Ce que je pense… comment je le dis…

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[…] Dallo scritto (di Seigneur) emerge una filosofia della vita e dell’alpinismo che si presta a qualche riflessione e che non sfuggirà al lettore più attento.
Questo articolo è stato scritto «a caldo» dopo il ritorno dal K2; la delusione dev’essere stata amara quando, sicuri di vincere, ci si è accorti di aver perduto a soli 150 metri dalla vetta. Una sconfitta ricca di esperienze, che dimostra la lealtà dei mezzi e la coerenza delle idee.
Yannick è certamente un sincero, e proprio per questa sua sincerità e immediatezza ci è simpatico; anche quando lancia frecciate a quel celebre alpinista che, come avrete intuito, è Reinhold Messner (
questa è l’intro al pezzo di Yannick Seigneur, probabilmente scritta da Gian Piero Motti, cui dobbiamo anche la traduzione in italiano. NdR)

Yannick Seigneur

Ce que je pense… comment je le dis…
di Yannick Seigneur
(pubblicato su Scandere 1979)

– Non vado mai in montagna per giocare. Parto per conquistare, per vincere e sentirmi vincitore. Quando parto non penso nemmeno per un istante che rischio di fallire nella mia conquista.

– Ritorno sempre felice dalla montagna; sono stato in un mondo meraviglioso in pieno dialogo con me stesso.

– Non amo rischiare la vita. I pericoli mi fanno paura e io li evito al massimo.

– Per me l’alpinismo non è professione, è un modo di vivere in libertà totale, una filosofia.

– Ho scritto dei libri, un po’ per me, per analizzarmi o per concretizzare certe esperienze.

– Ciascun giorno è per me l’inizio e la fine della mia vita.

– Un po’ di fortuna e molta intelligenza permettono ai grandi alpinisti di divenire vecchi «montagnards».

– La scuola insegna poche cose e soprattutto non insegna a trovare un cammino. La montagna, invece, Essa permette di trovare la via.

– Ho una famiglia che adoro e per me la più grande libertà è quella di lasciarla per poi ritrovarla.

– Non amo particolarmente gli ambiziosi, ma il desiderio di realizzare cose grandi nella mia vita è cosi potente che obbligatoriamente mi trovo ad essere ambizioso.

– Dimentico i ricordi, vivo soltanto di progetti.

– Non mi piace perdere, tuttavia qualche volta desidero conoscere la sconfitta perché mi dimostra che non sono così forte come pensavo e mi sprona a diventarlo.

– Quando sono in montagna provo la gioia di essermi liberato dall’ingranaggio del mondo e degli uomini, di essere arbitro di me stesso, riconquistando così il mio valore umano; gioia d’essere alle soglie d’una avventura a lungo sognata, ostinatamente preparata ed ora pronta ad essere vissuta.

– Un libro di montagna non deve essere un prodotto di consumo. Come tutte le cose in montagna, necessita di una lunga maturazione.

– Non ho mai capito l’alpinismo contemplativo. Perché andare a cercare sulla vetta di una montagna il paesaggio meraviglioso che si può trovare vicino a un sentiero a 1000 metri d’altezza, o chinandosi su un fiore. Ogni espressione naturale è bella, a condizione che la sua contemplazione sia stata meritata dallo sforzo fisico.

Yannick Seigneur

La parete si drizza verticale e tutta cariata da buchi che vanno a formare figure geometriche. Son solo, senza corda, e arrampico. Un fantastico piacere fisico mi sommerge. Se cerco di analizzarlo, lo trovo formato da due flutti. Uno che nasce dalla testa e l’altro dalla punta delle dita.

– Nella mia testa c’è il piacere d’essere qui; sono su una guglia di basalto sperduta in un immenso mare giallo di sabbia e di dune, il gran deserto del Ténéré nel Sahara. Il piacere di sentirmi a mio agio in un paese che è anche un po’ il mio paese poiché io l’amo profondamente, paese nel quale ho anche una vera famiglia con Boubakeur, mio fratello. Fa caldo, terribilmente caldo, ma questo mi piace e mi fa dimenticare il freddo delle mie montagne, il freddo del K2, tanto peggio se la sete mi fa succhiare i sassi umidi; qualche volta la sofferenza fisica non mi dispiace.

– E poi questo piacere che nasce nelle palme delle mani e che fa dimenticare tutte le sofferenze. È un’onda di gioia che sale lungo le dita, le mani, le braccia e che esplode nel cuore qualche volta con una scarica di adrenalina.

