Tra febbraio e marzo 2018, Silvan Schüpbach e Matteo Della Bordella hanno passato un totale di 22 giorni di spedizione in una delle zone più remote ed isolate della Patagonia, con l’obiettivo di scalare il Cerro Riso Patron.
Cerro Riso Patron Sur
di Matteo Della Bordella
Sono passati più di tre anni e mi ritrovo ancora nella stessa situazione: sballottato su e giù dalle onde e chiuso dentro il mio kayak, lottando per stare a galla e andare avanti, col vento che mi arriva dritto in faccia, e sembra anche lui prendersi gioco di me, e sussurrarmi “hai voluto il kayak, ed ora ne paghi le conseguenze!”.
Tre anni fa, ero sempre insieme al mio amico Silvan Schüpbach, in Groenlandia, quando al termine della nostra spedizione promisi a me stesso che non avrei mai e poi mai più pagaiato così tanto. “Sono un alpinista, non un kayaker” – continuavo e pensare – “e sono qui per scalare le montagne, non per rischiare di annegare nel mezzo dell’oceano!”. Ma d’altronde si sa che noi alpinisti abbiamo la memoria breve e che ciò che sul momento ci provoca sofferenze, preoccupazioni, fatiche e timori, col tempo si trasforma nel ricordo di qualcosa di importante e appagante per noi stessi. Quando torniamo a casa dentro di noi pensiamo già alla prossima sfida e ci immaginiamo di fare qualcosina in più della volta precedente, dimenticandoci di tutte le sofferenze, imprecazioni e promesse che avevamo fatto solo poco tempo prima, quando avevamo detto a noi stessi “Mai, mai più!” Questo è proprio quello che è successo (anche) con questa spedizione. Quando i ricordi dei 400 km in kayak nel 2014 in Groenlandia, dell’incontro con l’orso polare e del ribaltamento col kayak erano abbastanza sbiaditi, ecco, era giunto il momento di partire per una nuova avventura, possibilmente ancora più impegnativa e incerta di quella precedente.
Questa nuova avventura aveva già un nome, ovvero Cerro Riso Patron. Il Cerro Riso Patron balzò agli occhi delle cronache alpinistiche nel 2015, quando un team franco-argentino si aggiudicò il prestigioso Piolet d’Or per la prima salita dello sperone nord-est della cima centrale. Personalmente, conoscevo già questa montagna, grazie ad alcuni racconti dei vecchi Ragni di Lecco. Infatti, la prima salita del Riso Patron fu del grande Casimiro Ferrari (insieme con Bruno Lombardini ed Egidio Spreafico), nel 1988.
Tuttavia devo ammettere che l’idea di andare al Riso Patron è nata grazie a tutte le informazioni messe a disposizione gratuitamente da Rolando Garibotti sul suo sito www.pata-climb.com. Fin da subito sono stato colpito dalle prime parole che descrivono questa montagna: “The Cerro Riso Patron is located en el culo del mundo (sic!): e se lo dice uno con l’esperienza di Rolo c’è veramente da crederci!
