Metadiario – 132 – Catinaccio d’Antermoia, via Dülfer (AG 1985-004)
Assai soddisfatti della performance sugli Strapiombi Nord del Campanile di val Montanaia (vedi Una vita d’alpinismo – 131), dopo una breve merenda al bivacco Perugini, tutti e cinque riprendemmo il nostro cammino per fare ritorno al rifugio Padova. Scegliemmo il panoramicissimo e movimentato percorso di Forcella Segnata.
Il 7 agosto 1985 andammo tutti in Lavaredo: volevo fare un po’ di foto e ne approfittai per salire da solo sul Monte Paterno per la via normale mentre gli altri preferivano stravaccarsi al rifugio delle Tre Cime in molle compagnia di centinaia di altri gitanti. Il percorso di guerra che seguii è decisamente inquietante, ormai quelle rocce sono marchiate indelebilmente del sangue della prima guerra mondiale.
Il giorno dopo salimmo al rifugio Zsigmondy-Comici dalla Val Fiscalina. L’intenzione era di salire un altro grande percorso storico, la via Witzenmann alla parete nord della Croda dei Toni: nel frattempo Nella e Paolo avrebbero girato intorno alla stessa montagna per fare delle fotografie. La Croda dei Toni è una montagna arcigna, isolata, complessa. Anche la discesa per la via normale non è certo banale, frutto dell’intuito di Michl Innerkofler.
Il 9 agosto, di mattino presto, Ernestino, Clarice ed io lasciammo Nella e Paolo proseguire per il rifugio Carducci e attaccammo l’evidente caminone che dà la direttiva alla via. Volevamo ripetere l’itinerario aperto l’11 agosto 1897 da Giovanni Siorpaes: in quel periodo c’era il dominio incontrastato di Antonio Dimai. La sua supremazia è appena scalfita dalle poche altre grandi imprese di quel periodo. Una di queste, la Nord della Croda dei Toni, fu realizzata proprio lo stesso giorno in cui Dimai era impegnato sulla via Inglese alla parete sud-ovest della Tofana di Mezzo, ed era dello stesso tipo che Dimai prediligeva: grandi difficoltà su grande itinerario. Autore fu appunto Giovanni Siorpaes, detto Gian del Santo, con Arcangelo Siorpaes e O. Dimai. I clienti erano i fratelli di Dresda Adolf ed Emil Witzenmann. Un itinerario di IV per 700 metri, decisamente impressionante, che evita il più possibile colatoi ghiacciati ed è situato al limite sinistro del grandioso baratro della parete nord della Croda dei Toni. È forse questa la più significativa ascensione di quella prima parte d’estate 1897. Tutto si svolse regolarmente e, nella gioia di questa bellissima esperienza, accettammo anche i due successivi giorni di brutto tempo… fermi al lago di Misurina.
Non che in seguito fosse molto meglio, pertanto ci limitammo a quella parte di salite storiche che avevo in programma che non fossero però così lunghe o impegnative.
Nella prima versione di questo post davo per scontato di aver ripetuto la via Witzenmann e pubblicavo la foto della parete con l’itinerario. Ma qualche giorno dopo ricevevo un commento dalla guida alpina Alberto De Giuli che mi faceva notare quanto segue: “Alessandro, la foto in cui indichi il grande camino della Croda dei Toni (e anche quella col tracciato) se non sbaglio è la linea della via Schranzhofer. Non ho salito entrambe le vie, ma da quel che ricordo dai libri di Walter Pause, la Witzenmann sta più a sinistra“.
Naturalmente ho controllato e De Giuli ha perfettamente ragione. A suo tempo dunque ci siamo sbagliati e non ce ne siamo neppure accorti! I fratelli Anton e Franz Schranzhofer aprirono il loro itinerario il 29 e 30 luglio 1932, IV e V grado (in un grande camino con masso incastrato a due terzi della salita, che in effetti ci sembrava ben difficile per essere stato salito nel 1897…), e uscita su uno spigolo a destra, dato dai primi salitori e pure dagli immediati ripetitori, Hans Steger e Paula Wiesinger) di VI grado e da noi non percorso. Da notare che la guida di Antonio Berti di questa ascensione riporta una data molto diversa, 15 agosto 1935 (errore già presente in Rivista Mensile del CAI, 1939-40, pag.56).
Il 12 agosto, con Nella, Ernesto e Clarice, salii la Torre Leo nei Cadini di Misurina per la via Dibona e subito dopo la Torre del Diavolo per la via Dülfer.
