Cinque domande ad Alessandro Gogna

Cinque domande ad Alessandro Gogna
(luglio 2020)

1) Lei è autore del libro Visione verticale. La grande avventura dell’alpinismo edito da Laterza. Innanzitutto: cosa spinge gli amanti dell’alpinismo a esporsi ad avventure che mettono a rischio la propria vita, alle difficoltà e alla brutalità della natura?
Gli amanti dell’alpinismo appartengono a quella categoria di individui, molto più vasta di quanto possa sembrare, che posseggono un fuoco interiore che li spinge ad una qualche ricerca. Quelli che non si accontentano mai di un risultato perché è sempre proprio il risultato stesso ad alimentare il loro fuoco. Tra costoro possiamo mettere i geni, gli scienziati, gli artisti, gli eremiti, i santi e tante altre categorie: tutte persone che spendono la loro vita per un obiettivo che si sono scelti o, meglio, per una serie di obiettivi. La continua ricerca che esercitano, anche alle ore più impensate del giorno e della notte, non è mai vissuta come un dovere (qualcosa che ci è stato imposto e che riteniamo giusto), e neppure come piacere (qualcosa che ci rasserena, che ci fa provare amore gioioso). Piuttosto è vissuta come fosse semplicemente la loro essenza, tradire la quale è davvero impossibile. Una ricerca che dà un gradito piacere e che però lo relega a motivazione assai secondaria. Una ricerca che va ben oltre il proprio appagamento personale e che in definitiva ingloba e supera qualunque ambizione del proprio Io.

E’ ovvio che una descrizione siffatta di quel genere di individui non può adattarsi proprio a tutti loro senza qualche riserva e/o compromesso. Esistono differenti graduazioni di passione e di dedizione.

Gli alpinisti, assieme ai praticanti di altre discipline, hanno però dentro qualcosa di ancor più particolare, quella spinta “folle” a esporsi ad avventure rischiose, faticose, a volte brutali (anch’esse divisibili in diversi gradi di “follia”).

L’Illuminismo (tempo in cui nacque l’alpinismo) della seconda metà del XVIII secolo è esploso nel momento in cui molti uomini hanno seguito la strada già individuata dai pochi geni dei secoli precedenti, quando cioè si è riconosciuta la nostra ignoranza. La Chiesa e il MedioEvo sostenevano che l’uomo non era ignorante: sapeva (tramite Vecchio e Nuovo Testamento) tutto ciò che Dio aveva permesso all’uomo di sapere. Perché cercare? Dio bastava e nella Sua provvidenza era da accettare la rinuncia alla nostra sete di conoscenza. Ma venne il momento in cui questa sete si fece insopportabile e la Scienza nacque con il progetto di ridurre la nostra ignoranza. L’Uomo non era più unito al Mondo grazie alla Creazione, anzi ne era ampiamente diviso. Il fossato che li divideva era lì, evidente. Non era altro che l’ignoranza di ciò che era al di là del fossato o del nostro orizzonte. In seguito all’avvenuta divisione tra Uomo e Natura, e in seguito alle prime ricerche scientifiche, ecco che nasce nell’uomo la consapevolezza che questa divisione è faticosa, dolorosa. In fondo si stava meglio prima, nell’illusione che non ci fosse nulla di importante da sapere. Il pensiero romantico voleva e vuole la riunione nell’Uno. Per il Romanticismo Uomo e Natura devono ritornare ad essere la stessa cosa, ma è difficile farlo nella continua distinzione tra soggetto e oggetto che caratterizza la nostra civiltà. Nasce spontanea l’ansia della conquista, nell’illusione che il riappropriarci della natura, quindi “averla”, possa sostituire l’esigenza di “esserla”.

Salire sulla vetta di una montagna è un simbolico tentativo di riappropriarci della nostra Unità, del nostro Sé. E’ palese che sia destinato a fallire, almeno fino a che si sentirà necessario ripetere l’esperienza, peggio ancora se più difficile o più pericolosa.

