Clinton Dent

Nell’estate 1878, dopo diciotto tentativi, l’alpinista anglosassone Dent e la guida vallesana Burgener raggiungono finalmente la vetta dell’Aiguille du Dru. Scriverà il giovane figlio dell’Inghilterra vittoriana: «La verità è che quel giorno avevamo visto ciò che volevamo vedere».

Clinton Dent
(un gentleman sul Grand Dru)
di Paola Mazzarelli
(pubblicato su Alp 71, marzo 1991)

Notte stellata: promessa di bel tempo. La banderuola di ferro battuto che monsieur Couttet ha fissato sul tetto del suo albergo indica condizioni propizie alle escursioni tutti i giorni dell’anno. Perché i clienti abbiano di che rallegrarsi, dice l’albergatore; o, quanto meno, di che sperare. Disteso lungo l’Arve gorgogliante, il paese non dà segno di vita. Sono illuminate solo le finestre al piano terreno dell’albergo di Couttet, dove scendono gli habitués di Chamonix, i viaggiatori distinti, gli alpinisti. Dalla stanza riservata alle guide giunge un tramestio di sacchi svuotati e rifatti, corde buttate sul piancito di legno, piccozze tintinnanti, mezze parole soffocate nel fumo acre di tabacchi scadenti. Qualche minuto più tardi quattro figure si avviano con il passo di chi è avvezzo a andar per montagne sul sentiero che oltre i casolari di Les Mouilles si inerpica nel bosco fitto di conifere. Meno di due ore dopo la comitiva bussa alla porta della locanda di Montenvers che da qualche decennio sostituisce un antico ricovero in pietra fatto costruire quassù alla fine del XVIII secolo da un tale Monsieur Desportes di Ginevra e intitolato, con romantico slancio, A la Nature. La locanda, nota per «una sproporzione tra trattamento e prezzi che non ha l’eguale in nessun altro ostello del genere» è ormai inadeguata alle esigenze del turismo locale, tant’è vero che è già in costruzione lì presso un più ampio e confortevole ” Hotel du Montanvert”.

L’Aiguille du Dru in una rappresentazione di Edward Whymper.

Il gestore, che ogni anno versa un ragguardevole canone di affitto al comune di Chamonix, tiene aperto ventiquattro ore su ventiquattro, e questo spiega il suo perenne ciondolare attorno assonnato. Una bevanda calda «di incerta provenienza» conforta i quattro che si dichiarano avviati a cercare cristalli all’isola rocciosa del Jardin, bel bacino del Talèfre. Alle tre di notte? Non che l’ora debba particolarmente stupire. La gente quassù, in estate, circola a tutte le ore del giorno e della notte: turisti e cacciatori, cercatori di minerali e botanici, paesaggisti e fotografi, alpinisti, escursionisti… Ma chi si avventura sulla Mer de Giace notte tempo, checché racconti in giro, alle prime luci dell’alba si trova di solito ai piedi di qualche canalone inedito, di qualche passo o vetta inespugnati. Giù a Chamonix c’è chi dice che i quattro hanno ben altro per la testa che la raccolta dei cristalli, come vogliono far credere. Del resto, si sa che non c’è guida, per quanto scorbutica e poco loquace, che sappia mantenere un segreto davanti a un paio di bottiglie…

Lasciato Montenvers, la comitiva, anziché risalire la Mer de Glace fin oltre l’Aiguille du Moine, con premeditata decisione devia per il ghiacciaio della Charpoua, a sinistra della costiera che scende dalla Verte. La conduce una guida del Vallese che a Chamonix non ricordano di avere mai visto, un pezzo d’uomo, alquanto rude all’aspetto. La sua figura possente, la parlata tedesca, hanno subito destato sospetti: le guide reclutate dai signori inglesi sono sempre temibili. Un paio d’ore più tardi la comitiva è ferma sul ghiacciaio della Charpoua e scruta i minacciosi pendii circostanti. Uno dei due inglesi, un giovane di forse poco più che vent’anni, magro e elegante, con il piglio di uno che è stato educato al comando, ha tirato fuori di tasca un foglietto spiegazzato con gli appunti presi da due amabili compatrioti, i signori Kennedy e Pendlebury, durante un tentativo di salita al colle che separa l’Aiguille Verte dall’Aiguille du Dru. La discussione tra i quattro si fa accanita. Spunta l’immancabile binocolo, strumento a dire il vero di scarsa utilità in questo frangente, poiché «le guide non sono in grado di usarlo e gli alpinisti dilettanti non sono in grado di capire ciò che le lenti rivelano». Tuttavia, bisogna pur darsi l’aria di esploratori seri, riflette l’inglese.