Era stato Angelo Dibona ad avere l’idea geniale di salire alla Torre del Diavolo in arrampicata, senza usare il lancio di corda e traversata aerea come avevano fatto i primi salitori quattro anni prima. S’incontrò con Johann von Pauer, di Budapest. Era il 21 agosto 1907. Dalla Forcella del Diavolo, aggirarono a sud la base della Torre Leo e si arrampicarono nel camino tra questa e la Torre del Diavolo. Da un masso incastrato le due guglie divergono decise e da lì, vista la vergine Torre Leo, pensarono di scalarla, rinunciando così al Diavolo. Per una faticosa fessurina e un esposto spigolo toccarono la cima e discesero a corda doppia. Grazie a quella vittoria, Hans Dülfer riuscì poi, seguendo la via Dibona e aggiungendo un’ardita spaccata, a scalare la Torre del Diavolo. Per permettermi di fotografare la famosa spaccata, Ernesto rifece l’esercizio più volte.
Le difficoltà sono di V grado e non si sa se furono usati chiodi. Ma l’evidenza suggerirebbe di no: Dibona disse di aver usato solo una quindicina di chiodi nel totale delle sue scalate. Non c’è alcuna ragione per non credergli: delle sue più importanti ascensioni egli comunicò sempre l’esatto numero di chiodi e le cifre corrispondono.
Dopo di ciò Dülfer, con il compagno Willi von Bernuth, si dedicò ad un sistematico assalto a quelle guglie che fino ad allora erano state salite solo con il lancio di corda. E così il 15 agosto 1913 fu salita la Torre del Diavolo, V grado, e il 23 la Guglia De Amicis, IV e V; non contenti ancora di guglie, i due salirono l’inaccesso Campanile Dülfer, 2706 m, V grado, 270 metri. Da notare che nello stesso periodo un’altra guglia mai salita in arrampicata venne superata da Berto Fanton, Franz Schroffenegger e Otto Bleier, il 30 settembre 1913: si tratta del Campanile Paola, negli Spalti di Toro, V grado.
Il 13 agosto Nella ed io da soli facemmo un giro fotografico degli splendidi Cadini di Misurina: salimmo al rifugio Fonda-Savio, poi alla Forcella del Nevaio e dunque scendemmo al rifugio Città di Carpi. Nella stessa giornata con Nella ed Ernesto salimmo all’affollato rifugio San Marco, con lo scopo di salire la via normale di una delle montagne più maestose delle Dolomiti, l’Antelao.
Attorno al 1850 un cacciatore di San Vito, Matteo Ossi, aveva dichiarato d’aver salito l’Antelao. Ma ormai questi residui di preistoria avevano le ore contate: ben sappiamo infatti come sia impossibile stabilire una verità quando il protagonista non è al corrente delle regole del gioco. A quanti metri dalla vetta era in realtà arrivato l’Ossi? Paul Grohmann credette di poterlo stabilire. E comunque solo le pietre sanno.
Francesco Lacedelli era ormai diventato la guida di fiducia di Grohmann. Per incarico di questi, Checco salì la Croda Marcora 3154 m l’anno seguente, da solo, con lo scopo di fare una ricognizione al Sorapìss. Ma per la salita all’Antelao 3264 m, del 18 settembre 1863, Grohmann oltre ai due Lacedelli volle pure con sé Matteo Ossi, proprio il cacciatore che diceva di conoscere l’itinerario alla vetta.
L’Antelao, la seconda vetta delle Dolomiti, s’erge solitario e scostante a troneggiare sull’intero Cadore: la struttura a placche e liscioni giganteschi lo fa apparire ancora più repulsivo del Pelmo, i cui strati appoggiati uno sull’altro ne configurano la mole poderosa ma non la minacciosità.
L’ascensione si svolse regolarmente fino al termine delle Laste, quasi sotto la cuspide terminale. Matteo Ossi li aveva guidati fin lì con sicurezza. Ma ora parve titubare e fu così che i Lacedelli, preso il comando della comitiva, trovarono un caminetto che permise la scalata fino al punto supremo.
Approssimativamente, dunque, i ricordi o le conoscenze del cacciatore si arrestavano poco sopra al punto in cui poi fu eretto il bivacco fisso Piero Cosi. Proprio lì la storia si affermò a spese della preistoria. Il cromatismo degli avvenimenti prese lì un colore, definitivamente. Se prima la mente umana esprimeva degli aspetti creativi anche attraverso la finzione e l’incertezza, ora non era più possibile. La creatività doveva esplicarsi in una direzione necessaria, quella della conquista oggettiva. Almeno fino a che ci fossero state delle cose da conquistare: il seguito è un problema dei tempi posteriori, forse proprio dei nostri.
Paul Grohmann scrisse: “Non incontrammo tuttavia particolari ostacoli, anzi il percorso è così caratteristico che non mi sarà possibile dimenticarlo. Ma quando fummo alla base della cuspide sommitale, dalla quale verso sinistra scende una lingua di neve ripidissima, Ossi cominciò a tentennare, probabilmente non sapendo ove attaccare la cupola suprema; però i miei bravi ampezzani intervennero scoprendo subito il passaggio giusto. Vi sono due possibilità: o superare a sinistra un camino di pochi metri, o aggirarlo su una stretta cengia che traversa la parete. Il camino richiede una non facile arrampicata, mentre la cengia mette a prova le vertigini. Noi salimmo per il camino e scendemmo per la cengia. Alle 11.45 eravamo sulla cima dell’Antelao, e ritengo che arrivai su una cima inviolata”.