Questo è il Gioco dell’alpinismo (e anche di altre discipline avventurose). Un gioco magnifico che Lionel Terray definì come “conquista dell’inutile”. Eppure c’è chi è vissuto non tanto per amore della vita quanto per guadagnarsi il diritto (con imprese sempre più ardite) di giocare ancora altre partite a questo gioco, dove chi è riuscito a vincere non lo ha detto a nessuno e chi ha perso è morto.

2) Quando nasce l’alpinismo?
Possiamo situare l’inizio dell’alpinismo con la conquista del Monte Bianco (1786), subito prima della Rivoluzione Francese. L’esigenza scientifica di scoprire cosa poteva esserci a quelle quote irraggiungibili è sulla strada delle grandi esplorazioni di Marco Polo, Colombo o Magellano: ma se costoro avevano ben chiara l’utilità della loro ricerca (nuove terre, nuovo potere, nuove ricchezze), Michel Paccard non pensava certo a quei miraggi salendo gli interminabili pendii nevosi e glaciali che lo condussero in vetta al Tetto d’Europa. L’importanza dell’inutilità stava facendo prepotente capolino negli uomini predisposti, la cui sensibilità era ampiamente condizionata dalla divisione Uomo-Natura. Separazione che di certo non viveva il compagno di Paccard, il cacciatore di camosci Jacques Balmat: costui, preso dalle necessità quotidiane e immerso nell’innata connessione tra montanaro e montagna, era più attirato dall’utilità della ricompensa che ne avrebbe ricevuto.

Chi sa un po’ di storia dell’alpinismo sa anche che barometri, termometri e anemometri figurarono ancora per alcuni decenni nell’equipaggiamento delle prime esplorazioni alpine, per essere poi definitivamente abbandonati all’inizio della seconda metà del secolo XIX, quando non solo le vette e le pareti venivano salite con il solo scopo di “vincerle” ma pure si cominciava a rinunciare all’aiuto della figura del montanaro come guida: come se fosse diventato ancora più chiaro che conquista e riunione erano una questione di “cittadini” culturalmente segnati dalla divisione illuministica.

3) Quali rivoluzioni nelle tecniche, negli strumenti e nella sua stessa etica hanno attraversato l’alpinismo?
Non essendo equiparabile al gioco degli scacchi, le cui regole sono fisse e immutabili, il gioco-alpinismo ha visto grandi rivoluzioni. Sono proprio questi cambiamenti l’oggetto dei primi capitoli del mio libro. Se uno guarda l’evoluzione che ha avuto l’originario alpenstock (il bastone buono per ogni terreno, anche quello nevoso) a piccozza da ghiacciaio, poi a piccozza da parete glaciale, quindi ancora ad attrezzo per cascate di ghiaccio e dry-tooling, ha una vaga idea dell’enorme distanza percorsa. E questo è vero anche per tutto il resto dell’attrezzatura. Se indaghiamo sulla storia delle tecniche, partiamo dalla loro assoluta assenza dei primi tempi e arriviamo ai sofisticati manuali di tecnica di progressione e assicurazione sui diversi terreni montagnosi. E ogni anno vengono concepiti, disegnati e realizzati nuovi attrezzi, nuove astute proposte per rendere un po’ più sicuro ciò che ci siamo messi in testa di fare. Oggi si fa grande distinzione tra attrezzatura invasiva e attrezzatura soft. La tendenza, nell’élite dell’alpinismo, è attualmente quella di rinunciare all’attrezzatura, non averla con sé per preservare margine d’avventura: a meno che non si parli di conquiste ancora da fare, dove vale tutto. Non credo che il K2 d’inverno, meta di questi anni, possa permettere alcuna rinuncia. Se ci sono corde fisse in loco, le si usano; se ci fosse un efficiente apparecchio che riscalda mani e piedi, non si esiterebbe a fruirne. Ma sulle mete già raggiunte in passato, la tendenza è di ripetere quelle esperienze usando mezzi più limitati. Lo stesso discorso si applica, a maggior ragione, alle tecnologie. Se il Nanga Parbat d’inverno è stato salito con l’uso della tecnologia satellitare più spinta, giorno verrà che qualcuno vi andrà in cima rinunciandovi.

