Clima, armi e migranti
di Mario Agostinelli
(pubblicato su L’aria che tira sul pianeta, Mario Agostinelli, novembre 2018, pagina 24)
Spessore 4, Impegno 2, Disimpegno 2
Con la scoperta dei mutamenti climatici indotti dall’attività umana, già resa manifesta a Rio nel 1992, la situazione è profondamente cambiata rispetto alle ipotesi di una lenta e irreversibile morte termica del Pianeta che aveva messo alla prova la fisica dell’Ottocento quando fu posta di fronte alla scoperta del principio di entropia. La marcia accelerata del disordine naturale si rende ormai visibile ai nostri occhi nell’arco di una vita, come mostrano in particolare i ghiacciai alpini in ritirata o l’alternarsi di periodi insolitamente siccitosi a intensi fenomeni piovosi nelle zone temperate.
A poco vale confrontare cifre e danni, anche se provo a elencare solo i più recenti. Gli incendi in Grecia, Svezia, California, Portogallo non hanno precedenti per violenza; nella tundra siberiana sotto lo strato di fusione del ghiaccio è stata riscontrata la presenza dell’antrace; si è staccato il ghiacciaio del Wetterhorn nelle Alpi svizzere con uno schianto di secondi; in Colombia una valanga di acqua e fango ha seppellito cinque villaggi; in Italia le piogge di inizio novembre 2018 hanno causato oltre 15 morti e devastato coste e sedimenti secolari di foreste e pascoli; tra il 1992 e il primo semestre del 2018 l’Antartide ha perso circa 3.800 miliardi di tonnellate di ghiaccio, portando a un aumento medio del livello dei mari di 8 millimetri. Il gigante delle assicurazioni Swiss Re (compagnia che vende polizze di assicurazione ad altre compagnie assumendosi una parte dei loro rischi) ha reso noto a settembre 2017 un suo rapporto che fa la graduatoria globale delle città minacciate da disastri naturali e climatici.
La classifica globale, che tiene conto della popolazione potenzialmente colpita espressa in milioni di persone è la seguente: Tokyo-Yokohama (Giappone) 57,1; Manila (Filippine) 34,6; Delta del Fiume delle Perle (Cina) 34,5; Osaka-Kobe (Giappone) 32,1; Giakarta Indonesia) 27,7; Nagoya (Giappone) 22,9; Calcutta (India) 17,9; Shanghai (Cina) 16,7; Teheran (Iran) 15,6. La maggior parte delle aree sensibili ai vari tipi di catastrofe si trova in Asia (eccezion fatta per Los Angeles), il che non sorprende, a causa delle più alte densità abitative di tutte queste metropoli. La collocazione prevalente della popolazione vulnerabile è vicina al mare, in particolare dell’Oceano Indiano e delle due coste dell’Oceano Pacifico.
L’evoluzione dell’economia mondiale negli ultimi decenni di neo-liberismo e fondamentalismo di mercato, con la crescita delle rendite e della concentrazione di reddito e ricchezza nelle mani di una percentuale sempre più ristretta della popolazione, è giunta ad avallare l’evoluzione dell’economia mondiale contemporanea come l’unica praticabile e a negare soluzioni ai problemi emergenti dovuti alle inadempienze e alle lacerazioni strutturali determinate dal sistema.
Nel caso del peggioramento del clima, anziché risalirne alle cause, se ne sono amplificati gli effetti riscontrabili non solo nella minore produttività dell’ambiente naturale, ma, secondo la versione che va per la maggiore, nella comparsa irrefrenabile di ondate di migranti provenienti “dal nulla” sui suoli fino ad ora più protetti e meno corrotti dalle calamità (hic sunt leones classificavano gli atlanti degli antichi le future terre di conquista e di deportazione).