A queste vicende pensavo mentre lentamente salivamo il 14 agosto su quella strana formazione rocciosa che sono le Laste.
La sera al rifugio San Marco ci raggiunsero Paolo e Clarice: vi passammo un’altra notte e la mattina dopo salimmo verso la Torre dei Sabbioni, con l’intenzione di ripetere la via normale. Ci andammo in quattro, Paolino rimase all’attacco.
Nel 1877 i tempi erano maturi per qualcosa di diverso dopo il completamento delle salite alle grandi cime dolomitiche: anche se forse a quel tempo le nuove mete erano meno stupefacenti. La guida Luigi Cesaletti, detto Coloto, da San Vito di Cadore, il 24 agosto 1877 scalò da solo la Torre dei Sabbioni 2531 m, una guglia sperduta nel Gruppo delle Marmarole, rivolta al Sorapìss. Durante quest’ascensione il Cesaletti toccò il III grado e dovette anche ridiscendere in arrampicata libera per dove era salito, da solo.
Pare che il movente di tale dimostrazione fosse una scommessa, o almeno così riferisce una fonte degna di fede come il tenente Pietro Paoletti che effettuò, per via nuova, la seconda ascensione alla Torre cinque anni dopo. Ma perché da solo? E perché pare fosse presente quel Giovan Battista Giacin, detto Sgrinfa, che fu probabilmente il cacciatore che accompagnò Ball sul Pelmo? Forse era il testimone della scommessa? O forse la scommessa era stata fatta da entrambi con qualcun altro (il che spiega perché ci fosse l’interesse in un primo tempo a sostenere che la salita fosse stata fatta da entrambi)? E perché poi proprio la Torre dei Sabbioni, una cima abbastanza secondaria per quel tempo (per molti anni in seguito dimenticata), non evidente dalle valli sottostanti? I misteri che accompagnano quest’impresa sono tanti. Ma siccome è sicuro che Cesaletti sia stato sulla cima, il mistero accresce il fascino di quell’evento. E a noi non è dato sapere cosa realmente successe.
Ci furono però delle conseguenze. Molti storici concordano con la distinzione di Orazio De Falkner, per la quale l’alpinismo contiene tre epoche diverse: la salita delle cime (l’arte per la natura); la salita delle cime più piccole ma più difficili (l’arte per la natura e per l’arte); la salita delle pareti (l’arte per l’arte). Antonio Berti situò la Torre dei Sabbioni all’inizio del secondo periodo, evidentemente prescindendo dalle scommesse e dai moventi, ma guardando solo ai risultati. Confortato dal giudizio di Demeter Diamantidi, che in occasione della salita del Sass da Mur (Dolomiti Feltrine) ebbe a dire «Cesaletti dimostrò tutte le prerogative di una guida di primo rango», Antonio Berti nei suoi Appunti per una storia alpinistica delle Dolomiti Orientali si spinge a dire: «Luigi Cesaletti è un nome quasi completamente disperso nell’oblio, rimasto oscurato da altri memorabili nomi di guide delle regioni dolomitiche vicine ma è doveroso ricollocarlo al posto che già quella sola salita basterebbe ad attribuirgli. Egli fu, per abilità, all’altezza delle guide contemporanee Michel Innerkofler nelle Dolomiti di Sesto e Michele Bettega nelle Pale». Mentre v’è da concordare sull’importanza misconosciuta della vittoria alla Torre dei Sabbioni, forse è un po’ azzardato un giudizio così positivo sul Cesaletti. Coloto scelse una montagna che non è alta e maestosa ma che è incastonata come un gioiello in una cerchia di pareti ben più imponenti, con ciò scegliendo a propria meta un oggetto estetico e non ideale.
In ogni caso la salita per la via normale alla Torre dei Sabbioni è un po’ come salire, anche se più facile, su una vetta isolata come il Campanile di Val Montanaia, in un luogo di solitudine sublime.
Paolo tornò a Milano con Clarice e d Ernesto: Nella ed io rimanemmo soli nei nostri vagabondaggi. Il 16 agosto volli a tutti i costi procurarmi una serie di belle foto della parete sud della Marmolada: ma non mi limitai a salire sulla Cima Ombretta Orientale partendo dal rifugio Contrin o dal rifugio Falier. Preferii partire da Fociade (Passo di San Pellegrino), salire da sud sul Sasso Vernale e poi, solo alla fine, traversare alla Cima Ombretta Orientale. Nella preferì non accompagnarmi in questa cavalcata.