Clinton Dent

Il risultato di tanto scrutare e confrontare appunti e pareti è sconfortante: «Ognuno prese a indicare una via diversa… Infine, uno osò dar voce al pensiero che da un pezzo assillava tutti: ma qual era, alla fin fine, l’Aguille du Dru?». A destra del colle, oltre un innominato pinnacolo roccioso (il Pic Sans Nom, appunto) la cresta sale verso la Verte. A sinistra si ergono due cime di un certo rilievo, considerate fino a poco tempo fa spalle della Verte. Hanno acquistato dignità di vette autonome il giorno in cui quella montagna è stata scalata per la prima volta. Così è in questi anni: prodigiosi sconvolgimenti trasformano la catena alpina a vista d’occhio. Ovunque spuntano montagne nuove, pinnacoli mai notati da nessuno, passi di cui si ignorava l’esistenza. Uno studioso americano delle Alpi, pignolo e conservatore, scriverà a proposito del periodo del quale stiamo raccontando: «Tutto era diventato più facile per la nuova generazione di alpinisti, la quale tuttavia si rendeva conto che alla sua ansia di novità non restava che scoprire “vie nuove” e pinnacoli “inaccessibili” che ricevevano nome solo dopoché erano stati scalati ». Come a dire che ormai l’alpinismo poco di nuovo poteva ancora promettere. Ma il reverendo Coolidge non era uomo particolarmente aperto alla modernità.

A questa generazione “nuova” appartiene il nostro giovane inglese, il quale si rode nell’intimo perché crede di essere arrivato troppo tardi. «Gli alpinisti della mia generazione — scriverà con rammarico qualche tempo dopo — ce l’hanno messa proprio tutta: ma era troppo tardi». I vari Stephen, Moore, Wills (e chissà perché non cita Whymper) hanno fatto piazza pulita di cime e passi vergini. Che resta ormai da scoprire? «Noi volevamo il nuovo. Ma di nuovo era rimasto ben poco». E questo è uno dei suoi crucci.

Nel gruppo del Bianco, a dire il vero, qualche vetta inviolata era rimasta: l’Aiguille du Charmoz, la Blaitière, il Dente del Gigante, l’Aiguille de Peutérey, l’Aiguille du Dru… Ma sono tutte quasi giudicate inaccessibili anche dalle guide più ardimentose. Forse però potrebbero cedere i Drus… «Non c’era nessun motivo particolare per cui volevamo scalare quella montagna. A furia di vederla da Montenvers la sua sagoma ci era diventata così familiare che pareva impensabile non si dovesse trovare il modo di salirvi in cima. E ci pareva che comunque valesse la pena di tentare». È il 18 agosto 1873. Il giovane che così riflette ha al suo attivo una breve ma brillante carriera di alpinista che comprende, oltre all’immancabile Cervino (chi non sale il Cervino in quegli anni?) alcune prime ascensioni di valore assoluto, come la Lenzspitze e il Portiengrat. Pure, vorrebbe essere vissuto un paio di decenni prima. «Ora tutto è cambiato. Non ci sarà mai più lo stesso fascino di un tempo in questo nostro passatempo». Le montagne, gli sembra, hanno perduto il loro mistero. E forse ha ragione.