È questo l’alpinismo? È una forma. Forse la più graziosa, forse la più attraente, quella che raggiunge il cuore e il corpo. Ma certamente non è la più appagante. È la scalata pura. Se la si pratica da soli, non è che un gioco. Ma che gioco! L’alpinismo tuttavia è molto di più, è la roccia, il ghiaccio, la neve, l’avventura in una valle senza cartina dettagliata, a volte la fame, il freddo, il gelo, l’attesa di lunghe settimane in una tendina a due posti, nella bufera, e poi la faticosa traccia da battere, la quota 8000 dove si perde ogni concetto di patria, di famiglia e dove non ci rimane che la volontà di vivere aggrappati al nostro corpo. Non credo che ci siano molte forme d’alpinismo. È alpinista (nello spirito, prima di esserlo nella realtà) ogni persona che davanti a una roccia sente desiderio d’arrampicare, davanti a una montagna la voglia di salirvi in cima. Per il piacere di salirla e di vincerla (non riesco a comprendere quel celebre alpinista che ha detto di provare la stessa soddisfazione sia nella vittoria che nella sconfitta. Per me, è il non senso dell’alpinismo poiché è considerato come qualcosa di non fondamentale). In seguito, nasce sicuramente la volontà di cercare la parete più difficile e questo per me è molto importante. È qui che nasce l’alpinismo competitivo: cercare di realizzare qualcosa di impossibile. Impossibile per sé o impossibile per gli altri.

Dal mio primo passo su una roccia non ho pensato a null’altro nella vita che ad arrampicare, scalare montagne e lungo le loro pareti più difficili. Il termine «alpinismo competitivo» non era ancora nato o per lo meno non molto usato. Ma ben presto mi ci son trovato dentro in pieno. Dapprima ho aperto un gran numero di vie sulle Prealpi calcaree francesi dove altri alpinisti avevano fallito, poi in estate nel massiccio del Bianco e infine in invernale, per poi dirigermi verso l’Himalaya.

– Le Prealpi calcaree francesi m’hanno insegnato ad arrampicare.

– Le Alpi a scoprire nuove vie di salita.

– Le Alpi in inverno a superare qualunque difficoltà con il freddo, il ghiaccio e arrampicando per più settimane (apertura della diretta Whymper alle Jorasses, in inverno: 14 giorni in tecnica alpina, due cordate di due).

Questo mi ha inevitabilmente portato ad aprire grandi itinerari in Himalaya: Makalu pilastro ovest 1971, una via paragonabile a una Nord dell’Eiger più un pilone del Frêney a 8480 metri. Il Makalu 1971 ha rappresentato la vittoria di una spedizione molto numerosa: 10 alpinisti. Il problema era posto dal sapere cosa avrebbe potuto realizzare una cordata in Himalaya.

Yannick Seigneur durante l’apertuta a Punta Whymper d’inverno

Nel 1975 ho vinto il Gasherbrum II 8035 m lungo una nuova via molto diretta: la spedizione era di tipo assai pesante. Anche se noi vincemmo la montagna in cordata di due e con un bivacco dopo i 6300 metri, non fummo così disonesti dicendo che la montagna fu superata in tecnica alpina o semi-alpina. Eravamo una spedizione importante, piazzammo due campi di quota e installammo diverse corde fisse. Una spedizione classica, dunque.

Lo stesso anno Messner e Habeler vincevano l’Hidden Peak in tecnica alpina dopo un campo piazzato intorno ai 6200 metri. Una bellissima vittoria.

Nel 1976 ho fallito il Broad Peak in tecnica alpina (a causa della bufera, a un centinaio di metri dalla vetta).

Nel 1978 son riuscito a vincere il Broad Peak con Georges Bettembourg in stile alpino. Volevamo aprire una via nuova, ma davanti al tempo incerto (mai più di tre giorni belli di seguito) riprendemmo la via di Hermann Buhl e con due bivacchi in salita e uno in discesa riuscimmo a superare i 3400 metri di dislivello della parete. Tutto ciò ha rappresentato ogni volta una progressione nella scala della difficoltà, ma è ancor nulla in confronto a quello che resta da fare.

Il problema più importante che si pone sul momento è sapere se si può vincere una vetta di 8000 metri lungo una via nuova, molto difficile e in stile alpino.

Ritorno dall’esperienza del K2. Abbiamo fallito a 150 metri dalla vetta, ma siamo riusciti a superare una cresta difficilissima. Ben più dura della «Magic Line» che Messner aveva intuito sulla stessa montagna sempre nel 1979. Per me è una sconfitta, ma come tutte le sconfitte mi porta qualcosa di positivo, poiché mi ha provato tre cose:

1) Si può arrampicare su difficoltà di V in roccia a 8500 metri senza ossigeno.

2) Si può risalire cinque o sei volte di fila fino a 8000 metri senza ossigeno e a qualche giorno d’intervallo.

3) Si può dunque superare una via su un 8000 lungo un itinerario estremamente difficile e in stile alpino.

Nel 1980 spero di ottenere il permesso per tentare il Nanga Parbat lungo una via di estrema difficoltà. Si tratta del versante Rupal che presenta una parete di 4500 metri di dislivello. Vorrei vincere il pilastro sud-est, molto più difficile della via aperta a sinistra lungo le fasce di ghiaccio della spedizione di Karl Herrligkoffer nel 1971. I periodi di bel tempo sono in genere molto brevi nel nord del Pakistan. Questo ci induce a pensare di installare un paio di campi, in modo da poter partire in cordata alpina dal campo II.