Il 17 agosto salimmo con la funivia del Rosetta e poi scendemmo per raggiungere l’attacco della parete sud-ovest del Cimon della Pala. Meta un itinerario prestigioso: la via Leuchs. Non arrivammo a legarci così tanto presto e si vedeva che il tempo non era bellissimo.
Il 1905 aveva visto (20 luglio) la salita dello spigolo nord del Crozzon di Brenta, un enorme pilastro che precipita in Val Brenta per 900 metri: ma la Sud-ovest del Cimon della Pala era il problema di quell’anno.
Vi era stato un tentativo assai notevole delle tre guide Giuseppe Zecchini, Antonio Tavernaro e Bortolo Zagonel con Arturo Crescini, il 29 settembre 1892. I quattro erano giunti quasi alla sommità del gran pilastro centrale, ma furono costretti a scendere dalla pioggia. La parete rimase tranquilla per tredici anni, il che, in quel tempo non certo pionieristico, è veramente molto tempo. Forse la vittoria di Dimai e Treptow sulla vicina parete sud aveva tolto un po’ dell’interesse, forse erano le difficoltà a scoraggiare, fatto si è che sulla bella parete sovrastante San Martino di Castrozza, alta 500 metri, nessuno aveva più posto piede.
Fino a che il dottor Georg Leuchs, di Monaco, partì di notte dal paese, solo. Era l’11 agosto 1905. Alle prime luci iniziava la scalata e alle tre del pomeriggio toccava la vetta. La sua breve, ma chiarissima relazione, finiva con queste parole: «Quest’ascensione, tanto come scalata di camini e di pareti, che per numero di passi difficilissimi, nonché per la sua esposizione, può essere annoverata fra le più ardue arrampicate dolomitiche». Lo stesso giudizio da Ettore Castiglioni nella sua guida Pale di San Martino: «risolse uno dei più importanti problemi delle Dolomiti del suo tempo».
Arturo Andreoletti, che con Stefano Parissenti ne compì la terza ascensione, conclude la sua relazione così: «La scalata della parete sud-ovest del Cimon della Pala, che è senza dubbio una delle più ardue e interessanti delle Dolomiti, si svolge in buona parte per camini e sempre in magnifica esposizione: le difficoltà ch’essa presenta crescono man mano che si sale. Non occorrono per essa eccezionali mezzi fisici, ma si richiede una sicurezza perfetta da parte di tutti i componenti della comitiva (che sarà preferibilmente piccola) ed un opportuno affiatamento. Noi fummo costantemente legati ad un’unica corda di una trentina di metri e non abbiamo mai dovuto ricorrere a quella supplementare, né ad anelli né a ferri da roccia…».
Oggi la via è classificata di IV+. E ad aprire l’itinerario fu un uomo da solo.
Dopo di lui vennero ancora Hans Dülfer e Paul Preuss. Essi aprirono delle vie in solitaria e in libera, a volte senza corda. Dopo questi grandi venne l’era del sesto grado e non ci fu più spazio per i solitari: sulle estreme difficoltà non si poteva fare una via nuova da soli! Solo nel secondo dopoguerra, quando nacque la tecnica dell’auto-assicurazione, fu di nuovo possibile.
Georg Leuchs fu insomma l’anello di passaggio tra Piaz e Dülfer, tra Piaz e Preuss. Anch’egli arrampicò da solo senza l’uso dei mezzi artificiali e per primo trovò un itinerario che fosse la reale espressione del IV+.
Mentre nulla sappiamo sulle motivazioni reali che spinsero Leuchs ad attaccare la parete da solo, si sa invece che alla famosa riunione della sezione Bayerland, a Monaco il 31 gennaio 1912, presenti i maggiori esponenti dell’alpinismo dolomitico, Leuchs sostenne in linea generale i principi enunciati da Preuss, ma fece osservare che anche altri come Piaz e Nieberl erano d’accordo in linea di massima: dove le opinioni divergevano era semplicemente sul numero di chiodi concessi (Piaz 30, Nieberl 3, Preuss nessuno). Leuchs disse che ciascun alpinista sapeva dove era il limite tra alpinismo e sport ma che se non si stabilivano regole fisse non avrebbe mai potuto esserci un reale progresso.
Ma nessuno poté mai (per fortuna) stabilire delle norme precise. Leuchs voleva l’ordine, ma l’alpinismo si è sempre fatto strada nel disordine e nella ribellione a codici precisi.
