della vita verso l’alto, sempre verso l’alto… Da questa avventura si ricava pura gioia. Non si vive per mangiare e per fare soldi. Si mangia e si fanno soldi per godere la vita”. Mallory fu visto l’ultima volta nel 1924, in compagnia di Andrew Comyn Irvine, avvolto nelle nuvole, mentre imboccavano la via verso la vetta dell’Everest, nel pieno di ciò che gli dava il massimo della gioia nella vita.
Definire “gioia” la dura esperienza che Casimiro ha meritato e gustato in montagna può anche apparire strano. Eppure la percezione è proprio di gioia, ce lo ha confidato, gioia di avercela fatta per l’alpinismo, gioia di essersi messo alla prova, gioia di sentirsi vivo e di vivere nel modo prediletto.
Ricoverato presso l’ospedale Manzoni di Lecco per una malattia incurabile, nella notte del 3 settembre del 2001, poco dopo le 2, a soli 61 anni, la vita di questo grande alpinista si è spenta per sempre, ma Casimiro Ferrari è ancora con noi. Il suo sapere di montagna, le sue indimenticabili imprese, che hanno dato lustro a tutto l’alpinismo, sono un patrimonio che rimane in tutti quelli che l’hanno conosciuto, e sono un valore prezioso e immenso per tutti, forse inestimabile per le nuove generazioni.
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Aveva delle visioni!!!!!
È per questo che è stato un grande.
Viveva una sua realtà in cui trascinava chi voleva seguirlo. Prova ne sono la volta che salì la sud del Cerro Grande (una specie di nord delle Droites) con un principiante perché non aveva compagni ma il tempo era bello o quando iniziò una via nuova sulla ovest del Piergiorgio quando non era ancora stato fatto nulla di simile in Patagonia. Aveva delle visioni.
nel senso che viveva fuori dalla realtà?
Secondo me Casimiro Ferrari era un personaggio psichedelico e alpinista maiuscolo.
Grazie!!!, stupendo articolo!!!
Grande Miro!!! Maestro di umiltà e tenacia per tutti noi