Anche l’Italia si è intruppata nelle guerre ai migranti: anzi, ne ha preso il comando in alcune zone fuori dal confine da cui essi dovrebbero intraprendere cammini o imbarcarsi su gommoni che condurranno alla morte una persona ogni cinque. In una ricerca, Antonio Mazzeo, da cui traggo spunto (Migranti e migrazioni. Decodificare il presente per educare alla cittadinanza, promosso dal CESP, il Centro Studi per la Scuola Pubblica – Pescara, 8 novembre 2018), ricostruisce autentiche infrazioni all’art.11 della Costituzione, anch’esse vittime e frutto del negazionismo e della presunta invasione da debellare, passate all’ombra del Parlamento ormai svuotato di funzioni. Il ridimensionamento della presenza militare in Iraq e Afghanistan ha dato luogo a sei nuove operazioni, cinque nel continente africano e una in ambito NATO per la sorveglianza dello spazio aereo alleato. È quanto previsto dal decreto di finanziamento delle missioni internazionali delle forze armate predisposto dal governo Gentiloni-Minniti-Pinotti per il periodo compreso tra l’1 gennaio e il 30 settembre 2018, poi prorogate senza modifiche dall’esecutivo Conte-Salvini-Di Maio sino alla fine dell’anno. Per gli impegni del tricolore in terra africana è prevista una spesa di oltre 118 milioni di euro in nove mesi, il 15% dell’ammontare dei costi delle missioni di guerra in mezzo mondo; i 1.234 militari impiegati costituiscono il 19% di tutto il personale della Difesa schierato fuori dai confini nazionali. Nero su bianco, si ripropone la falsa narrazione del binomio terrorismo-migrazioni, mentre per fronteggiare la presunta minaccia rappresentata dai terroristi-migranti si fondono insieme l’intervento militare e gli “aiuti allo sviluppo”, le strategie bellico-sicuritarie e la “cooperazione”. Siamo, sostanzialmente, al rilancio delle avventure coloniali italiane in Africa oggi promosse dal disincentivo dei flussi migratori, oltre che dal controllo e accaparramento di risorse strategiche e fossili.
Il rapporto della Farnesina per giustificare l’intervento in Libia assume che “L’Italia si è fatta portavoce delle richieste libiche di assistenza ottenendo che il Paese beneficiasse, dal 2016 ad oggi, di oltre 160 milioni di euro per interventi di stabilizzazione, emergenza e protezione dei migranti“. Ma quando si va alla verifica, essi si trasformano in vere e proprie deportazioni manu militari dei richiedenti asilo verso le città costiere e i lager-hotspot sparsi in tutto il paese nordafricano.
Nel 2018 il numero dei migranti riportati in Libia è stato superiore a quello dei migranti che sono riusciti ad approdare in Italia. A settembre, il parlamento italiano ha autorizzato la cessione di altre 12 motovedette alla Guardia costiera per “contenere il flusso di immigrati clandestini verso l’Europa e ad assicurare il controllo della zona SAR libica senza l’aiuto delle forze navali straniere“.
Ovviamente continua ad essere il controllo del petrolio e del gas il motivo centrale del rafforzamento della partnership politico-militare tra Italia e Libia. ENI è il principale produttore internazionale di idrocarburi in Libia, dove attualmente produce 280.000 barili di petrolio al giorno
Dai primi mesi del 2019, l’Italia prenderà parte in Tunisia a una nuova missione multinazionale sotto il comando della NATO finalizzata a costituire un comando interforze per la contro-insurrezione e la lotta al terrorismo. Il governo di Tunisi è oggi uno dei più attivi partner NATO della sponda meridionale mediterranea. In Tunisia verrà insediato un centro cui sarà riservata anche la raccolta e analisi delle “informazioni sensibili politiche ed economiche” relative alle “attività d’affari e finanziarie dei maggiori attori economici del paese”. Si bloccano e respingono i migranti ma passano i grandi interessi economici delle multinazionali.
L’interventismo militare italiano in Niger trova giustificazione nell’ottica della guerra globale e contestuale al terrore e all’immigrazione “clandestina”. La ministra della Difesa, Elisabetta Trenta ha dichiarato che “L’obiettivo della missione italiana in Niger (470 militari entro la fine dell’anno, più 130 mezzi terrestri e due aerei) sarà quello di arginare, insieme alle forze nigerine, la tratta di esseri umani e il traffico di migranti che attraversano il Paese, per poi dirigersi verso la Libia e in definitiva imbarcarsi verso le nostre coste“.
Il Niger pare soggetto a una spirale di militarizzazione, sospinta sia dalla presenza sempre più visibile – e sempre più contestata – di forze militari straniere, sia dall’aumento vertiginoso delle spese nazionali per la difesa, aumentate di cinque volte durante la presidenza di Mohamadou Issoufou fino a sfiorare il 12% del budget statale.