In questa logica si pone il free solo, quel modo di salire una parete slegati, privi di assicurazione e in libera. La rinuncia a quasi tutto, perché rimangono scarpette d’arrampicata e sacchetto della magnesite.

Non bisogna però dimenticare che l’evoluzione dell’alpinismo è passata anche attraverso i periodi storici: guerre, cortina di ferro, Sessantotto, competizione sportiva, con o senza guida, uso di portatori locali o stile alpino si mescolano alla differenza di classi sociali, all’apartheid, al nazionalismo e al socialismo. Anche lo sdoganamento che le prossime Olimpiadi riserveranno all’arrampicata sportiva riguarderà l’alpinismo in modo profondo: gli effetti di quelle gare potremo valutarli solo tra qualche anno.

Ulisse

4) In che modo i grandi campioni dell’alpinismo, da Preuss a Bonatti, da Messner a Honnold, sono stati e sono portatori di una prospettiva che ha influenzato e condizionato migliaia di appassionati?
Tutti i grandi campioni sportivi hanno influenzato il mondo degli appassionati: e a maggior ragione in alpinismo, dove i campioni sono tendenzialmente considerati eroi, soprattutto da coloro che non praticano la montagna se non per i sentieri e i boschi. In Italia, negli anni Cinquanta, avevamo grande bisogno di qualcuno che ci tirasse fuori da quella sacca di disonore in cui ci sentivamo prigionieri dopo la guerra civile, prima che il boom economico degli anni Sessanta ce la facesse dimenticare un poco. Bonatti e Maestri erano perfetti per questa necessità. Idolatrati, ma anche aggrediti, amati, odiati. Messner ha in seguito totalizzato il Personaggio, la giusta unione di latinità e teutonicità, creativo e realizzatore. Il culmine si ebbe nel 1986 quando terminò la sua personale conquista dei quattordici Ottomila. Da allora molto è cambiato, l’attenzione della stampa e dei media non è più quella: forse si è raggiunta una soglia oltre la quale c’è solo il rigetto. O forse, come nel caso di Renato Casarotto, l’alpinista compie cose che sono talmente oltre il suo tempo da non essere comprese neppure dai suoi colleghi. Oggi c’è più solo il Piolet d’Or che ci indica ogni anno quante meravigliose imprese i ragazzi più giovani hanno compiuto, con quale libertà di espressione, di etica, di creatività. Questi non vanno in televisione, dove invece appaiono i soliti tre o quattro nomi. E’ giusto? E’ sbagliato? Non sembra che a loro importi più di tanto, e questo fa ben sperare sull’avvenire dell’alpinismo.

Milarepa

5) Quale lezione su noi stessi ci offre l’alpinismo?
Successi, insuccessi e consapevolezza dell’inutilità di quanto stiamo facendo sono alla base della vera esperienza alpinistica, mediatizzata o meno. Più un bravo alpinista colleziona imprese (riuscite o meno, l’importante è che siano tentate), più allontana da se stesso la possibilità di raggiungere il suo scopo inconscio, quello di riunirsi alla natura della montagna. Più vette raggiungiamo e più cocente è l’insoddisfazione che ne deriva e che ci spinge a osare ancora di più un’altra volta, a volte già mentre stiamo ancora scendendo al piano. Più si alza il livello del gioco però, oltre a una certa soglia che varia da individuo a individuo, più nasce speranza di un’improvvisa illuminazione, quasi come quella dei santoni tibetani tipo Milarepa. Purtroppo c’è anche un altro modo di terminare il gioco, quello di riunirsi alla montagna passando attraverso la morte, vista inconsciamente come la più valida scorciatoia a un cammino che appariva insostenibilmente infinito. Anche se nessuno coscientemente prende questa possibilità in considerazione, non possiamo ignorarla. E’ la partita più difficile, quella del rimanere in vita, quella dell’imparare a far scivolare il tuo soffio vitale sul tuo piano inclinato lungo una traiettoria che sia diversa da prima ma che in qualche modo comprenda quella precedente.