Seguimmo velocemente tutto il diedro-canale che dà la direttiva alla via, ma quando l’itinerario costringe ad obliquare a destra per evitare il più difficile risalto terminale era ormai evidente che saremmo stati costretti a una ritirata. A quasi 3000 m di quota, purtroppo l’inizio del temporale fu davvero violento, la grandine ricoprì in pochi minuti la roccia e noi non facemmo neppure a tempo a impostare la prima doppia che già eravamo bagnati fradici e tremanti di freddo. Ma il coordinamento con Nella funzionò ad ogni doppia: non ricordo quante ne abbiamo fatte, ma certo non poche, anche seguendo il mio naturale istinto di non approfittare della totale lunghezza delle due corde da 50 m. Sempre sfruttare le soste fatte nella salita, mai recuperare più di 30-35 m per volta: su discese improvvisate spesso le corde s’impigliano, tanto più se bagnate tendono a non scorrere. Nella fu eroica, non si lamentò mai anche se aveva le mani congelate nei guanti fradici e il volto livido. Giunti al fondo la costrinsi a correre per recuperare almeno un po’ di calore nella via per San Martino.
Dopo l’avventura sul Cimon della Pala e un giorno di riposo, il 19 agosto risalimmo la val Corpassa fino al rifugio Vazzoler; poi attaccammo una bella e solare via, finalmente in un giorno senza problemi atmosferici: la via Tissi-Andrich-Bortoli alla parete sud della Torre Venezia. Lei era un po’ intimorita dal famoso traverso a destra. Ma in effetti lo arrampicò quasi senza accorgersene, leggera e sicura. Finalmente cominciava ad avere un po’ di fiducia in se stessa, iniziava a piacerle davvero. In cima eravamo in stato di grazia, felici di stare assieme, desiderosi che tutto questo continuasse per sempre.
Il 20 agosto dall’Osteria della Stanga risalii di corsa una buona parte della strettissima e impressionante Val Ru da Molin fino a poter vedere la famosa parete nord-ovest del Burèl, un baratro di circa 1400 metri praticamente invisibile dal resto delle Dolomiti. Fatta la foto, tornai indietro al gran galoppo, davvero impressionato dalla grandiosità di quel luogo solitario e remoto. Il giorno dopo, altro giro fotografico attorno all’intero gruppo del Sassolungo.
Tutto questo in attesa di un altro mio progetto, la salita della parete sud della Punta Pian de’ Sass (Torre Innerkofler) per la via Rizzi. Per questa salita dovevo essere sicuro del bel tempo e soprattutto delle buone condizioni: e purtroppo né l’uno né le altre mi confortavano. Troppa pioggia nei giorni precedenti, troppa instabilità.
In ogni caso, il 22 agosto mi decisi e con Nella andammo all’attacco di una delle più grandi vie delle Dolomiti in epoca pre-sestogrado.
Il 18 agosto 1908 Luigi Rizzi, che in seguito sarà fedele compagno di Dibona in tante imprese, saliva la parete sud della Punta Pian de’ Sass (oggi con più frequenza chiamata Torre Innerkofler) per quello che fu poi chiamato Camino Rizzi: sono 500 metri di parete, lungo un tetro camino, spesso viscido e muschioso. L’altra guida era Giuseppe Davarda e i clienti erano quei Max e Guido Mayer di Vienna che in seguito fecero cordata fissa con Dibona e Rizzi. Il tutto avvenne dopo una ricognizione in cui Rizzi e Davarda lasciarono una corda fissa. Dice Arturo Tanesini di questa salita: «Il camino si presenta molto spesso ghiacciato ed è sempre bagnato e sporco. La salita ha grandi pregi per le caratteristiche più uniche che rare dell’ambiente grandioso e selvaggio in cui si svolge, ma il pericolo del ghiaccio e l’abbondante umidità rendono indeterminate le difficoltà e creano molto imbarazzo. La salita non è consigliabile dopo stagioni umide o sfavorevoli; essa offre però sempre magnifici quadri di roccia, orridi crepacci, caverne buie e scintillanti cascate di ghiaccio. Il camino in certi punti è profondo fino a 30 m e gli strapiombi che lo chiudono sono grandi in proporzione. V-».
Miracolosamente una via fu possibile in tanto orrore: con passaggio dal fondo muschioso su una delle due pareti nere, fino allo spigolo di bordo-camino, su roccia solida ma con raccapricciante esposizione. E oggi il ghiaccio non c’è più. I primi ripetitori, Preuss e Schmidkunz nel 1911, la definirono «il gioiello del gruppo e la più avventurosa e affascinante arrampicata di camino di tutte le Alpi Orientali».
Salimmo rapidamente qualche lunghezza di corda per poi ritrovarci sotto a quello che indubbiamente è considerato il tiro chiave. Sembrava di essere in un meandro di una grotta, il buio era quasi uguale. Lo sgocciolio era ogni dove e in parecchi punti la roccia era ricoperta da una leggera fanghiglia. Non sembrava proprio che la via fosse stata ripetuta di recente. Affrontai quel tiro con circospezione, agganciai uno o due chiodi arrugginiti ma preferii integrare con qualche cordino e friend. Sembrava di essere sul famoso passo del masso incastrato del Pilastro Micheluzzi alla Marmolada, solo un po’ più facile. Ero interessato a completare il tiro perché sapevo che sarebbe stato essenziale per poter scrivere Sentieri verticali a ragion veduta. Giunto in sosta, 35 m più in alto, guardai al di sopra e vidi una via senz’altro ben più asciutta e anche più facile che proseguiva verso la vetta ormai immersa nelle nuvole di pioggia. Ne avevamo avuto abbastanza sul Cimon della Pala: mi ritenni pago della mia “ricognizione” e comunicai a Nella la mia decisione di tornare indietro. Quel giorno evitammo l’acqua in parete, ma non sul sentiero di ritorno al Passo Sella.
