Metadiario – 209 – Chi mi porterà a vedere i cervi? (AG 1997-002)
Il lavoro con Angelo dietro alla guida della Mesolcina-Spluga stava diventando sempre più ossessivo: non solo ci prendeva in termini di tempo ore e ore al computer, soprattutto serali, ma perfino ci costringeva a risolvere alcune questioni geografico-esplorative che nessuno sano di mente avrebbe mai considerato ma che invece per noi erano essenziali.
Il 16 marzo 1997 fu la volta della Valle Meriggiana. Il Monte Berlinghera 1930 m è un poderoso e complesso bastione, l’estrema propaggine orientale della Catena dei Muncech. Si alza a est-sud-est della Bocchetta Chiaro e domina da ovest la piana di Novate Mezzola e il suo lago. E’ una montagna panoramica dagli aspetti estremamente contrastanti, dolce, pascoliva e boschiva a meridione, aspra e boschiva a nord-ovest, orridamente dantesca a nord-est. Quest’ultimo versante è squartato da una profondissima e lunga spaccatura, la Valle Meriggiana, che con direzione nord-nord-est separa il corpo del Monte Berlinghera dalla contigua Cima delle Dune. La cresta nord-nord-est del Monte Berlinghera, che costituisce la sinistra idrografica della Valle Meriggiana, è una continua serie di risalti rocciosi digradanti a balze che verso est precipitano con pareti verticali e caotiche fino al fondo della Val Meriggiana. L’interesse alpinistico è notevole. A parte la via Evoluzione della Specie, altre grandiose pareti difficilmente accessibili aspettano di essere esplorate: purtroppo esposizione, umidità e quota non elevata favoriscono un’eccessiva vegetazione.
L’aspetto davvero ostile della Val Meriggiana faceva pensare che nessuno l’avesse mai risalita e tanto meno scesa.
Quel mattino partimmo con comodo da Milano perché al nostro seguito era anche l’intera famiglia mia. Guadagnata la chiesetta di San Bartolomeo 1204 m, lasciammo lì la Mondeo e, muniti di cestini e generi di conforto, affontammo la boschiva solitudine che ci sovrastava seguendo un po’ una sterrata e un po’ un sentiero, arrivando ai ruderi delle baite dell’Alpe Govone 1425 m, in una bella radura, luogo ideale per un buon picnic. Il pallido sole e l’assenza di neve avrebbero reso la situazione piacevole se i due maschi non avessero avuto il loro programma. Bibi si dimostrò collaborativa e accettò di scendere da sola con le bambine (Elena un po’ camminava e un po’ no, dunque ogni tanto bisognava caricarla sulla schiena…). Giunta alla macchina avrebbe dovuto scendere a Gera Lario e da lì raggiungere Vigazzuolo, sul Piano di Chiavenna. Il telefonino avrebbe dovuto, campi permettendo, aiutarci a tenerci in contatto, soprattutto per definire all’ultimo momento un preciso luogo di appuntamento.
Assistemmo alla partenza della mamma con bambine con un certo timore che qualcosa potesse andare storto. Erano ormai le 15. Appena furono fuori vista partimmo come razzi verso l’Alpe Derschen 1530 m e i suoi numerosi ruderi. Poi, raggiunto il vicino colletto erboso a c. 1545 m, lasciammo a sinistra la traccia per l’Alpe di Pero e scendemmo a nord-est direttamente in un ripido canale affluente del Vallone del Poncio. Senza traccia ne raggiungemmo il fondo, alla confluenza traversammo quest’ultimo e recuperammo una buona traccia che condusse a nord-est e in piano al Colletto 1360,8 m (che battezzammo per l’occasione Colletto dell’Arco di Pietra), a poca distanza dalla Cima delle Dune.
Da lì salimmo brevemente sul costone est del Monte Berlinghera fino a intravvedere il salto verticale che ci separava dal fondo di un vallone secondario della Valle Meriggiana. Erano le 16.30, un orario che di marzo può destare qualche preoccupazione se il programma è di scendere in un oscuro canalone di 1150 m di dislivello, di cui almeno 800 del tutto sconosciuti. Approntammo una prima corda doppia di 25 m, cui seguirono altre due di uguale dimensione. Lasciammo in totale due chiodi e qualche cordino. Proseguimmo per il fondo sassoso, superammo con altra corda doppia (alberello) un salto e oltrepassammo la confluenza con il ramo principale del vallone che sale proprio al colletto 1360,8 m con grotte e strapiombi pronunciati. Proseguimmo lungamente verso il basso, ormai su terreno privo di incognite (a parte un’ultima doppia su alberello). L’ambiente, comunque tetro e di grande suggestione (i rododendri lì crescono fino a c. 600 m!), si faceva sempre più ostile per via dell’incombente oscurità. Però sapevamo di avercela fatta. Il vallone si apre solo all’ultimo, ormai sulla piana boschiva del fiume Mera, nei pressi di Vigazzuolo 214 m. Più o meno erano le 18.30 e provai a chiamare mia moglie, senza riuscirci subito. Cominciava a fare freddo, ormai al buio, quando finalmente arrivò. Si era dovuta fermare per nutrire le piccole, in modo che viaggiassero addormentate.