L’antefatto
In quegli anni il Cervino è un mito: tangibile, imperioso. Quando Dent, che abbiamo lasciato sul ghiacciaio della Charpoua con gli occhi fissi alla bifida punta dei Drus, giunge per la prima volta sulle Alpi (anche lui, come Mummery, quindicenne: quante coincidenze in queste due vite) è un anno fremente. « Hai il piede fermo», dice una vecchia guida del Vallese al compito studente di Eton, uno dei più prestigiosi collegi dell’Inghilterra vittoriana, che da generazioni forma i figli dell’aristocrazia e dell’alta borghesia anglosassone. «Diventerai un buon mountaineer». È l’estate del 1865. Poche settimane prima si è conclusa con la vittoria dell’irriducibile Whymper la conquista del Cervino. L’impresa ha avuto enorme risonanza per la tragedia occorsa in discesa, in cui hanno perso la vita una delle guide più note dell’epoca e tre gentiluomini inglesi, due dei quali alpinisti di provata esperienza. Del Cervino, della tragedia, dei pericoli dell’alpinismo discorrono tutti. Coolidge, che proprio in quei giorni viene iniziato all’alpinismo sotto gli occhi dell’indomita Miss Breevort, sua zia, ricorda: «Una sorta di paralisi si abbatté sugli alpinisti, soprattutto inglesi. Pochi com’erano, si conoscevano tutti. Ma andavano attorno cercando di passare inosservati (a quei tempi era ancora possibile), quasi li inseguisse una maledizione. E gli altri viaggiatori li guardavano con malcelato disprezzo. Andavano in montagna come con sofferenza. Divertendosi, sì, ma tenendo per sé ogni espressione di gioia».

In Gran Bretagna la stampa inizia una campagna contro quello sport che stronca tante vite umane e c’è chi propone di proibire l’attività ai sudditi di sua maestà britannica. L’alpinismo, in effetti, segna una stasi. Forse è davvero la fine di un’epoca. Per tre anni interi nessuno osa ripetere l’impresa di Whymper e per lungo tempo il Cervino resta una salita mitica, la prova iniziatica dell’alpinismo estremo, soprattutto anglosassone. Da quell’estate del 1865 Clinton Dent torna sulle Alpi con regolarità. E naturalmente anche lui, come tutti i giovani alpinisti dei tempo, sogna il Cervino. «Ora non si crede più che la sua vetta sia frequentata da spiriti e folletti maligni… ma buona parte dell’antico fascino è ancora legato ai fianchi di quella montagna». L’estate del 1871, finalmente, lo porta sulla vetta agognata.

Qualche anno prima Dent ha incontrato un cacciatore di camosci del Vallese famoso per coraggio e abilità su tutti i terreni, e ne ha fatto la sua guida preferita. Dalla loro amicizia (nei limiti in cui le convenzioni sociali consentono a un gentleman vittoriano di stringere rapporti con un valligiano svizzero) scaturisce una delle più forti cordate dell’epoca, divenuta famosa soprattutto per l’epica impresa che inizia il giorno in cui li abbiamo visti risalire insieme il ghiacciaio della Charpoua e termina cinque anni e diciotto tentativi dopo, sulla vetta del Grand Dru.

Alexander Burgener

L’altro protagonista
Non è certo un caso che Alexander Burgener stringa di lì a poco amicizia anche con Mummery e ne diventi uno dei più assidui compagni nel decennio successivo a quello in cui opera con Dent. Burgener a quel tempo è una delle guide più famose delle Alpi. Ma certamente è anche uno dei più grandi alpinisti che la storia ricordi. Se il suo nome è sempre apparso in posizioni subalterne, ciò si deve solo al fatto che la storia dell’alpinismo quale oggi la conosciamo è un’espressione della borghesia che nell’Ottocento la inventa e la scrive. Le guide non scrivevano, né avevano interesse a scrivere.

Quanto corrisponde a realtà l’interpretazione corrente secondo cui nelle famose cordate ottocentesche la guida costituiva “il braccio” e l’alpinista dilettante “la mente “? A smentirla basterebbe leggere una delle pagine che Dent dedica a Burgener in Above the Snowline (Oltre il limite delle nevi), pubblicato nel 1885. «Allo spirito di cui Burgener dette prova quell’anno e che seppe infondere in noi… al suo intuito, alle sue grandi qualità di capocordata va interamente attribuito il nostro successo, lo sapevo che, essendo una guida, egli era infinitamente superiore a qualunque dilettante quanto a capacità di trovare l’itinerario e che nessuno poteva stargli alla pari per velocità di progressione su roccia. Ma avevo sempre creduto che il dilettante fosse superiore alla guida in una qualità indispensabile: l’audacia. Questa mia testimonianza valga a chiarire che almeno in quella occasione il giudizio corrente era errato: che se non fosse stato per l’indomita audacia di Burgener noi non saremmo mai riusciti a vincere il Dru».