Nelle nostre peregrinazioni, facilitate di certo dal poter dormire in furgone, in quel periodo capitammo anche a casa di Heinz Mariacher e di Luisa Iovane, in quel di Carezza. La loro ospitalità fu generosa, così come la loro compagnia di più sere. Magari Nella faceva da mangiare, perché Luisa cominciava a essere intrippata con le sue manie di dieta: non so più se era quell’anno o quello dopo, ma spesso lei si nutriva di sola schiuma di cappuccino. C’era solo un neo in quelle belle giornate: non riuscivo a dormire bene. Solo in seguito, qualche anno dopo, avrei realizzato che il mio malessere notturno derivava dal fatto che sotto la casa scorrevano parecchie vene d’acqua. Allora non sapevo nulla di questa mia intolleranza.
Il 25 agosto andai con Heinz a scalare nella tanto celebrata Val San Nicolò, ma non sui massi della mia adolescenza, bensì su blocchi ben più alti e difficili: facemmo Fata Turchina.
Mentre facevamo base dai Mariacher, il 27 agosto dal Passo di Costalunga salii con Nella sullo Schenon del Làtemar per il sentiero della via normale, sempre allo scopo di fare qualche bella fotografia. Evitammo un temporale per miracolo.
Il 28 effettuai un giro solitario sempre a scopo fotografico: dal rifugio Gardeccia salii al Passo delle Scalette e da lì alla Cima Settentrionale delle Pope, con successiva traversata da sud-ovest alla Cima Scalieret.
Gasati dal bel tempo, il 29 agosto con Nella salimmo dal rifugio Gardeccia al Passo principe e da lì alla base del pilastro sud del Catinaccio d’Antermoia, con l’intenzione di ripetere la mitica via Dülfer.
Hans Dülfer in Dolomiti si recò quattro anni di seguito, ma le più belle imprese le realizzò nel 1913 e 1914. Ebbe una particolare predilezione per un gruppo fino ad allora abbastanza trascurato, i Dirupi di Larsec. 1913: il 15 luglio salì lo spigolo sud dello Spiz dello Scarpello, con Hanne Franz, e il 19 luglio lo spigolo nord del Campanile Sotcront, sempre da solo, entrambi V-.
Il 26 luglio, con Hanne Franz e Franz Guttsmann, il Piccolo Cront per la spalla Est, 600 metri, IV e V, itinerario oggi parzialmente franato.
In queste scorribande non poté non notare la bellezza di quello splendido diedro sul Pilastro Sud dell’isolato Catinaccio d’Antermoia. Una scalata eccezionale, da lui compiuta, solo, il 18 luglio 1914. Il diedro sale per otto lunghezze, e le prime quattro hanno una forte continuità, con difficoltà fino al V+. La compagna Hanne Franz lo assicurò sulle prime due lunghezze: la seconda è infatti la più dura di tutte, V+ con un passaggio di VI-, uno strapiombo fessurato a diedro. Dülfer, usando qualche chiodo, impiegò tre ore e mezza: poi fece salire Hanne, ma lo strapiombo era troppo duro per lei e la malcapitata dovette aspettare sulla cengia del primo tiro che Hans salisse in vetta e scendesse a corde doppie fino a lei! È strano osservare come Dülfer, al pari di Cesaletti, Winkler e Piaz, abbia continuato la stupefacente tradizione di innalzare il livello delle difficoltà tramite una salita solitaria.
Quando Nella mi raggiunse alla sosta del secondo tiro le dissi non solo che il più era fatto: le dissi anche che era stata più brava di Hanne Franz! Naturalmente scherzavo, sapevo bene che Nella non avrebbe mai preso sul serio quel complimento, sapendo bene anche lei cosa significasse comparare due azioni a più di 70 anni di distanza…
Di buona lena continuammo a salire quest’itinerario che è una gioia per il corpo e per la mente. In breve ci ritrovammo sulla larga cima del Catinaccio d’Antermoia a fare picnic come se avessimo appeno finito di salire per la via ferrata…!