Anche per farmi un po’ perdonare, il 23 marzo portai la famiglia verso la Ghiacciaia di Moncòdeno. Il gruppetto era numeroso e comprendeva, oltre a noi quattro, Guido Daniele, Giovanni Sicola, Paola Mazzucchi e la figlia Costanza. Il tempo faceva perfino timore da tanto che era minaccioso. Io scalpitavo perché sapevo quanto curiosa e bella fosse quella grotta con le stalattiti di ghiaccio dentro. Al tempo stesso non sapevo esattamente quanto ci mancasse per raggiungerla. Il sentiero, nell’ultima parte, è esposto a nord ed era ancora parzialmente innevato, dunque non propriamente libero da pericoli. Il gruppo mi vedeva avanti qualche minuto mentre, con due bambine sulle spalle, si dibatteva nel tempo avverso e nell’esposizione a possibili scivolate. Giovanni si era fatto carico anche di Petra e la teneva per mano, mentre Paola e Bibi inveivano al mio indirizzo. Perciò, giunti a un quarto d’ora dalla grotta, facemmo dietro-front. Pensavamo che saremmo tornati dopo qualche settimana… E invece passarono anni.
Il 30 marzo tornai in Apuane, finalmente ad arrampicare. Con Guido Daniele e il nuovo amico Carlo Galeotti ci rivolgemmo alla non immediata Penna di Sumbra per salirne il settore sinistro della parete sud per una via da poco aperta, Draghi volanti. Questa via di 300 m era stata percorsa da Stefano Funck e Giorgio Buonaccorsi il 29 gennaio 1989. Sono dieci lunghezze e si comincia subito duro con due tiri di 6b+. Sapevamo che la via non era certo chiodata sportiva, dunque è con grande soddisfazione che riesco a fare queste due prime lunghezze comer si deve. Guido mi segue veloce, mentre Carlo arranca un poco. Tutto sommato però siamo nei tempi giusti. La terza lunghezza presenta un tiro in A0, poi 5a. Altri tre tiri (5c, 6a, 6a) portano ad un tratto più facile e alla nona lunghezza, una serie di due fessure separate da una placca che si traversa a destra. Qui troviamo il passo chiave (6c, che mi viene anche se obbligato a integrare le protezioni) e scopriamo che si è fatto tardi. Ma, per fortuna, la via è finita. Ovviamente arriviamo all’auto al buio pesto, ritenendo di aver fatto la seconda salita di quest’itinerario.
Nella nostra lotta per il completamento delle immagini necessarie ai 30 capitoli del volume VII dei Grandi Spazi delle Alpi era rimasta indietro un’uscita finale, che abbiamo rimandato per tutto l’inverno perché il luogo lo richiedeva. Si trattava di andare a documentare il Brenta centrale, con particolare attenzione al Sentiero delle Bocchette, al Campanile Basso e alla Brenta Alta. L’8 aprile con Marco salii al locale invernale del rifugio Brentei seguendo tutta la Val Brenta. Una fatica mostruosa per via della neve abbondante e fresca, ma soprattutto a causa del peso del nostro equipaggiamento fotografico. Per fortuna l’alba del giorno dopo prometteva benissimo, perciò partimmo molto presto alla volta del rifugio Alimonta, anche lui sprangato nella sua solitudine invernale, per proseguire immediatamente verso la Bocca degli Armi. Finalmente senza più salire ci facemmo strada con cautela lungo il Sentiero delle Bocchette fino ad affacciarci sulla meravigliosa veduta del Campanile Basso e della Brenta Alta.
Aprile 1997. Chiara Baù aveva 22 anni e una grande passione per la montagna e per la vita all’aria aperta. Allora studentessa di Scienze Naturali (laureata poi nel 2001), da sempre ha respirato in casa la voglia di evadere da Milano, correre appena possibile a Sesto Pusteria, nel regno delle Dolomiti: assieme ai genitori fare le vie ferrate. E una volta, con la mamma, ha salito la Cima Piccola di Lavaredo assieme ad una guida. Per lei la montagna non è mai stata irraggiungibile, come per tanti cittadini: semplicemente si divide in facile e difficile. Qualche volta ci si può permettere di valicare le mitiche porte del difficile. Ma in ogni caso raramente aveva messo lo sguardo su altre montagne che non fossero le Dolomiti di Sesto, che rimanevano al centro del suo cuore.