Sempre in Africa occidentale vanno segnalate le tre missioni delle forze armate italiane in Mali. Infine, particolarmente rilevanti per il numero del personale impiegato e i relativi costi si fanno notare le missioni delle forze armate italiane in Corno d’Africa.
Qui veniamo all’ultimo, ma forse più inquietante rilievo: per la guerra ai migranti, è operativa nel Mediterraneo la flotta aeronavale varata dal Consiglio Europeo come misura chiave per “individuare, fermare e mettere fuori uso imbarcazioni e mezzi usati o sospettati di essere usati dai trafficanti di esseri umani nel pieno rispetto del diritto internazionale“. L’Italia fornisce il contributo maggiore alla missione con 470 militari, un mezzo navale e due mezzi aerei; il quartier generale è situato all’interno dell’aeroporto militare di Roma Centocelle, mentre l’aeroporto di Sigonella fornisce servizi operativi con lo scopo di “coordinare le operazioni dei droni impiegati e il pattugliamento delle frontiere degli Stati membri e favorire gli accordi per la gestione dei migranti“. A Napoli invece diventa operativo l’Hub Nato per il Sud presentato per un arco di sfide strategiche a 360° sulle emergenze di ogni tipo quali “il terrorismo, la destabilizzazione, la radicalizzazione, le migrazioni, l’inquinamento ambientale e i disastri naturali“. Ecco, ci sono arrivati anche loro!
Così, perfino la lotta alle migrazioni manu militari e la riorganizzazione delle forze armate più moderne lasciano trasparire l’urgenza di occuparsi del tema del deterioramento del clima e delle sue disastrose conseguenze, tra cui si mettono in conto maldestramente anche le migrazioni, i respingimenti e i blocchi sui luoghi d’origine.
Se gli ambienti con le stellette mettono nero su bianco le loro preoccupazioni (oltre atlantico il Pentagono è allarmatissimo per l’innalzamento del mare che lambisce sempre più pericolosamente le sue basi oceaniche in giro per il globo), come possiamo noi non respingere, correggere e riequilibrare, con tutta la tensione sociale e la cura per la natura di cui disponiamo, la terrificante e falsa narrazione dell’invasione dei nostri territori da parte delle orde dei migranti?
Al contrario e senza perdere ulteriore tempo, c’è tutta l’esigenza di un vero e proprio cambio di paradigma, di una rivoluzione culturale che faciliti la riconversione ecologica dell’economia, di modifiche strutturali e di comportamenti individuali e collettivi che facciano imboccare un cammino che riporti il nostro stile di vita nel solco della sostenibilità.
Solo allora potremo costruire la prospettiva concreta di “aiutarli a casa loro” quando i loro e i nostri territori riprodurranno le risorse per vivere, lavorare e per abitare dignitosamente.
Le difficoltà sono enormi, perché, da un lato, i mutamenti globali che una impostazione, in parte inconsapevole, delle relazioni del dare ed avere ha messo in moto, continueranno per inerzia per un tempo lungo – anche decenni, magari ancora sotto le spoglie accattivanti di uno sviluppo da estendere a tutti gli abitanti della Terra. E, dall’altro, perché le vie di uscita differenziate dovranno e potranno essere costruite in dettaglio e direttamente sul campo solo con un saldo netto di ricollocamento di risorse e con una fase di partecipazione attiva dei destinatari. Il problema non è solo quello di convincere intellettuali ed esperti a liberarsi da dogmi e assiomi irrazionali, ma quello di promuovere e costruire una capillare e razionale consapevolezza generalizzata riguardo a ciò che sta accadendo e alla necessità di unire le risorse umane per riprendere le redini di un “post-sviluppo” a vantaggio di tutti.
Una fase che non coinciderà più con una ormai impossibile e irragionevole crescita della produzione materiale. Una prospettiva auspicabile, ma che oggi in Europa è fortemente compromessa dal declino delle forme democratiche e dalla ripresa del razzismo.
Una fase che non coinciderà più con una ormai impossibile e irragionevole crescita della produzione materiale. Una prospettiva auspicabile, ma che oggi in Europa è fortemente compromessa dal declino delle forme democratiche e dalla ripresa del razzismo.
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