Sempre grazie al sito Pataclimb, sono venuto a conoscenza del fatto che la cima meridionale di questa montagna era ancora inviolata e che sul versante ovest presentava una parete vergine di oltre 1000 metri, dove già l’avvicinamento era una vera e propria avventura, tanto da mettere a dura prova i pochi che avevano tentato questa montagna in precedenza. Era ormai da più di un anno che le parole “parete inviolata, en el culo del mundo, avvicinamento complesso”, rimbombavano nella mia testa e ormai mi ero convinto che questo sarebbe stato il posto giusto per vivere un’altra grande avventura by fair means. Con lo stesso stile del 2014 in Groenlandia, e possibilmente con gli stessi amici, ma nell’ambiente della Patagonia e con tante incognite in più da affrontare. Il 9 febbraio arriva il momento tanto atteso. Il luogo di partenza della spedizione è il villaggio di Puerto Eden, un piccolo villaggio di pescatori nei fiordi cileni, 400 km a nord del più celebre Puerto Natales e raggiungibile solo via mare. Il piccolo villaggio conta una cinquantina di abitanti, non molto abituati alla presenza di turisti. Mentre un piccolo gruppetto di curiosi ci osserva, io e Silvan infiliamo, non senza difficoltà, nei nostri kayak circa 60 o 70 kg di materiale suddiviso tra attrezzatura, cibo, vestiti e quant’altro ci possa servire per 30 giorni di spedizione in autonomia. È sempre stupefacente quante cose si riescano ad infilare nei kayak! La mattina del 10 febbraio i nostri amici Fulvio Mariani e Sebastian De La Cruz ci salutano dal molo di Puerto Eden: li reincontreremo 4 giorni più tardi nel fiordo Falcon. Fulvio Mariani è un famoso cineasta svizzero (autore ad esempio del mitico film Cumbre sulla prima solitaria al Cerro Torre del 1986) e insieme stiamo realizzando un film che racconti le salite di Casimiro Ferrari in Patagonia. Quando Fulvio mi ha chiesto di venire per filmare la nostra spedizione ammetto che ero un po’scettico, poiché volevamo fare tutto in solitaria. E allora abbiamo trovato un compromesso: “Se volete venire, deve essere tutto indipendente”, abbiamo spiegato. E così è stato. Fulvio e Seba sono arrivati un giorno dopo di noi, e il loro campo base era a dieci minuti di distanza dal nostro. Anche per quanto riguarda l’avvicinamento alla parete si sono mossi in maniera del tutto autonoma e lo stesso vale per il rientro con i kayak. Gli unici momenti che abbiamo davvero condiviso insieme sono stati i giorni di riposo, dove abbiamo assaggiato un paio di bicchieri (o forse anche qualcuno in più) del vino che loro avevano portato in barca… Diciamo che per essere precisi e sinceri possiamo dire che questa è stata una spedizione by-fair-means, ma non integralista.
Il mare è liscio come l’olio e i pensieri si accavallano nella testa; con queste condizioni perfette in realtà non c’è molto da pensare, si tratta solo di “staccare la spina dal cervello” e pagaiare, in modo costante per interminabili ore ed ore, guadagnando in modo lento ma inesorabile i preziosi chilometri che ci separano dalla nostra meta. Sono ormai le 8 di sera quando mi affianco al kayak di Silvan. Mi giro verso di lui e mi sembra di guardarmi allo specchio e vedere disegnata sul suo volto la mia stessa espressione. Sono 13 ore che pagaiamo, interrotte solamente da 3 pause: è vero che giornate con un mare così piatto sono rare in Patagonia, ma è ora di fermarci perché siamo esausti! Piantiamo la tenda e diamo uno sguardo alla nostra cartina. Non abbiamo gps o diavolerie varie che ti dicono quanti km esattamente abbiamo percorso, ma le nostre misurazioni fatte a spanne parlano chiaro: abbiamo fatto almeno 50 km, ovvero circa la metà della distanza totale.
Il giorno dopo ci svegliamo di buon’ora coi muscoli tutti indolenziti; le 13 ore del giorno prima si fanno sentire ed è dura rimettersi nei kayak a pagaiare, ma il morale è alto perché sappiamo che possiamo prenderci una giornata tranquilla e poi terminare l’avvicinamento coi kayak il giorno successivo. Infatti, è proprio quello che facciamo, e raggiungiamo il luogo prefissato per il nostro campo base la sera del terzo giorno dopo essere partiti da Puerto Eden. Appena arrivati a destinazione notiamo subito che c’è qualcosa di molto, molto strano: al posto della classica foresta verde, rigogliosa e fitta, ricca di vita, di suoni e di uccelli che ci aveva accompagnato fino ad ora troviamo una distesa marrone di sabbia, terra ed alberi sradicati, cosparsa qua e là di blocchi di ghiaccio, pesci morti e conchiglie. È uno spettacolo desolante e allo stesso tempo terrificante. Se fino a quel momento la natura ci aveva trasmesso vitalità e armonia, ora invece non vediamo altro che morte e distruzione. Non sappiamo bene cosa possa essere successo, ma ipotizziamo che una sorta di “tsunami”, avvenuto presumibilmente non molti giorni prima del nostro arrivo, abbia distrutto qualsiasi cosa nel raggio di un chilometro e mezzo di distanza. Solo a immaginare la scena ci vengono i brividi. Dopo aver stabilito un campo base nella zona che ci sembra più riparata da eventuali altre inondazioni ci mettiamo subito all’opera per esplorare la zona e decidere la strada da seguire per avvicinarci alla parete ovest del Riso Patron.
