C’era una volta in Verdon – 2 (2-2)
di Gianni Battimelli
(già pubblicato su climbing pills il 4, 10 e 21 marzo 2011)
(puntata precedente: https://gognablog.sherpa-gate.com/cera-una-volta-in-verdon-1/)
Eravamo rimasti a quella notte del 1979 quando, usciti dalla Démande, avevamo saltato la cena e ci eravamo ripromessi di tornare. Prima di tornare, però, di tempo ne è passato un po’ di più di quanto non pensassi. In Verdon ho rimesso il naso ai primi di ottobre del 1985 [poco prima, come debitamente narrato da Smilzo (vedi prossima uscita su GognaBlog, NdR), c’era stata la visita di Smilzo medesimo insieme a Medioverme, il Dibba e il Ciato]. In quei sei anni erano cambiate tante cose, ma una soprattutto: era arrivata l’arrampicata sportiva, anche se ancora non si chiamava così. E la cosa aveva cambiato, sia pure di poco e con fatica, anche l’ottica, se non il livello, di chi era nato alpinista – come il sottoscritto. Tra Sperlonga, l’arrivo degli spit, le vie fatte calandosi da sopra, le scarpette un po’ migliori di quelle che si usavano cinque anni prima, anche la prospettiva di andarsi a cacciare su alcune delle vie mitiche del Verdon non appariva più così terrificante come una volta. E poi circolava più informazione, ed era uscita la guida. Che aveva i gradi “francesi” di una volta, quando ancora non si diceva 6a, 6b, 6c ma VIa, VIb e VIc (oppure, in alternativa, VI-, VI, VI+) e non ci si capiva più niente, a parte la regola empirica – valida per le pippe come me – per cui V+ poteva voler dire tutto e comunque includeva tutto il fattibile, mentre quando c’era scritto VI era roba per quelli bravi. A complicare le cose, poi, trovavi spesso cose del tipo VIa>A0, oppure VIc>A1, che più o meno voleva dire che quel tiro era stato aperto in artificiale ma poi era stato fatto in arrampicata libera però si poteva ancora fare in artif, ammesso che i liberatori non lo avessero schiodato, cosa che dalla guida non era dato scoprire. Quindi era tutto una sorpresa…
E sull’Escalés erano fiorite le vie di nuova generazione, e le “vecchie” classiche ci aspettavano. Nell’estate ’85 ero stato in Yosemite, e avevo ripreso i contatti con Lin, un’amica conosciuta anni prima nel mio primo soggiorno sulla East Coast. Appuntamento all’aeroporto di Genova il 30 settembre, destinazione Verdon…
Tutto comincia nel migliore dei modi. L’aereo di Lin atterra puntuale, ci trasferiamo rapidamente a Finale per un’ottima cena alla locanda del Rio (dove il livello delle salite che progettiamo di fare nei prossimi giorni cresce in modo inversamente proporzionale al livello del vino nelle bottiglie), il giorno dopo due o tre vie a Monte Cucco, tanto per abituare un po’ Lin allo stile di arrampicata sul calcare (che poi il calcare di Finale non c’entra niente con quello del Verdon, ma io questo non glielo dico), e nel pomeriggio via verso la frontiera, per essere in serata a La Palud.
Solo che alla frontiera Lin si accorge di aver dimenticato alla locanda del Rio metà del suo bagaglio.