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Cinque domande ad Alessandro Gogna ultima modifica: 2020-09-28T05:06:38+02:00 da GognaBlog

12 pensieri su “Cinque domande ad Alessandro Gogna”

  1. 12
    Roberto Serafin says:

    Una piccola, molto marginale osservazione che di sicuro non c’entra niente con quanto qui viene dibattuto. Riguarda l’immutabilità delle regole nel gioco degli scacchi. E’ vero fino a un certo punto che, come asserisce l’amico Alessandro, queste regole non cambiano. Il computer, qualsiasi computer, consente oggi curiose varianti. Per esempio, vince chi per primo perde il re. Oppure per battere l’avversario è concesso rimettere in gioco i pezzi catturati…Ovviamente tutto ciò non è concesso, e per fortuna diranno i puristi, con una scacchiera tradizionale.

  2. 11
    Alberto Benassi says:

    Penso anch’io di essere passato da questo tunnel.

    Emanuale non credo tu sia il solo . Le vie sono come le ciliege, una tira l’altra.  Andando a riempire quei vuoti della vita di tutti i giorni, vedendo la propria realizzazione e/o resurrezione nell’inseguire una salita dietro altra.

  3. 10
    emanuele menegardi says:

    Non ho trovato nel libro una analisi delle situazioni, che sono state anche frequenti nel passato, in cui l’alpinismo diviene una malattia, una “possessione” e come ben argomentato da Robert Macfarlane in “Le montagne della mente” assomiglia ad una “irresistibile ossessione” che spesso risulta fatale. Molti alpinisti dopo grandi imprese hanno abdicato alla razionalità e, rischiando perché per loro ormai era una scelta “obbligata”, hanno perso la vita, non sono stati in grado di rinunciare nonostante avessero dei legami affettivi significativi; non erano più liberi di scegliere perché ” il fuoco” della passione portava ad un comportamento compulsivo. Non sono gli uomini a conquistare le montagne, ma le montagne a conquistare la mente dell’uomo. Penso anch’io di essere passato da questo tunnel.

  4. 9
    Carlo Crovella says:

    Allora se questo argomento non è considerato così fuori tema, aggiungo che, nel mio piccolo, proprio di recente ho aggiunto un mattoncino alla letteratura sul “compulsory climbing” (parte bassa dell’articolo segnalato). Sono riflessioni che hanno a che fare con l’approccio alla montagna, “terapeutico” o stressante,  in termini individuali. Non aggiungere nevrosi a nevrosi, perché diventa una droga, ma riuscire a scaricare lo stress della settimana nel contatto con la natura. Questo dovrebbe essere l’obiettivo prioritario. All’interno di questa impostazione, ognuno troverà i suoi equilibri di impegno/relax durante l’attività in montagna: variano notevolmente da individuo a individuo. Ma l’importante è focalizzare il quadro generale.
     
    https://altrispazi.sherpa-gate.com/altrilibri/saggi-racconti/squali-di-mare-e-di-montagna/

  5. 8
    Roberto Pasini says:

    Montagna/terapia non e’ così fuori tema. Ne parla Gogna nell’ultima risposta a proposito della cura/scoperta di se’ attraverso il ritorno/contatto con la natura montana e con il rischio della morte. Sul “compulsory running” esiste un’ampia letteratura. Meno sul “compulsory climbing”. C’è un tema interessante sollevato da Crovella. Gli eroi sono sempre tali rispetto ad un gruppo, un ambiente, una cultura di riferimento. Quindi bisognerebbe scrivere una storia dei gruppi sociali che hanno caratterizzato l’evoluzione dell’alpinismo. In realtà , come accade per la Storia con la S maiuscola, la storiografia “commerciale” si concentra sulla biografia dei singoli eroi, mettendo l’ambiente sullo sfondo. Non c’è dubbio che questo coinvolge maggiormente il grande pubblico. Esistono esempi di storiografia “sociale” della montagna ma hanno spesso una caratterizzazione più accademica e francamente attirano meno e sono più noiosi, perché c’è meno dramma.  Esiste poi un terzo filone storiografico che ricorda certa storiografia francese: la storia degli elementi “materiali” dell’andare in montagna: gli attrezzi, le tecniche, gli ambienti costruiti. Personalmente a me piace molto, ma è un po’ confinato dentro qualche articolo di rivista ( ad esempio ogni tanto appare qualche storia minore di questo tipo su Meridiani Montagne) ma è un po’ un prodotto di nicchia, per amatori, magari un po’ ossessivi e minuziosi ( lo confesso  senza problemi). 

  6. 7
    Carlo Crovella says:

    L’argomento della montagna-terapia è interessante, anche se fuori tema rispetto all’articolo, ma lo scambio (inteso come scambio ferroviario) consegue al commento 1.
    Per quanto riguarda situazioni di oggettivo “malessere” bio-psico-sanitario, segnalo questa esperienza relazionata sul sito del CAI Torino:
    https://www.caitorino.it/montievalli/2019/09/24/unesperienza-di-condivisione/
    Non sarà certamente l’unica esperienza in assoluto, mi pare che anche a livello nazionale si organizzi qualcosa, ma questo scritto dà un’informativa interessante, perché esposta in modo semplice ed efficace.
     
    Per quanto riguarda situazioni di “semplici” nevrosi in persone cosiddette “normali”, non si può ovviamente generalizzare. Ci sono individui che “scaricano” positivamente il loro stress attraverso l’attività sportiva (non solo connessa alla montagna), a volte compiuta anche in orari notturni, ma a me capita, specie in contesti di città metropolitane (quindi molto competitivi e stressanti sul fronte professionale) di osservare persone che sostituiscono delle nevrosi “sportive” ad altre connesse a situazioni di fastidio oggettivo (lavorativo, familiare, di salute, ecc). Per esempio in città vedo un sacco di conoscenti che hanno la fissa di andare a correre a tutti i costi, magari con l’obiettivo di allenarsi per competizioni agonistiche anche se amatoriali, tipo le varie maratone cittadine ecc. Sto parlando quindi di individuo che non sono collegati alla montagna. Spesso li vedo tornare ansanti in ufficio e magari partecipare a riunioni professionali o addirittura ricevere clienti mentre sono ancora tutti sudati e puzzolenti. La fissa di non perdere un allenamento costi quel che costi in certe situazioni diventa una vera nevrosi, che uno immette nella propria vita per anestetizzare altre nevrosi, per il meccanismo “chiodo schiaccia chiodo”. Ma così non si risolve il problema di fondo (che sia professionale o familiare o chissa’ che altro), semplicemente si sostituisce una nevrosi con un’altra. A volte mi capita di  fare considerazioni analoghe anche guardando certi miei compagni di gita, questo sì, e penso proprio che in molti casi l’inpallinamento della montagna sia un sintomo di criticità individuale: la montagna da contesto terapeutico puo’ trasformarsi addirittura in un ulteriore problema esistenziale. Non è legge, ma capita.