Un giorno, viaggiando in treno verso le Dolomiti, si accorge che dalla pianura padana nei pressi di Bergamo emerge, neppure troppo lontana e assai nitida, una muraglia bianca, del tutto diversa dai profili delle altre montagne. Il sole la colpisce in pieno e la luce ne è quasi respinta, a mo’ di specchio. Chiara ne è incuriosita. Qualche tempo dopo ha modo di documentarsi nella biblioteca del CAI e scopre che quella montagna ha un nome: Presolana.
Le informazioni sono assai scarse oppure si disperdono in una marea di descrizioni geografiche e salite alpinistiche: un labirinto di nomi che nulla le dice. Eppure, ha capito che quella montagna è bella e soprattutto che è a portata di mano. Comincia a pensare che forse sarebbe bello salirla. Bello, sì. Ma quanto difficile? Sarebbe stato alla sua portata? C’erano guide disposte ad accompagnarla? La risposta viene qualche anno dopo. È ancora una volta in treno, verso le amate Dolomiti. Nel suo scompartimento un giovane ha riposto il suo zaino da montagna, fuori del quale spicca una corda da montagna.
Oscar Brambilla, da Milano andava in Friuli e da lì sarebbe partito per fare delle ascensioni. Alcune con i suoi amici, altre con qualche cliente. Una guida giovane, appena diplomata, dall’aspetto piacevole e così diverso dall’iconografia tradizionale. Le guide non si presentano più burbere, l’aria severa, gli occhi rivolti lassù, le corde a tracolla e la piccozza sulla spalla (Emanuele Cassarà). Le guide, specialmente le cittadine, non legate alla valle di nascita, sono oggi assai vagabonde. Oggi su una falesia d’arrampicata, domani sulle Dolomiti, dopodomani in Marocco con il cliente amico con cui aprire nuovi itinerari nelle Gorges du Todra. E un taccuino elettronico sempre a portata di mano, su cui annotare nomi, indirizzi e numeri di telefono.
Ancora la Presolana è visibile dal finestrino, anche se non così bene come la prima volta. Chiara si fa coraggio e chiede ad Oscar se sa come si chiama quella montagna. Lui le risponde, e aggiunge che l’aveva anche salita più volte, perché il suo mestiere è quello di guida alpina. Segue una bella conversazione, che dura fino a Verona, dove Chiara ha la coincidenza per Bolzano.
Chiara chiede alla mamma il permesso di scalare la Presolana, poi un giorno telefona ad Oscar. E così i due si ritrovano al Passo della Presolana: la montagna splende nel sole pomeridiano e Chiara non finisce di raccontare di come poco tempo prima un amico le abbia fatto vedere i cervi di notte. La Valle dell’Ombra sta cambiando fisionomia, la neve è ormai ridotta a pochi brandelli e l’erba non è ancora verde. È freddo, nonostante il sole.
«Non si vedono animali» dice Oscar, «forse le marmotte dormono ancora. Vedrai che domani ti divertirai molto. Vedi quel pilastro lassù, quello che viene giù in basso più di tutti? Quello è lo Spigolo Longo, la nostra via di domani. Sono sicuro che, con quello che hai già fatto, la puoi salire benissimo».
Chiara guarda in alto e, per la prima volta, si ritrova spaventata dalle dimensioni, dalla verticalità di quella montagna. Ma non dice nulla, si sente un po’ sciocca ad aver voluto andare là. Oscar le infonde un notevole senso di fiducia: lei non vorrebbe deluderlo. Anche perché Oscar aveva aggiunto: «Se vedo che non ti trovi bene, dopo un po’ riscendiamo e andiamo a fare qualcosa di più facile».
La notte al bivacco trascorre tranquilla. Fuori il vento fa cigolare qualcosa, Oscar ha acceso la candela e preparato la minestra con il fornello a gas. Le sorsate bollenti vanno giù che è un piacere, pian piano l’ansietà di Chiara si riduce a vago torpore. A malapena si accorge che Oscar ha spento tutto e le ha augurato buona notte.