Dietrofront, recupero del bagaglio, telefonata a La Palud per avvertire che arriveremo con un giorno di ritardo… La notte passa in un piccolo alberghetto appena fuori Nizza, dove matura la ferrea determinazione che il contrattempo non può costringerci a sovvertire il programma. Domani, 1 ottobre, il programma prevedeva l’Éperon Sublime, ed Éperon Sublime sarà. Partenza all’alba, e alle otto siamo in vista dell’obiettivo. Non so che effetto faccia a Lin; io la vista la conosco già, ma la sensazione che si prova ad affacciarsi dal belvedere è sempre la stessa, la stessa leggera stretta alla bocca dello stomaco quando pensi che tra poco dovrai calarti laggiù per poi risalire su per di là…
Oggi, calarsi in doppia fino ai vari Jardins per poi risalire, è pratica corrente e che non preoccupa più di tanto: anche se la presenza di calate attrezzate su solidi ancoraggi con catene non cancella mai del tutto, specie la prima volta, quella sottile angoscia di cui sopra. Ma allora… allora, per raggiungere il grande terrazzo da cui partono Luna-Bong, Éperon Sublime, eccetera, non c’erano né catene né spit né la moltitudine di linee di calata diverse che ci sono oggi; allora, c’era solo la discesa “attrezzata” lungo la Luna-Bong, dove “attrezzata” significava che la prima doppia era su due chiodi con cordino, la seconda su un cordone attorno al ginepro della sosta, e così via terrificando. Era la calata inaugurata qualche anno prima da Stéphane Troussier e Jacques Pschitt Perrier, i primi ad avere l’idea di affrontare le linee che non partivano direttamente dalla base della falesia calandosi dall’alto anziché raggiungendone l’attacco con le prime lunghezze della Démande e poi traversando lungo le cenge e i boschetti sospesi. E mentre con Lin vaghiamo sull’orlo dell’Escalès alla ricerca dell’ancoraggio della prima doppia, mi rigirano nel cervello le parole con cui Troussier aveva raccontato la storia di quella prima discesa nel famoso numero speciale di AlpiRando: “J’étais vert. Pschitt aussi“.
Lin non sembra tanto verde, forse per incoscienza. Io lo sono abbastanza, ma cerco di non darlo a vedere. Comunque, i nodi in fondo alle corde li faccio più grandi del solito. E sono ben contento di vederli così grandi, quando dopo i primi tre metri di discesa vado oltre l’orlo strapiombante e vedo i capi delle corde dondolare nel vuoto quaranta metri più in basso, col Verdon bello verde trecento metri più giù. Tre metri prima dei nodi, un pendolo permette di acchiappare un ramo del ginepro della sosta. Lin mi raggiunge, e una volta recuperate le corde c’è una sola via d’uscita: arrivare in fondo, e tornare su in qualche modo. No, in effetti si potrebbe anche, in un’emergenza, provare a traversare tutto il Jardin, raggiungere la Démande e calarsi fino al sentiero Martel nel fondo delle gole, ma è un’opzione che non merita neanche di essere presa in considerazione.
Lin
L’Éperon Sublime merita in pieno il suo nome, e la traversata sul filo del pilastro verso la fine della via è uno di quei tiri di corda che ti segnano per una vita…
Con l’Éperon Sublime in tasca, siamo contenti ma riteniamo di non esserci ancora meritati il famoso gigot d’agneau. Per quello, abbiamo in programma il colpo grosso. Grosso per noi, almeno. Pochi anni prima, il solo pensiero di andarmi a cacciare su una via così non mi avrebbe nemmeno sfiorato. Domani, invece, andremo a vedere se e come si esce da Pichenibule.
Le doppie per raggiungere il Jardin des Ecureuils sono molto meno impressionanti di quelle di Luna-Bong, lungo un colatoio senza strapiombi e con comode soste, ma la preoccupazione per quello che ci aspetta è nettamente ai livelli di allarme.
Da Pichenibule, una volta fatti i primi tiri in traverso, non si torna indietro, e la difficoltà aumenta man mano che si sale… E so praticamente a memoria il testo di Jean-Luc Le Floc’h su Alpinisme et Randonnée, quello che mi ha dato lo stimolo per venire a cacciarmi quassù e che mi ha perseguitato come un incubo nelle notti scorse. Mi perdonino quelli che non leggono il francese, ma qui le citazioni sono d’obbligo:
“Quand Marco lance le rappel au-dessus d’une mer de nuage qui vient battre les flancs du canyon, je n’ai idée ni de la difficulté, ni du caractère exceptionnel de la partie supérieure de la voie. A la réflexion, je ne lui sais pas d’équivalent en calcaire!… La première longueur me parait exposée… Nous longeons un balcon ventru aux gouttes d’eau profondes, comme un pique-fleur. Pour l’instant, pas de problème. La longueur suivante débouche en plein gaz et traverse une zone criblée de petites alvéoles. Entrainé, le plaisir est garanti, mais, grimpeurs du dimanche, souffrez! Les petites prises vives malmènent vos doigts et la verticalité tiraille vos poignets. Il y a vers le milieu un mini-coin de bois, planté on se demande par quel tour de passe-passe. Et pour l’atteindre… quel “pas”! Tant pis pour l’éthique, j’empoigne la sangle!”