  7. 6
    Roberto Pasini says:

    Per Cominetti. Marcello, non di queste persone si parlava. Tutti abbiamo i nostri meccanismi di compensazione che ci consentono di gestire le difficoltà della vita. Antonel parlava di patologie gravi del comportamento e di terapie farmacologiche. Quindi siamo in un altro ordine di grandezza. Ho un caro amico, appassionato trail runner e grande esperto di resilienza, che ha usato l’andare in montagna coi suoi pazienti, ragazzi con disturbi seri del comportamento, come collaterale al processo terapeutico e ha ottenuto buoni risultati. Nella palestra di arrampicata che frequento io ci sono due giovani istruttori della Fasi, appositamente addestrati dalla Regione, che lavorano con bambini autistici. Li  ho visti lavorare e sono rimasto ammirato per la loro dedizione e competenza. Pare che a qualcosa serva. Siamo sempre nell’ambito dell’integrazione non della sostituzione. Ognuno faccia giustamente il suo mestiere al meglio possibile. In ogni caso, poi, un suggerimento e un’attenzione non è mai assolutamente una condanna. 

  8. 5

    Bisogna mettersi in testa che ci sono persone che raggiungono la serenità (anche familiare) e sono dotate di grande romanticismo, che si chiudono in garage a fare trazioni di notte per avere buone prestazioni in montagna nel tempo che vi dedicano. Non ci vedo nulla di strano, anzi, lo trovo ammirevole in chi riesce a farlo, e non lo condannerei mai.

  9. 4
    Carlo Crovella says:

    Sarà anche che mia moglie si occupa professionalmente di botanica “sistematica”, ma a me piacciono molto le schematizzazioni, un po’ in tutti i settori dell’esistenza. Nel libro di Alessandro, io tendo a vedere/esaltare la (più o meno evidente) propensione all’individuazione dei principali archetipi di approccio alla montagna: è all’interno di tali schemi che si muovono gli individui, che siano “campioni” o semplici e anonimi appassionati di montagna. Anche l’individuazione degli eroi dipende dagli archetipi, cioè essi sono “eroi” in modo più o meno intenso a seconda che chi li osserva appartenga a questo o a quell’altro “schieramento”. Faccio un salto nel mondo del calcio per ricordare che, salvo rarissime eccezioni, è il tifo per questa o quell’altra squadra che costituisce la variabile chiave per idealizzare o meno un giocatore o l’altro. I tifosi juventini, a cominciare dal sottoscritto (in realtà sono un tifoso molto moderato, mai stato allo stadio a vedere la Juve, anche se la seguo ininterrottamente dal campionato ’71-72…), non hanno mai esaltato la genialità calcistica di Maradona, solo l’Avvocato si lasciò scappare un rapidissimo apprezzamento pubblico. Viceversa i nostri eroi sono stati Platini, Tardelli, Scirea oppure, in altre fasi, Del Piero e Baggio, oggi Ronaldo. E’ la “maglia” che domina, come sempre nella vita. Sono abbastanza convinto che sia così anche nella valutazione degli alpinisti di punta da parte del grande pubblico che li osserva. Ho trovato molto interessante, quindi, l’approccio analitico sviluppato da Gogna.

  10. 3
    Roberto Pasini says:

    Per Antonel. Certamente qualcuno con seri problemi personali cerca nell’alpinismo (come nella corsa o in altre attività) una soluzione o almeno un alleviamento delle sue sofferenze. È umano e compensibile, ma è una illusione che può funzionare solo temporaneamente. L’andare in montagna o altro può affiancare positivamente una terapia adeguata, ma non è una terapia. Il rischio è quello di sostituire una dipendenza ad un’altra. Il vero problema per queste persone è uscire dalla dipendenza, ma questo purtroppo richiede spesso un percorso interiore che non consente scorciatoie. 
    Il mondo dei montagnardi è molto variegato. E’ arduo ridurre il tutto a uno. Trovo che il primo merito del libro di Gogna sia proprio rendere ragione di questa diversità che è storica ma anche contemporanea. Infatti secondo me il tilolo giusto sarebbe “Visioni Verticali” . Vengono infatti descritti con accuratezza i modelli mentali e motivazionali che hanno spinto gli uomini negli ultimi due secoli a praticare questa attività e che ritroviamo vivi ancora oggi nei diversi segmenti del popolo della montagna. Un approfondimento per una prossima edizione potrebbe proprio essere un’analisi delle “visioni” verticali diverse che sono vive oggi nella contemporaneita’. Compresa una visione verticale al femminile, se esiste. Un secondo aspetto interessante del libro si collega ad alcune discussioni che abbiamo sviluppato qui sul blog a proposito di alcuni”  eroi”della montagna. Attraverso la storia di una serie di figure significative della storia dell’alpinismo emergono con chiarezza gli elementi che caratterizzano questi eroi e su cui si sono basate le narrazioni che li hanno “creati”. Una ”galleria” che ci porta di nuovo a riflettere sulla diversità di tipi umani che ritroviamo protagonisti dell’andare per monti.