Nello spirito Burgener non è diverso dai suoi più famosi clienti. «Non era mai stato sul Cervino — scrive ancora Dent — e non vedeva l’ora di trovare il modo di andarci». Ciò che in fondo lo distingue dal giovane universitario avviato a una brillante carriera di chirurgo che finalmente accompagnerà sull’ambita vetta è solo questo: che Burgener è costretto, per vivere, a scalare le montagne per cui altri sono disposti a pagarlo. Nell’ascensione al Dru che Dent descrive nel suo libro, il vero protagonista è Burgener, che «ha studiato la montagna» e «si mostra sicuro di farcela»; che decide «sì, c’è una via!» e incoraggia i compagni nel momento della difficoltà: «coraggio! il peggio è passato»; che urla «avanti!» al momento opportuno e con la mano inchioda alla parete il compagno Kaspar Maurer un secondo prima che da sotto i suoi piedi si stacchi un immenso lastrone di ghiaccio che lo avrebbe inevitabilmente trascinato nell’abisso. È Burgener che scopre i passaggi chiave e che sulla vetta, sogghignando della propria previdenza e dello stupore dei compagni di fronte alla sua ineccepibile completezza di attrezzatura, estrae di tasca uno straccetto rosso da sventolare affinché dal paese di Chamonix e dall’albergo di Couttet sappiano che l’impresa è stata compiuta.

Petit e Grand Dru da sud.

Burgener fu un uomo di mezzi fisici eccezionali, «incarnazione della forza, della resistenza, del coraggio». Ma nella descrizione di chi lo conobbe colpisce soprattutto l’incrollabile fiducia in se stesso, la sua straordinaria conoscenza della montagna, il suo intuito e quella capacità di muoversi sui più infidi terreni che farà scrivere a Dent: «Egli dava il meglio di sé quando c’erano da superare difficoltà vere e da correre rischi che la migliore abilità tecnica e la più grande prudenza non valevano a mitigare». Quell’estate del 1873 Burgener scruta con Dent tutte le vette vergini del gruppo del Bianco. Di lì a qualche anno, con Mummery, salirà alcune di quelle giudicate più temibili: il Grépon, i Grands Charmoz, la Verte dal versante Charpoua. Anagraficamente pochi anni dividono i due alpinisti. Ma quegli anni segnano una svolta, quasi una rivoluzione. Dent è un conservatore, e guarda all’indietro: si rammarica di essere arrivato troppo tardi per percorrere le grandiose vie dell’alpinismo classico.

Mummery è un innovatore: apre nuovi orizzonti. Nei suoi confronti Burgener nutre sconfinata ammirazione. E certamente si rallegra quando gli giunge notizia che Mummery, che molta resistenza ha incontrato nell’ambiente elitario e conservatore dell’Alpine Club, è stato finalmente accettato nell’illustre sodalizio londinese proprio quando alla presidenza siede Dent.

E anche questo non sarà stato un caso. Burgener vive la rivoluzione di quegli anni dall’interno e vi partecipa assiduamente. L’elenco delle sue ascensioni con i due più noti inglesi, e con altri alpinisti famosi del tempo. è stupefacente. È un’attività che dura ininterrotta per più di quarant’anni e lo porta anche in Caucaso (in due occasioni, di cui una con Dent).

La sua carriera si chiude bruscamente nel 1910, quando, come scrisse Dent nel necrologico apparso sull’Alpine Journal, «le montagne lo reclamarono tra loro».

Opinioni di un classico
Dent è per molti aspetti un uomo della tradizione. La sua carriera alpinistica è esemplare. Suo sogno è la conquista di una montagna del prestigio del Cervino; suo modello la caparbia volontà di Whymper. Anno dopo anno torna all’attacco del Dru. Ma quando giunge in vetta riconosce che il successo non è venuto dall’aver finalmente individuato l’itinerario giusto: già il primo tentativo aveva visto la cordata impegnata sulla via che cinque anni dopo si rivelerà risolutiva. «La verità è che a poco a poco entrammo nella giusta disposizione mentale e l’aspetto di una montagna varia incredibilmente a seconda dello stato d’animo con cui la si guarda. Ognuno di noi aveva in precedenza giudicato quelle stesse rocce inaccessibili… Ma ora avevamo visto ciò che volevamo vedere… E forse saremmo riusciti nella nostra impresa molto tempo prima, se soltanto avessimo avuto la stessa determinazione».