Il che vuoi dire dover superare 3500 metri di parete con difficoltà paragonabili a quelle delle grandi vie sulle Alpi.

Nella mia testa si accavallano un sacco di progetti, ognuno più fantastico, difficile e inimmaginabile dell’altro. Parlarne farebbe soltanto sorridere i lettori e non servirebbe a nulla. Basta volere, e l’impossibile non esiste più.

Integrale di Peuterey invernale

Certo, sento il desiderio di scalare ancora molti 8000, ma lo voglio fare lungo vie molto difficili. Le vie normali non mi interessano: senza dubbio ho torto e forse non amerò a sufficienza la montagna, ma è così. Quand’eravamo al K2 quest’estate sarebbe stato facile salirlo lungo la via normale in tre giorni. Avevamo il materiale. Eravamo allenati. Ma non era la nostra meta. Noi volevamo vincere la cresta sud-est e tutta la nostra forza e la nostra volontà erano concentrate verso quella meta. Abbiamo dovuto rinunciare già molto vicini alla vetta, ma ritorniamo ricchi di un’esperienza che nessuna via più facile ci avrebbe procurato. In questo sport e in questa filosofia della vita che è l’alpinismo, tutto resta ancora da fare. L’Everest e il K2 attendono il loro primo vincitore, senza ossigeno e in stile alpino. Che vittoria esaltante sarà la loro, quando due alpinisti partendo dal campo base dell’Everest soli, unicamente con il loro sacco in spalla, raggiungeranno la vetta e più di 8800 metri dopo aver affrontato quattro o cinque bivacchi! Lo stesso per il K2, in un paese, il Pakistan, dove il tempo è molto instabile. Queste pareti presentano da 3500 a 3800 metri di difficoltà pari a quelle più forti delle Alpi, ma la grossa incognita è il metodo d’acclimatazione necessario per superare gli ultimi 800 metri senza tecnica a denti di sega. Superare l’Everest senza ossigeno: una decina d’arrampicatori nel mondo sapevano da 10 anni che ciò era possibile. Ma in quanto a superarlo in tecnica alpina, penso che siano pochi gli alpinisti a ritenerlo possibile. Per molti, l’alpinismo è alla sua fine: gli ultimi problemi delle Alpi sono risolti. Ma se si considera l’alpinismo da un altro punto di vista, esso non è che all’inizio.

In salita sulla Cresta di Peuterey al Monte Bianco, 1a ascensione invernale della Cresta di Peuterey

Le pareti nord della Grandes Jorasses e dell’Eiger sono palestre. La traversata Nupse-Lhotse (sette chilometri a più di 8000 metri) diviene una vera salita d’alta montagna.

Dei giovanissimi arrampicatori, come Patrick Berhault in Francia, apportano delle nuove basi a questo edificio che è l’alpinismo competitivo. La progressione non ha una fine, soprattutto essa non è un asintoto. Fantastica è la volontà dell’uomo. Fantastico è l’alpinismo di elevata competizione che permette nel rispetto delle montagne di superarle con eleganza sempre maggiore.

Per informazioni sulla vita di Yannick Seigneur, vedi https://fr.wikipedia.org/wiki/Yannick_Seigneur

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Ce que je pense… comment je le dis… ultima modifica: 2018-01-01T05:24:03+01:00 da GognaBlog

5 pensieri su “Ce que je pense… comment je le dis…”

  1. Yes ma chi pagando partecipa ad 1 spedizione commerciale nel modo descritto giustamente da Alberto non prova questo desiderio di salire in cima generalizzandolo ad ogni parete , ogni roccia, anche e soprattutto le più selvagge e meno note , ( perché in fondo è il senso di avventura più che di conquista), ma ssopratutto verso quelle “famose” , quindi non è comunque alpinista dentro nel senso inteso nell’articolo.

  2. Dice: È alpinista (nello spirito, prima di esserlo nella realtà) ogni persona che davanti a una roccia sente desiderio d’arrampicare, davanti a una montagna la voglia di salirvi in cima.

    è condivisibile fino ad un certo punto. Il modo in cui si sale una cima fa la differenza.

    Chi partecipa ad una spedizione commerciale e pur di salire in vetta paga decine di miglia di dollari e si mette in fila come formiche, ha sicuramente tanto desiderio di salire in vetta ad una montagna ma ha decisamente poco di alpinista.

  3. Quoto @PaoloPanzeri. Analisi finemente introspettiva (e leale) di sé e dell’alpinismo .Una delle espressioni più condivisibili, di ottima sintesi, mi pare proprio quella citata

  4. Dice: È alpinista (nello spirito, prima di esserlo nella realtà) ogni persona che davanti a una roccia sente desiderio d’arrampicare, davanti a una montagna la voglia di salirvi in cima.

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