Considerazioni
di Carlo Crovella
Nei mesi scorsi Jovanotti ha portato alla ribalta il tema dei concerti in montagna. Chissà perché, ma una mia fisima mentale mi spinge ad essere contrario agli happening di quel tipo. Ho però scoperto che non sono contrario a tutti i concerti in montagna. L’esempio, citato in questo articolo per il rifugio Celso Gilberti (Alpi Giulie), mi induce ad una maggior disponibilità, addirittura innesca una certa curiosità. Sarà il tipo di musica? I personaggi? La diversa morfologia ideologica del pubblico?
Nelle Occidentali, da molti anni si organizza il concerto di Ferragosto. Musica classica, quest’anno (sopra Limone Piemonte) arricchita da arie liriche. Se non ricordo male, c’erano 20.000 persone, complice il tempo stupendo. Efficientissimo servizio d’ordine: ampi parcheggi per auto e camper, avvicinamento a piedi, in MTB o con navette organizzate.
Quella sera guardavo le immagini al TG Regionale e mi è parso un avvenimento armonico con l’ambiente. Forse perché la sonorità della musica classica si lega profondamente alla maestosità della montagna? Gli animali apprezzano le sonate di Beethoven o le arie di Verdi? Eppure il prato, dove errano assiepati tutti quegli spettatori, alla sera sarà risultato “calpestato”, magari con diffusi rifiuti e sporcizia annessa. Perché allora ci disturba meno un concerto tradizionale in montagna?
Ho riflettuto a lungo in questo mesetto. Credo che l’avversione per iniziative alla Jovanotti sia perché in genere questi avvenimenti si svolgono negli stadi, in discoteca, al limite nei teatri. Cioè contesti normalmente frequentati da tipologie umane che non hanno niente a che fare con la montagna. Al di là di specifiche tematiche tecniche (tipo la tendenza all’utilizzo delle spiagge da parte di Jovanotti), l’inquinamento che salta all’occhio è di tipo ideologico-esistenziale.
Forse la soluzione si annida nella conclusione di questo articolo che invita a conoscere il rifugio Gilberti. Gli spettatori dei concerti dovrebbero seguire la leggenda del battaglione degli Alpini: dissolversi all’alba come dei fantasmi.
Il rifugio
Il rifugio Celso Gilberti è, al centro del Vallon del Prevala, fra Sella Prevala e Bila Pec, nel gruppo del Monte Canin che con il Monte Forato e l’Ursic forma la lunga muraglia calcarea di confine con la Slovenia. Lo si raggiunge in pochi minuti dall’arrivo della funivia di Sella Nevea o in due ore di cammino risalendo la pista da sci o il sentiero 635. Gratificante come punto d’arrivo, il rifugio è anche punto di partenza per bellissimi itinerari sul versante italiano del gruppo del Canin. Per esempio, il percorso botanico del Bila Pec dal quale si gode di una spettacolare prospettiva sulle imponenti pareti tutt’intorno. Partendo dal rifugio, la Sella del Bila Pec si raggiunge con il sentiero 632: è un percorso facile di circa un’ora. La Sella Prevala, sempre dal Gilberti, dista circa tre ore sul sentiero 636 ed è di media difficoltà. Ma la fatica è ripagata: si possono vedere le postazioni militari della Grande Guerra scavate nella roccia. Dal Gilberti si può andare anche sul Monte Robon (segnavia 636 e 637), percorso di media difficoltà e lunghetto (circa 4 ore). La vetta del Robon vale l’escursione: posta di fronte alla prima linea austriaca, ha avuto grandissima importanza strategica. Oggi sono ancora visibili le numerose fortificazioni. Dalla cima si gode di un meraviglioso panorama sulla catena del Canin, il Jôf Fuàrt e la Madre dei Camosci, fino al più lontano Mangart (Matteo Piccardi).
Concerti al rifugio Gilberti
di Greta Sclaunich
(pubblicato su Sette.corriere.it il 30 agosto 2019)
Ci sono giorni in cui qui ci si sente in un faro perso in mezzo alla tempesta. Soli nella nebbia. Altri in cui il sole illumina la pietraia e migliaia di persone cantano e ballano al ritmo delle canzoni intonate dai grandi artisti della musica italiana e internazionale. La conca Prevala, dove si trova il rifugio Celso Gilberti (a 1850 m sul massiccio del Canin, nelle Alpi friulane e a meno di un chilometro dal confine con la Slovenia), è luogo di contrasti. Bruciata dal sole d’estate, spazzata da bufere di neve d’inverno, spesso investita da forti raffiche di vento. Talmente inospitale, come tutto il Canin, che nelle leggende popolari è considerata la casa del demonio (o Gasparlic, come lo chiamano gli abitanti della vicina Val Resia). Sotto, invece, c’è un mondo nascosto ancora inesplorato: chilometri e chilometri di tunnel scavati nella roccia per quasi mille metri di profondità, ai quali gli speleologi accedono da un buco sul fianco del monte Bila Pec. Ma, salendo al rifugio per il sentiero CAI 635, anche i camminatori ne avranno un assaggio: ai piedi della roccia si apre uno stretto abisso dal quale sale una corrente di aria fredda.