La statua della Madonnina in vetta al Dru

Ma montagne come il Cervino non ce ne sono più. Sulle Alpi «non si tratta più di trovare l’itinerario giusto per raggiungere la vetta di una montagna nuova; l’alpinista può, caso mai, salire una montagna già conosciuta per un itinerario sbagliato». In questo, secondo Dent, si riassume l’essenza dell’alpinismo contemporaneo. L’ironia cela il rimpianto di chi avrebbe voluto vivere in un’altra epoca. Ma Dent ha intuito la strada dell’alpinismo del futuro, anche se non se ne rallegra. Altrove parla di «climbing per sé», l’arrampicata fine a se stessa: è la strada che lo porterà a esplorare le pareti dell’isola di Skye, dove ancora arrampicano i climbers inglesi del nostro tempo. «È falso supporre che il piacere culmini con il raggiungimento della vetta», osserva. E a proposito della salita al Dru scrive: «È la più affascinante salita di roccia che io conosca. È divertente dall’inizio alla fine. Non ci sono lunghi, disagevoli avvicinamenti su morene, né troppi tratti di neve. La roccia è stupendamente solida e imponente». E conclude: «Dove si può trovare uno sport che procuri altrettanto piacere?».

Tutti gli alpinisti inglesi dell’Ottocento tengono a ribadire che l’alpinismo è uno sport, un gioco; perché abbia senso bisogna stabilirne le regole. Dent era un appassionato di giochi: bridge, scacchi, golf, cricket. Era capace di giocare per ore e ore, con assoluta, quasi maniacale concentrazione, sì da stancare anche il più tenace compagno. Come mai, si chiede a proposito dell’alpinismo, tagliare gradini nel ghiaccio è perfettamente legittimo e scavare appigli nella roccia sarebbe inammissibile? Come mai superare i crepacci con l’aiuto di una scala è consigliabile e la stessa scala non può essere usata per passare un intaglio della cresta? E perché certi attrezzi, per esempio corda e piccozza, sono obbligatori e i ramponi, invece, vengono considerati strumenti del demonio? « Da parte mia, se si potesse dimostrare che un passaggio non può essere superato senza l’ausilio di mezzi artificiali e che non lo si può aggirare in nessun modo, non esiterei ad usare quei mezzi. Ma, a dire il vero, se uno si prende la briga di imparare a arrampicare, scoprirà che non esistono posti del genere sulle Alpi». Qui ci sono, in nuce e con un secolo di anticipo, alcuni degli spunti, delle diatribe, delle convenzioni dell’alpinismo contemporaneo.

L’Aiguille du Dru (è ormai assodato) non è «un posto del genere»: nell’estate del 1878 finalmente la vetta cede alla caparbia cordata, cui si sono aggiunti in quella occasione, l’inglese Hartley e la guida Kaspar Maurer. Gli ultimi passi si svolgono nella migliore tradizione dell’alpinismo ottocentesco: «”Là!” gridò Burgener d’un tratto. “La vetta!”. Non era possibile sbagliarsi: quelli erano i due giganteschi massi che tante volte avevamo scrutato dal basso… Dietro non si vedeva più nulla. Sopra, neppure. Avanti, dunque! Non si riusciva quasi a star fermi sui gradini che il capocordata andava furiosamente intagliando, tanta era l’impazienza… Ci arrestammo un attimo, che la vetta si trovava ormai a pochi passi. E Hartley, che era davanti, cortesemente mi concesse di slegarmi e di raggiungerla per primo». «Spesso l’alpinista si sente domandare che ha fatto una volta finalmente raggiunta la vetta… Nel rispondere a tale domanda io ho sempre taciuto un fatto che ora non credo di dover nascondere più oltre, se non altro perché ritengo che vi sia una morale da trarre dalla mia esperienza”. E con stupore del lettore che lo ha seguito fin qui per duecento e passa pagine di innocue descrizioni e amabili luoghi comuni da viaggiatore ottocentesco, Dent all’improvviso spalanca un abisso. «Per qualche secondo — quanto non saprei dire — tutto il passato parve, cancellarsi, ogni coscienza di me, ogni desiderio di vita scomparve, e fui afferrato da un incontrollabile impulso di gettarmi nel vuoto che si apriva ai miei piedi».