La sensazione di essere tra i primi a esplorare questo piccolo angolo di mondo è fantastica e lascia libero spazio alla fantasia e all’immaginazione: non c’è un sentiero o una rotta tracciata da altri che dobbiamo seguire, quello su cui fare affidamento per raggiungere la parete è solo il nostro istinto… è un’esplorazione orizzontale e non verticale (come siamo abituati), ma per un momento mi pare di essere un bambino che gioca a guardie e ladri e deve trovare il modo di arrivare alla fortezza. Ed è proprio grazie ad un pizzico di fantasia e immaginazione che ci viene in mente la soluzione vincente per raggiungere la parete nel modo più rapido ed efficiente possibile. Laddove un grosso fiume ci sbarra la strada più agevole, decidiamo di attraversare a nuoto il lago a monte di quest’ultimo, e quindi di attrezzare una “tirolese”. Mi lego quindi un cordino in vita e nuoto sulla sponda opposta del lago, lego il cordino a una pianta e Silvan fa lo stesso con l’altro capo, lo tensiona e così otteniamo una “tirolese” lunga circa 80 metri, a una decina di metri dall’acqua, che ci
permette di passare da una parte all’altra del fiume senza bagnarci. Per il resto, il percorso è di “ordinaria amministrazione”: tra paludi, boschi e prati verticali. Grazie a questa soluzione in circa 6 ore continue di marcia riusciamo ad arrivare, dal nostro campo base in prossimità del mare, al campo avanzato, che stabiliamo a poco più di un’ora dalla parete ovest del Cerro Riso Patron. Ancora una volta, avere una parete vergine alta circa 1200 metri e larga più del doppio, lascia grandissimo spazio alla nostra creatività e fantasia, io e Silvan giochiamo ad ipotizzare le più svariate possibilità di salita, cercando di mettere insieme tutti gli angoli di questo enorme muro e cercando di capire quali difficoltà, pericoli e condizioni possano aspettarci una volta in parete. Ancor prima di attaccare la montagna nella nostra testa abbiamo già ipotizzato e discusso tutti gli scenari e le linee di salita possibili: siamo pronti per una finestra di bel tempo lunga, per una breve, per condizioni secche, per il caldo, il freddo, per il vento. Insomma, con la fantasia abbiamo già scalato questa montagna diverse volte, ora non resta che cogliere l’occasione giusta per scalarla anche nella realtà!
Il 22 febbraio, dopo circa una settimana di attesa e dopo aver passato una giornata nella nostra tendina al campo avanzato con la tempesta che infuriava, arriva il momento a lungo sognato di fare un tentativo. Come spesso accade dopo tanti giorni di brutto tempo, la parete è completamente incrostata di neve e ghiaccio, così scegliamo una linea di salita adatta alla scalata su misto, con piccozze e ramponi. Nei primi 300 metri le difficoltà sono modeste, e saliamo slegati su terreno di terzo, forse quarto, grado, finché non ci troviamo davanti a 25 metri di roccia verticale e compatta. Non essendoci alcun modo di aggirarli decidiamo di provare a superarli direttamente in dry tooling. Parte Silvan, che è un vero maestro in questo genere di arrampicata; gli incastri delle piccozze non sono facili da trovare e non è nemmeno facile piazzare delle protezioni affidabili dal momento che la roccia è ricoperta da un sottile strato di ghiaccio. Arriva in sosta dopo una lunga lotta; poi viene il mio turno, da secondo di cordata, e quando arrivo in sosta mi accorgo che è passata più di un’ora da quando abbiamo attaccato questi 25 metri! È sempre difficile dare una valutazione oggettiva della difficoltà tecnica, specialmente in un ambiente come questo, dove non ti puoi permettere errori e dove non sei tranquillo come a casa, diciamo che il grado di M7+ ci sembra un giudizio abbastanza appropriato, anche se al momento per entrambi sembra essere molto più duro. Tuttavia, come spesso accade, sulle vie di arrampicata, in montagna ed anche più in generale nella vita, non è dove la difficoltà tecnica è elevata che il rischio di infortunarsi è più alto. Spesso infatti capita di inciampare e di farsi male nel luogo e nel momento in cui meno te lo aspetti.