Qualche sera prima, al Passo di Costalunga, avevo incontrato l’amico Matteo Lampertico in compagnia di una ragazza: ci eravamo ripromessi di fare qualcosa assieme. Io avevo ancora un progetto urgente da svolgere da quelle parti: a tutti i costi volevo salire la via Dibona alla parete nord della Torre Orientale del Làtemar (Torre Christomannos), una via che il brutto tempo mi aveva impedito di fare assieme ad Anne-Lise l’anno precedente. Il poverino non sapeva in che guai si sarebbe trovato. In compenso volevo evitare a Nella una salita che oggettivamente sarebbe stata eccessiva per lei.
È il 20 agosto 1908: Angelo Dibona e Agostino Verzi, con gli inglesi Edward Alfred Broome e Hanson Kelly Corning sono alla base di quella parete.
Chi osserva le frastagliate torri del Làtemar specchiarsi nelle immote acque del lago di Carezza, sì da domandarsi quale delle due immagini sia vera e concludere, risvegliandosi, che fittizia è l’inferiore perché la montagna non è immersa nel lago ma nel cielo; chi si spinge nelle scure e odorose pinete di Mitterleger dalle cui verdi ombre, tra i tronchi secolari, a tratti si scorgono i precipizi che sovrastano minacciosi; chi poi percorre i simbolici silenzi che ovattano il sentiero del Labirinto, ancora non può comprendere, ancora non può sentire che cosa è il Làtemar, del cui Regno egli si è portato giusto al confine. Occorre risalire i ghiaioni, udire i rimbombi di qualche sasso franante, ansimare tra rupi che da ogni parte sembrano crollare in una tale deficienza d’equilibrio da stordire il più solido dei viandanti; occorre arrampicarsi dietro le quinte e sentire una montagna viva perché semovente, che urla la sua diversità dalle altre sorelle di dolomia, spaccata da violente intrusioni di verde e nero melafiro; occorre infine assaggiarne le difficoltà con le mani, con i piedi, e accorgersi che la roccia spesso si sbriciola e si ribella al percorso umano; capire che il Làtemar non è indifferente al tuo passaggio, vivere la dimensione di pilastri e camini oscuri, delle torri che ad ogni metro mutano forma. Solo allora si potrà avere un’idea di che cosa riuscì a Dibona su quei 600 metri di alghe ondeggianti.
Mentre sulle cime più famose le vie di V erano al di là da venire, sulla grande parete Dibona superò un itinerario che nella parte finale è quasi continuamente di V grado, con almeno quattro passaggi di V+. E ciò a dispetto della guida Tanesini che lo classificò di IV e a dispetto anche della guida Colli-Gross che, pur fornendone una relazione esatta, è stata scritta prima della distinzione A0-libera. Pur non sapendo quanti chiodi usò Dibona sulla Torre, e se li usò, possiamo presumere che di A0 ne fece poco o niente.
Almeno questo è ciò che pensavo quando lasciavo le soste degli ultimi tiri, con Matteo sempre più apprensivo e anche un po’ provato. Come faceva Dibona ad assicurare i suoi clienti senza chiodi? Lui e Rizzi di certo facevano da nut umani in quelle nicchie fredde e grigie. E io salivo piazzando un friend ogni tanto: ero tranquillo ma seriamente impressionato da quanto avevano fatto Dibona e Rizzi. Uscimmo in vetta di primo pomeriggio, in una giornata dai contrasti di luce violenti.
Purtroppo si avvicinava la fine del periodo di cosiddetta vacanza, gli impegni a Milano chiamavano a gran voce. Ma prima di lasciare le Dolomiti volevo fare ancora una puntata nelle Dolomiti di Brenta. Più esattamente volevo fare qualche foto alla parte che non conoscevo, quella zona che dal Croz dell’Altissimo spazia fino al rifugio Pedrotti.
E naturalmente occorreva coronare quelle straordinarie giornate di bel tempo con una bella salita, anch’essa storica: la via Preuss sulla parete est del Campanile Basso. Su quella solitaria opera d’arte di Paul Preuss (28 luglio 1911) furono versati fiumi d’inchiostro, fino al delirio più osannante di ciò che fu anche una dimostrazione pratica delle teorie di Preuss, le quali stavano per uscire sul Deutsche Alpenzeitung di agosto 1911.
Qui ci si può limitare a riportare tre pareri, quello tecnico e recente di Gino Buscaini, quello di Angelo Dibona e quello del massimo cantore di Preuss, Severino Casara. Eccoli, nell’ordine:
«Arrampicata di eccezionale eleganza e della massima esposizione, su roccia ideale, che percorre quella stretta parete grigia, stupenda muraglia alta 110 metri, che si alza verticale sopra la cengia (Gino Buscaini)».
«Anche se breve, la via più impressionante delle Dolomiti (Angelo Dibona)».
«È la più audace e aristocratica affermazione dell’alpinismo su roccia. Mai uomo sulla montagna riuscì a soggiogare la materia, a ridurre il proprio peso alla leggerezza di un’ala, per attingere nel vuoto più vertiginoso una cima (Severino Casara)».