È una affermazione sconcertante: il pragmatico alpinista vittoriano apre uno spiraglio su abissi dell’animo che il buon gusto e la prudenza dell’epoca consigliavano di tacere. Il biografo, per non parlare dell’analista, vi troveranno materia di interessanti riflessioni. Il fatto è che Dent sa perfettamente che l’alpinismo non è un gioco. O non è solo un gioco. Ha sperimentato di persona la forza delle pulsioni e delle motivazioni, a volte oscure e inconfessabili, che portano l’alpinista su una vetta. Ed è il fedele portavoce di un mondo cui certo non sfugge che buona parte dell’alpinismo ha ben altre configurazioni. Gli stessi uomini che fino a ieri con la curiosità del viaggiatore e la passione dell’alpinista percorrevano le vallate alpine con familiari e amici, ora esplorano le regioni extraeuropee alla testa di spedizioni ufficiali. Whymper scala le Ande, Freshfield esplora il Caucaso e c’è chi pensa all’Himalaya. «Non dico che sia saggio scalare l’Everest. Dico, e in tutta sincerità lo credo, che è umanamente possibile farlo. E credo anche che forse già nel nostro tempo questa mia affermazione troverà conferma» scrive Dent.

Dell’Everest si comincia a discutere proprio in quegli anni. Chirurgo e scienziato, Dent sa che il corpo umano ha potenzialità inesplorate. «Non mi stupirei se sentissi che un uomo è salito sulla vetta dell’Everest». È altrettanto stupefacente che l’uomo resista giorni e giorni alle temperature dell’inverno artico, eppure succede. I tempi in cui il dibattito verterà essenzialmente sull’uso dell’ossigeno sono di là da venire: la tecnologia ha bisogno ancora di una guerra mondiale per perfezionarsi.

A che servirebbe scalare l’Everest? si chiede Dent. Non è forse auspicabile accrescere le nostre cognizioni geografiche? rettificare le carte? migliorare i dati che squadre di esploratori raccolgono lungo i confini dell’India? È quello che Dent e tutto l’Occidente chiamano “la ricerca della verità”. In questi anni missioni finanziate sottobanco, perché all’occorrenza possano venire ufficialmente smentite, hanno il compito di penetrare in quelle regioni, in particolare dell’Asia centrale, che tenacemente si oppongono all’influenza occidentale.

Dietro alla puntigliosa, implacabile esplorazione condotta dai membri dell’Alpine Club e dagli scienziati della Royal Geographic Society, nonché da militari e diplomatici, missionari delle più diverse congregazioni religiose, viaggiatori singoli e avventurieri stravaganti e disperati, premono le formidabili ragioni politiche e economiche dell’impero. Si può credere, in questo contesto, che l’alpinismo sia un gioco?

Nota
Quando non altrimenti indicato, tutte le citazioni sono tratte da Clinton Dent, Above the Snowline, London 1885. Le citazioni di Coolidge sono tratte da W.A.B. Coolidge, The Alps in Nature and History, London, 1908.

26
Clinton Dent ultima modifica: 2025-03-13T05:34:00+01:00 da GognaBlog

Scopri di più da GognaBlog

Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.

3 pensieri su “Clinton Dent”

  1. Si può credere, in questo contesto, che l’alpinismo sia un gioco?
    Tra impero Russo e Britannico allora in espansione si sarebbe arruolato chiunque come cartografi ed esploratori per acquisire dati e conoscenze territoriali..Molto spesso nella storia alpinistica si sono mescolate storie più di spionaggio territoriale che imprese immuni dalla politica sempre poi coperte e fatte passare come esplorazioni.k
    Interessante la storia dei Pandit addestrati dagli inglesi questi finti religiosi avevano con sé nascosti termometro nel bastone nel tamburo di preghiera gli appunti  e con i rosari e i loro grani i conti dei 2000 passi a miglio.
    Questo per evitare  ai cartografi esploratori alpinisti inglesi la morte per spionaggio nei monti Afghani governata da Emiri sicuramente poco accondiscendenti con  l’occidente e le sue brame nascoste se catturati.
    Anche da noi durante la Triplice Alleanza è stata cosa comune mescolare da ambo le parti l’ andar per cime con lo spiare più da vicino il futuro nemico Austroungarico.
    Altro che gioco.
     

  2. Complimenti a Paola Mazzarelli, che scrisse il brano. Complimenti ad Alessandro Gogna, che l’ha tratto via dall’oblio.
    Questo è il GognaBlog che preferisco. Questi sono gli scritti che mi fanno iniziare la giornata un po’ meglio del solito. 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.