Sono da capocordata su un tiro facile (forse M4?) e sto pensando che su questo terreno devo cercare di essere veloce ed efficiente se vogliamo arrivare in cima prima che faccia buio. Sono totalmente immerso nei miei pensieri e nel mio falso senso di sicurezza: mi muovo spedito e senza esitazioni… poi in un attimo tutto cambia. Sento un rampone scivolare sulla placca di granito sottostante; mi sbilancio e sento anche l’altro rampone che gratta sulla roccia. Convinto di avere un buon aggancio con la piccozza, la afferro con la mia mano destra; sento la lama della piccozza grattare sul granito e cerco disperatamente di aggrapparmi alla roccia con la sinistra, ma il verglas mi scivola lungo il guanto. A quel punto vengo risucchiato senza controllo verso il basso e sono pronto al peggio. Sono terrorizzato quando senza nemmeno rendermene conto mi ritrovo nuovamente fermo 3-4 metri più in basso. Vedo la seconda piccozza – che in quel momento non stavo utilizzando e avevo lasciato all’altezza dello scarpone – sopra di me, incastrata nella roccia e mi ritrovo appeso al laccio che collega la piccozza all’anello dell’imbrago. Sono incredulo e lo è pure il mio compagno Silvan. Recupero una posizione stabile ed estraendo la piccozza dalla roccia vedo che la sua anima in legno si è completamente stortata, assorbendo una parte considerevole dell’impatto della caduta. Ora ho una picca che guarda a sinistra, ma sono incredibilmente illeso. Sono ancora scosso dall’adrenalina, ma prendo coraggio e ripeto a me stesso “tutto ciò che non uccide, ti rende più forte”. Non c’è modo migliore per mettersi alle spalle questo brutto episodio che ripartire verso l’alto, cercando di mantenere la concentrazione al massimo.
Verso le prime ore del pomeriggio raggiungiamo il nevaio a metà parete e possiamo così osservare da più vicino la parte alta della via che vorremmo seguire. Una nebbiolina strana ci avvolge e conferisce un tocco mistico a questo ambiente: non sono mai stato a scalare in Scozia, ma mi sono sempre immaginato un ambiente del genere: roccia ricoperta di brina, verglas, e nebbia che ti impedisce di vedere lontano. Pian piano la roccia lascia il posto al ghiaccio puro e la scalata si fa veramente entusiasmante e divertente: non vi è più la preoccupazione di scivolare sulle placche di roccia ghiacciate e la piccozza affonda bene nel tipico mix di ghiaccio e neve patagonico.
Dopo aver superato svariati risalti di ghiaccio più o meno lunghi, con pendenze fino a 90 gradi, iniziamo a vedere chiaramente la vetta e il fungo di neve finale. Decidiamo di provare ad aggirare il fungo verso sinistra, sperando di trovare difficoltà contenute, e infatti in breve ci ritroviamo appena sotto la vetta del Cerro Riso Patron Sud. Passiamo uno alla volta sul punto più alto della montagna e infine alle 8.30 di sera del 22 febbraio 2018, dopo 12 ore di scalata e con il tramonto alle spalle, ci stringiamo la mano ed abbracciamo sul pianoro sommitale a pochi metri dalla cima vera e propria. La sensazione di essere i primi uomini a mettere i piedi su questa montagna, mi fa sentire piccolo piccolo, al cospetto della grandezza della natura e del panorama mozzafiato che ho di fronte. Davanti a noi c’è una distesa pressoché infinita di ghiaccio e pareti da scalare. Vediamo in lontananza la fortezza di roccia e ghiaccio del Cerro Murallon e mi viene da sorridere al pensiero che solo un anno prima mi trovavo in cima a vagare nel brutto tempo, mentre ora sono qua a godermi questo spettacolo della natura.
Mi sento una persona fortunata a poter vivere queste grandi avventure e a condividerle con i miei amici e domando a me stesso dove la vita potrà condurmi il prossimo anno?! Eh sì, la fortuna questa volta è proprio dalla nostra parte; infatti, attrezzata una prima calata dal fungo sommitale, abbiamo giusto il tempo di accendere le nostre lampade frontali, quando troviamo un perfetto posto da bivacco piano e riparato dove passare la notte. La mattina successiva ci svegliamo, il vento inizia a soffiare e le classiche nuvole alte che preannunciano l’arrivo del brutto tempo in breve coprono il cielo. La nostra discesa per il lato sud della montagna scorre tuttavia veloce, senza alcun inconveniente, e così la sera stessa ci ritroviamo a festeggiare al nostro campo base in riva al mare.