  11. 2
    Carlo Crovella says:

    Condivido l’acuta conclusione di Antonel, con una precisazione aggiuntiva, almeno dal mio punto di vista. Il valore “terapeutico” della montagna deriva in modo prioritario dalla capacità individuale di sapersi muovere ad una particolare livello di impegno, che varia da persona a persona, livello al quale si attivano i meccanismi psico-fisici di scarico degli stress, ma senza creare ulteriori psicosi aggiuntive. Intendo dire che, se per realizzare una “particolare” uscita domenicale, occorre allenarsi cocciutamente (magari chiudendosi di notte in un garage a fare trazioni), togliere spazio alla serenità della vita normale, mettersi a rischio durante l’uscita stessa ecc ecc ecc, gli obiettivi “prestazionali” (tecnici e/o atletici) diventano ulteriori elementi di psicosi e si aggiungono alle psicosi quotidiane (anziché guarire, si raddoppia). E’ il grande problema attuale del modello “Non Limits”, perché la società nel suo complesso spinge verso attività svolte con approccio “prestazionale”, in qualsiasi campo, non solo sportivo, anzi (dal lavoro alla guida automobilistica al sesso, ecc eec ecc). Tornando alla montagna in senso stretto, se ogni singolo individuo arriva a comprendere, con maturità e intelligenza, qual è il livello di impegno “giusto” per lui e “lì” si muove sul terreno, allora la montagna risulta davvero un’efficace fonte di serenità e relax e, in quanto tale, placa lo stress della settimana. Altrimenti è un’ulteriore fonte di disequilibrio esistenziale e psicologico. Ciao!

  12. 1
    Roberto Antonel says:

    c’è anche un’altra categoria di individui,non menzionata da Gogna,che appare utile inserire nel novero dei moderni alpinisti.Si tratta di una categoria ignorata nel passato o forse vagamente intuita da Freud,Jung o Lacan cioè dai principali  psicanalisti del secolo scorso.E’ la categoria,numericamente insignificante,dei nevrotici, degli psicopatici o più semplicemente di coloro che hanno problemi di ansia ed hanno sperimentato inutilmente i farmaci benzodiazepinici (come lo xanax-alprazolam).E’ provato ed è comunque consigliato da una consistente schiera di psicologi che arrampicare una parete verticale o comunque sperimentare la ricerca dell’equilibrio fisico in condizioni di pericolo, è una specie di training autogeno che stimola i neuroni cerebrali ad acquistare quella lucidità e quell’autocontrollo che nella vita quotidiana sembravano persi. Insomma la montagna,intesa come esperienza di self-control e di messa alla prova della forza caratteriale, può validamente sostituire (anche per sempre) le terapie farmacologiche a base di benzodiazepine.In una società dominata dalla nevrosi di massa, dall’agonismo spietato e distruttivo, dall’invidia sociale, dall’emulazione ad ogni costo, dall’indifferenza  egoistica verso tutto e verso tutti, dal male oscuro che può condurre alla follia ed al suicidio la montagna, intesa come banco di prova per forgiare il proprio carattere e dominare l’ansia psicotica,appare come rimedio assolutamente efficace e preferibile alle attuali cure psichiatriche volte a contenere o sedare l’individuo con i farmaci senza risolvere i problemi di fondo e senza restituirgli quell’autostima indispensabile per vivere.

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