Fin qui tutto bene anche per noi due, anche noi “arrampicatori della domenica”. La sorte ha dato a me questa lunghezza, che passo senza problemi “all free”, ma so che più su mi aspetta il tiro chiave, il lungo muro di VIc>A1, dove non ho la minima idea di quale sia l’attrezzatura fissa in loco e quanto sia possibile integrare con dadi per abbassarne la difficoltà alla mia portata. Lin parte per il tiro successivo, e io continuo a rimuginare il mio mantra, in preparazione per la prova che sta arrivando:
“Jusque-là rien que du classique, nous n’avions encore rien vu de Pichenibule, dont les attraits et la difficulté décidément vont crescendo. La longueur suivante allait nous montrer de quel bois l’on se chauffe et de quel rocher l’on grimpe dans le Verdon! Imaginez une surface rocheuse parfaite, cendrée, suspendue dans l’atmosphère au-dessus des ruades d’un cours d’eau tout vert. Et dans cette dalle une suite de prises menues s’agencent en une sorte de fissure discontinue. Imaginez qu’un homme arrive là et lève les yeux. Alors toute sa capacité athlétique, sa concentration, sa maitrise technique, sa force de désir, il les jettes dans la bagarre. Une seule alternative: vaincre. Il n’entend plus le bruit du torrent, ni meme les battements artériels dont le rythme a monté instantanément. En plein silence et en plein ciel, se déroule un ballet fantastique, limite, limite… dont personne ne sera témoin.”
Di quel tiro di corda, ricordo solo la paura alla partenza e l’esaltazione in sosta, l’urlo liberatorio verso il basso “Off belay, Lin!” In mezzo, avrò fatto anch’io il mio balletto, certamente “limite, limite”, e visto che le mie “capacité athlétique” e “maitrise technique” certamente non sono all’altezza di queste difficoltà in libera, avrò anche – potete ben immaginarlo – fatto ricorso a tutti i possibili trucchi del mestiere per tirarmi fuori di lì. Lin mi raggiunge, sale un po’ e traversa ancora a sinistra lasciando sopra di noi il muro grigio cenere dove passa Cthulhu (nella foto, presa dalla sosta successiva, si vedono le tracce di magnesia in alto sulla mia destra, mentre la corda che pende deve essere di qualcuno che stava attrezzando dall’alto una nuova lunghezza), e sosta alla base del famoso “bombé”, dove da non molto è passato in libera Patrick Berhault – e pochi altri dopo di lui. E parto per l’ultimo tiro; stavolta, a tirare fuori le staffe non ci penso neanche un secondo.
“Au dernier golot, les mains ont fait le geste de prendre le rocher et comme par enchantement, il y avait des barres sculptées en creux, les pieds ont cherché le contact de la roche et ils s’y sont enfoncés naturellement. A cet endroit, j’ai pu croire que j’allais faire corps avec le rocher, que j’étais de la meme matière et allait m’y anéantir… Au bout du plus dur, délivré, il n’y avait plus ni mouvement périlleux ni contractions musculaires douloureuses, grimper devenait facile, merveilleusement irréel, éthéré: à l’encontre de toute orthodoxie, en contradiction avec l’expérience passée, le support s’était adapté à l’homme, tout juste!”
All’ultimo spit del bombé, uscendo dai gradini della staffa, la parete ridiventa verticale e poi si appoggia leggermente, le prese si aprono nel meraviglioso calcare scolpito grigio cenere di questa placca incredibilmente aerea, e la progressione verso il bordo della falesia diventa un viaggio irreale, perché non ci credo ma è vero, sto davvero facendo qualcosa che pensavo destinata a rimanere nei sogni. Alla sosta mi guardo finalmente intorno, ci sono i ginepri, il Verdon giù in fondo alla gola, i turisti non lontani sul Belvedere de la Carelle, poche nuvole in un cielo blu. E’ una bella giornata.