Il mattino dopo è radioso. Dopo le prime bracciate, ancora in ombra, lo spigolo si dimostra assai amico. Oscar le aveva spiegato come dare la corda e fare sicurezza. Lei cerca di svolgere giudiziosamente il suo compito, ma ogni tanto la corda s’impiglia. Oscar, con pazienza, le urla da sopra di dargli più corda. Sul primo tiro difficile si trova ad immergere le mani in buchi che dal basso non si vedevano, un’arrampicata così diversa dalle Lavaredo… Arrivata alla sosta, Oscar le dice «brava». Non le dà fastidio il vuoto, che ormai è notevole, sotto di lei. Ormai non ha più paura, sente di farcela. Mentre con lo sguardo segue le evoluzioni di Oscar che tranquillamente sale canticchiando una canzone in spagnolo, lei pensa ancora ai cervi e si sente presa da quello stesso genere di emozione che tanto l’aveva colpita quella notte. Ora è piena mattina, la pianura è stesa subito al di là di alcune montagne più basse: le sembra di sentire il treno che sfreccia verso le Dolomiti, ma è solo il vento. Quando riprende ad arrampicare il mondo si è ridotto a pochi metri quadri di roccia bianca e bucata e in quello spazio circoscritto lei sente di vivere una cosa così bella da stringerle la gola. In vetta dà uno sguardo al versante settentrionale, ancora così innevato, vede quello che Oscar chiama l’Adamello. Lei gli dà la mano e gli dice «Bergheil!», perché così dicono le guide sudtirolesi in vetta. Il «grazie!» che i due si scambiano vuole dire, da parte di lei «grazie di avermi portato quassù a vedere i cervi, di aver avuto pazienza e di aver creduto che io ne fossi capace» e da parte di lui «grazie di avermi scelto, sono proprio contento di averti come cliente».
La discesa desta qualche preoccupazione, c’è ancora parecchia neve nel Canale Bendotti. Ma Chiara se la cava benissimo e in breve i due arrivano alle ghiaie. Oscar è dispiaciuto che in tutta la valle non si sia ancora visto un animale, ma alla fine scorge un ermellino che scappa a salti. Chiara fa in tempo a vedere la coda che sparisce dietro ad un masso.
Al bivacco ci sono il papà e la mamma di Chiara, saliti con i binocoli per seguire l’indomani un’altra arrampicata della figlia. Forse più difficile?
Questo racconto è un misto di molta fantasia e di realtà. Chiara in seguito ha sostituito ai cervi l’osservazione e lo studio degli orsi. Questo racconto purtroppo oggi si appoggia solo sul ricordo e sulla tragica realtà della scomparsa di Oscar.
Nella realtà, era l’11 aprile 1997 quando Oscar, Chiara, Roberto Corsi ed io salimmo lo Spigolo Longo alla Presolana Centrale. Dopo una notte al bivacco, la mattina dopo salimmo (con Matteo Pellegrini che aveva sostituito Roberto) la multipitch Emmental Strasse, sempre alla Presolana Centrale. Il 13, ancora noi quattro, salimmo sulla Presolana del Prato la via dei Refrattari.
Il tuo raccontomi e piaciuto molto chiara ,lo visto solo sra ,e mi ha fatto ricordare gli anni belli ,quando prendevo il treno al posto di andare a scuola e oscar os portava in moltagna ,in val vi mello k bellissima e in quei anni in settimsna eramo soli tra quei paesaggi k tolgono il fiato e l aria buona ,anche ho messo il mio primo e ultimo spit ,fino ora k purtroppo non ho ho continuato a scalare dove mi sono trasferito,sulla cascata di ferro ,per fare una piccola via ,certo oscar osn era ancora guida alpina pero era gia fortissimo,be k dire ancora dopo 30anni ,sempre sara nei miei ricordi
Oscar per me e stato uno dei miei migliori amici sempre andavamoa far casino in giro per milano e mi ha fstto conoscere la montagna ,ci divertivamo un sacco ,poi in giorno mi sono sono trasferito al estero e gli avevo scrityo k tornavo ,ma non lo fatto ,k pirla sono sono stato .ci ritroveremo da angeli ciao spider
oskar era il mio compagno di arrampicata da quando , nelle prime mosse andavamo a scalare a milano nei giardinetti di porta venezia, per un po di anni abbiamo scalato assieme quasi a fare coppia fissa , roccia scialpinismo e cascate 12 mesi all’anno , indimenticabili i viasggi sulla citroen di mia madre a pingere con la neve e sudare in estate….poi io ho perso tempo a laurearmi in scienze naturali mentre lui dava esami per diventare guida….la vias giusta la aveva presa lui anche se io adesso sono ancora vivo a volte lo invidio…ciao Oskar rimani nel mio cuore
BELLO e se vuoi ti porto io
Di Oscar me ne ha parlato molto Pino, dev’essere stato un ragazzo in gamba.
Sono stato amico di Oscar e devo avere conosciuto anche Chiara, presentatami da lui. Un tuffo al cuore.