Paul Preuss quel giorno fu veramente il “Signore dell’abisso” (Tita Piaz): salì in due ore con la corda a tracolla e si è raccontato fosse sceso per la stessa via in mezz’ora. È vero che Preuss nel suo taccuino non segnò una freccina verticale discendente accanto alla citazione della parete est, ma non per questo è certo che scese per la via normale. Egli scese comunque per la Est tre giorni dopo, con Paul Relly.
Ma vediamo da vicino cosa diceva il grande austriaco: «Secondo il mio punto di vista un’assicurazione mediante chiodi, e in molti casi qualsiasi mezzo di sicurezza, nonché le discese a corda doppia e tutti gli altri sistemi di assicurarsi con la corda, che tanto spesso rendono possibile una salita o comunque vengono usati durante la stessa, sono mezzi artificiali e perciò per il vero alpinista sono inaccettabili, mentre l’arrampicatore in artificiale li trova giustificatissimi… Quando si sarà riusciti ad accettare il principio dell’uso della corda unicamente in casi di estremo bisogno, le montagne come il Campanile Basso di Brenta, la Torre Delago e il Campanile di Val Montanaia avranno visite molto più rare, ma invece qualitativamente di un valore superiore. Tutti coloro che sono capaci d’arrampicare in salita, ma non in discesa, si accontenteranno di montagne più modeste e si sforzeranno di imparare l’arte della discesa come hanno imparato a discendere per la corda. I limiti della propria abilità al giorno d’oggi sono assai vaghi, perché tutti si costruiscono troppi castelli in aria mediante l’uso dei mezzi artificiali. Se si vuole eliminare il male bisogna estirparlo alla radice… Che noi, prima di essere rocciatori siamo uomini, è vero, e noi vogliamo darne la prova migliore col far sì che il pensiero riporti vittoria sul sentimento, che lo spirito imperi sulla materia!».
È interessante riportare i sei principi della filosofia di Paul Preuss:
1. Non basta essere all’altezza delle difficoltà che si affrontano, bisogna esserne nettamente superiori.
2. La misura delle difficoltà che uno scalatore in discesa è in grado di superare senza l’uso della corda e con animo sereno, deve rappresentare il limite massimo delle difficoltà che egli può affrontare in ascensione.
3. L’uso di mezzi artificiali è giustificato soltanto in caso di immediato pericolo.
4. Il chiodo da roccia è una riserva per casi di emergenza ma non deve essere il fondamento di un metodo.
5. La corda può facilitare l’ascensione, ma non deve mai essere il mezzo indispensabile per permettere la scalata.
6. Fra i principi fondamentali vi è il principio della sicurezza. Ma non la forzata correzione della propria insicurezza tramite mezzi artificiali, bensì quella sicurezza preventiva che per ogni scalatore deve fondarsi sulla corretta valutazione delle proprie capacità.
Saliti il 31 agosto al rifugio Pedrotti da Molveno, il 1 settembre seguimmo il Sentiero delle Bocchette fino all’attacco del Campanile Basso e quindi ancora fin sotto alla Parete Preuss. Ancora una volta è dimostrato quanto non sia necessariamente la difficoltà che rende grande un’impresa. Qui estetica, leggerezza ed esposizione sono elementi costitutivi di una vera opera d’arte.
14
3 Fabio Bertoncelli says: 26 luglio 1985 io, 29 agosto 1985 lui. Per una risata, caro Fabio sulla Via Dülfer al Catinaccio d’Antermoia sei arrivato 3 GIORNI PRIMA DEL COMPLEANNO DI ALESSANDRO… 29 LUGLIO. ciao
Alessandro, la foto in cui indichi il grande camino della Croda dei Toni (e anche quella col tracciato) se non sbaglio è la linea della Schranzhofer. Non ho salito entrambe le vie, ma da quel che ricordo dal libro di Pause, la Witzenmann sta più a sx. Bellissime foto in generale e bei racconti di grandi classiche!
Bravo Gogna a metter tutto su carta, altrimenti quello che si dimentica o si confonde poi non ci fa più compagnia
Ho consultato il mio diario di allora, scoprendo che sulla Via Dülfer al Catinaccio d’Antermoia ho battuto il grande Gogna ‒ ebbene, sí! ‒ con un distacco di piú di un mese: 26 luglio 1985 io, 29 agosto 1985 lui.
P.S. Peccato che la mia Dülfer fosse la via Dülfer-Schaarschmidt, che sale poco a destra ed è leggerissimamente piú facile.
Non sono molte le persone che possono vantare immersioni così profonde nell’alpinismo e nella sua storia, molto bello.
Che bello, che bella nostalgia ripercorrere crode e nomi, mi è sembrato di tornarci, ricordi lontani nel mio tempo, ma con quella bella nostalgia russa. Un caro pensiero a quelli che con me furono. Grazie mille Sign Gogna