Sì, oggi è una bella giornata. Oggi sono un uomo felice. Oggi ho salito Pichenibule.
E il gigot d’agneau, la sera al Point Sublime, era all’altezza delle aspettative.
E il terzo giorno… resuscitò da morte.
No, mi sto confondendo.
Il terzo giorno… beh, potremmo considerarci soddisfatti, ma ormai la “machine à grimper” è scatenata e non ci ferma più nessuno. Il terzo giorno, Dingomaniaque. In confronto a Pichenibule, una passeggiata. Stessa calata, ma risalita su una bella prua di calcare dritta dritta, dove se ci sono problemi niente di più semplice che tirare giù una doppia e risalire per le facili Dalles Grises.
Engagement nullo o quasi, dunque. In compenso, divertimento assicurato, anche se in alto si comincia già allora a non capire più niente tra vie che si intersecano a destra e sinistra, per cui alla fine usciamo non sappiamo bene da dove. Poco male, la roccia è splendida e la scalata pure, il tempo è bello e si incontrano tipi interessanti, in parete (vedi foto) e fuori.
Digressione su attrezzatura e look. Come si vede dalle foto, in loco c’è ancora un bel po’ di roba “old style”, oltre a qualche sporadico spit: chiodi con cordini dentro, fettucce infilate in clessidre… Lin arrampica con le Mariacher, io ho le San Marco gialle e nere. Pantaloni bianchi, california oblige… niente casco, siamo climbers… mazzi di nut a go-go, e qualche friend – di quelli originali, a barra rigida. Martello e chiodi, a casa. I rinvii, fatti artigianalmente con fettucce annodate. La belle vie.
La sera, all’albergo, ci avvicina una ragazza francese accompagnata da un tipo grande e grosso. Ha sentito che Lin viene dagli States e chiede informazioni, lei e il suo amico stanno per partire per un giro di arrampicata nell’ovest. Lin monta in cattedra e dispensa il suo sapere. La francese è tutta orecchie e umma umma con Lin, e a me non mi si fila di pezza. Accidenti, non poteva avere voglia di andare ad arrampicare a Sperlonga e Gaeta invece che in California? Rosico come un dannato mentre Lin si pavoneggia sempre più con le sue Red Rocks e la Sierra e Camp Four… e io che so’, il figlio dell’oca bianca?
Niente, alla fine neanche l’autografo mi sono fatto fare, da Catherine Destivelle.
Naturalmente, il tipo grande e grosso era Lothar Mauch…
Dopo il terzo giorno viene il quarto. Che è anche l’ultimo. E pure corto, visto che stasera Lin deve nuovamente essere a Genova (no, mica per tornare in America, per andare a ricevere una sua amica che arriva a sua volta dagli States e con cui si faranno un’altra settimana in Verdon e poi non so quanto in giro per la Francia: sono io che devo tornare comunque a casa).
Poco tempo a disposizione, vietta corta per chiudere: prima doppia di Luna-Bong (ormai una vecchia conoscenza, per l’adrenalina abbiamo già dato), e in traverso a destra partono i due tiri di Necronomicon. E finisce l’avventura.
Quando guardo queste foto mi sembra di annusarle. L’odore del ginepro, del vento caldo che passa sull’altopiano, la fragranza della lavanda nei campi all’uscita delle vie, il sudore pungente negli occhi. E sento i rumori, il brusio del Verdon onnipresente giù in fondo alla gola, il fischio delle corde agitate dal vento, il clic del moschettone che entra nel chiodo, il tintinnio del materiale sull’imbrago, le voci… e la gioia, pura e semplice, negli occhi del compagno di cordata…
E mi sorprendo sempre a pensare quanto è bello arrampicare, e quanto siamo stati fortunati a farlo lì, allora.
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Bravo Gianni,
un racconto che sa di lavanda, di sole e di venti caldi, ma giusto quanto basta; e grazie ad Alessandro per avercelo riproposto!
Ricordi di gioventù….lacrime agli occhi….
Mi ha trasmesso emozione. Sembrava vedervi, come in un film.
Nostalgia di gioventù, “quando salendo creavi il mondo”.