Una volta tornati al campo base e dopo aver recuperato le energie spese la voglia di tornare su queste montagne per un’altra salita è grande: pensiamo che l’occasione di poter scalare in un posto simile non capita molto spesso nella vita e vorremmo sfruttarla al meglio. Nostro malgrado, però, il tempo sta definitivamente volgendo al peggio e così, dopo aver recuperato tutto il materiale al campo avanzato, ci dobbiamo rimettere nei nostri amati e odiati kayak. Il rientro via mare è stato la degna conclusione di questa avventura impegnativa: il vento contrario ci ha tenuto compagnia per buona parte del tempo, tanto che mi sentivo come i ciclisti in un “tappone dolomitico” del giro d’Italia: pagaia stretta e testa bassa, a combattere contro i crampi e la fatica. Quello che all’andata avevamo percorso in una giornata di 13 ore, ha richiesto al ritorno ben tre giorni di sforzi! Solamente l’ultimo giorno ci ha concesso un regalo: il vento a favore, per un arrivo trionfale nella ridente Puerto Eden! Oltre a ringraziare tutte le persone che hanno creduto in noi e ci hanno aiutato con questa spedizione, io e Silvan vorremmo dedicare questa salita, che abbiamo battezzato King Kong, a una persona in particolare, Daniele Chiappa, uno dei mitici quattro primi salitori del Cerro Torre nel 1974, che aveva a lungo sognato e progettato una salita simile alla nostra su questa montagna.
Sebbene né io né Silvan avessimo mai avuto la fortuna di conoscerlo, per questo suo sogno e per tutto quello che ha fatto per l’alpinismo a Lecco e non solo, questa salita vorremmo dedicarla a lui.
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Il mio commento 6 era per altro articolo, chiedo scusa.
Mi sono sbagliato ma non si capiva.
È molto bello che un pilastro dell’alpinismo italiano (e non solo) come Ugo Manera, si emozioni per un racconto di un giovane come Della Bordella. Evidentemente ne comprende il valore e lo spessore, come è giusto che sia. Anch’io mi sono emozionato pensando ai fiordi cileni del Pacifico umidi e tetri con sopra le montagne traboccanti di ghiacciai e pareti remote e impensabili da raggiungere. Eppure succede…
Degli scritti di montagna i racconti delle avventure vissute sono senza dubbio quelli che mi piacciono di più e che leggo più volentieri e Matteo è molto bravo nel raccontare le proprie avventure e a condividerle con chi le legge. Nei suoi racconti non c’è retorica, falsa modestia o auto celebrazione. A chi non lo ha ancora letto, consiglio la lettura del suo bel libro: La Via Meno Battuta.
Ho seguito con passione tutte le spedizioni di Matteo! Ma dopo il commento di Marcello, un omaggio al breve documentario “Il Cerro Torre secondo me”
https://youtu.be/kBqpaK7uQ_Y
Dal mio punto di vista, il gioiello di Matteo, tra le sue innumerevoli salite.
Molto bello ed emozionante perché sono posti straordinari che conosco molto bene per avervi pagaiato anch’io diverse volte. È curiosa la foto di Matteo in vetta perché in cielo c’è la scia dell’aereo che percorre giornalmente la rotta Puerto Montt-Punta Arenas ovvero, quando sei li, l’unico segno di altri esseri umani che si incintra, anche se molto lontani.
Ricordo anche i segni delle inondazioni nei fiordi Penguin, Falcon (se non sbaglio quello del Riso Patron) e Trinidad, dovuti ai cedimenti improvvisi delle dighe di ghiaccio che creano anche grandi laghi con il loro avanzare imprevedibile. Ne parla anche De Agostini nel suo storico libro Ande Patagoniche. Pare che il motivo dell’avanzamento dei ghiacci sia dovuto al riscaldamento del sottosuolo a causa del vicinissimo (ca.25 km) Volcán Lautaro. Infatti ricordo con stupore l’incontro con laghi azzurri in mezzo ai ghiacciai con temperature molto basse poco più a settentrione del Riso Patron. Posti affascinanti perché molto isolati e ricchi di misteri.
Complimenti!