È l’ultima sorpresa prima di arrivare al rifugio Celso Gilberti, che spunta all’improvviso dopo una curva del sentiero. «Quando sono salita la prima volta, a 25 anni, vedere questo scorcio è stato come rivivere un sogno: la stessa identica immagine che guardavo da bambina sfogliando uno dei libri di montagna di mia mamma», ricorda Irene Pittino, 48enne “mezza friulana, mezza valdostana ma nata in Svizzera”, come si definisce lei che da dieci anni, insieme al compagno Fabio Tschurwald, gestisce la struttura. Anche questo è un desiderio realizzato: «Era il mio sogno nel cassetto. Al ritorno da un viaggio in Nepal ho saputo che il precedente gestore voleva ritirarsi e allora ho inviato al CAI una lettera rosa a fiori, scritta a mano, per propormi. Non ho ricevuto risposta e quindi ho inviato anche una lettera formale, scritta al computer. Nessuna risposta nemmeno stavolta. Mi ero messa l’anima in pace quando, due anni dopo, a sorpresa mi hanno telefonato per annunciarmi che potevamo cominciare. E così, il 26 dicembre 2009, siamo partiti».
Il rifugio è stato costruito nel 1934 e dedicato a Celso Gilberti, roveretano di origine friulana famoso per la sua brillante quanto breve carriera nell’alpinismo (nato nel 1910, morì a 23 anni per una caduta in parete). Distrutto nel 1948, poi ristrutturato e riaperto sei anni più tardi, è diventato meta fissa degli sciatori dalla fine degli anni Sessanta quando sono stati costruiti gli impianti. Finito il boom turistico degli anni Ottanta la zona ha vissuto un periodo di crisi. Oggi cerca il rilancio e anche il rifugio, rimodernato nel 2009 grazie all’aiuto della Società Alpina Friulana, ha un volto nuovo.
Merito di Irene e Fabio. Ai muri sono appese le opere di tappezzeria realizzate da lei, ma anche fotografie e illustrazioni di amici e ospiti mentre le porte delle stanze (ci sono circa trenta posti letto, alcuni nel sottotetto, e tre bagni dei quali uno con doccia) sono dipinte a colori vivaci. Sopra il bancone fa bella mostra di sé una collezione di teiere, alle finestre del secondo piano sventola una fila di preghiere buddiste, souvenir dell’India. La cucina è il regno di Fabio, che a 45 anni ha cominciato qui una nuova vita: nato e cresciuto nella vicina Tarvisio, cittadina friulana al confine tra Austria e Slovenia, è stato maestro di sci, allenatore e per un lungo periodo ha lavorato nel locale di famiglia. Ora si destreggia tra dispensa e cantina, tra l’orto a fondovalle dove coltiva i prodotti per i piatti del menu (tutti tradizionali, dal frico di patate e formaggio alla polenta passando per affettati e selvaggina) e la raccolta delle erbe spontanee che crescono attorno al rifugio per le grappe aromatizzate.
C’è chi, infatti, prende il Celso Gilberti per un semplice bar di montagna. Confusione comprensibile: per raggiungerlo ci vogliono circa due ore di cammino (con un dislivello di 750 metri) oppure pochi minuti con la cabinovia che dalla vicina Sella Nevea sale alle piste da sci. D’estate, poi, è una delle tappe del No Borders music festival che ogni anno attira migliaia di spettatori in diversi luoghi sparsi nelle montagne friulane. Davanti al Celso Gilberti si sono esibiti Brunori Sas e Omar Pedrini, Vinicio Capossela e Niccolò Fabi, mentre quest’anno è toccato a Max Gazzè. Gli artisti di solito fanno tappa al rifugio e qualcuno li ha stupiti per la particolare attenzione al luogo. Come quella volta che, alla vigilia del concerto, «ci telefonò il manager di Capossela che voleva sapere se ci fossero leggende particolari», racconta Irene.
Ce ne sono, e parecchie. Le più suggestive riguardano il “battaglione fantasma”, un gruppo di alpini svanito nel nulla dopo la ritirata da Caporetto. Alcuni dicono di aver sentito i loro passi cadenzati fuori dai bivacchi, altri di averli intravisti nella nebbia del vallone. Altri ancora sostengono di averli incontrati, di notte, nella grande sala al piano terra del Celso Gilberti: seduti ai tavoli, con gli zaini appoggiati ai piedi, prima di svanire in silenzio alla luce dell’alba.
7
quando si rompe il cazzo , si è già un bel pezzo avanti verso l’obbiettivo.
Proprio perchè siamo assopiti e nessuno più da tempo rompe il cazzo, che ce la stanno sempre più mettendo in tasca.
Meno male che forse i ragazzi di oggi si stanno svegliando e ricominciano a protestare, cioe a rompere il cazzo.
Luigi, rompere il cazzo è proprio quello che serve a mettere l’accento e l’attenzione su certi problemi. Concordo con te quasi su tutto, comunque, quindi calmati.
Comunque questo articolo disincentiva la frequentazione del rifugio Gilberti, secondo me.
Mò avete proprio rotto il cazzo!! a Plan de Corones, Jova ha radunato in un giorno estivo quante ce ne vanno in tre giorni invernali. ha detto loro che quello è l’ambiente che perdiamo a far cazzate, e quelli ascoltando qualcosa gli sarà rimasto… o no? nei tre giorni invernali corrispondenti, ai felloni in tutina e sci chi dice qualcosa? voi fate concerti sotto i piloni di funivie che riversano inconsapevoli ignoranti fan e vi elevate ( in funivia) a quelli che la sanno lunga? Siete schiavi della dittatura dei numeri, non vi sapete traghettare dall’aritmetica alla drammaticità del pensiero corrente. Non vi auguro un grande avvenire.
Il pubblico di un concerto pop non è certo quello di un concerto di classica. Generalmente più rumoroso inquinante e inadatto ad un ambiente montano, dove regnano solitamente pace e silenzio.
L’importante è “creare” motivi continui di consumo così la massa della gente non pensa e consuma, senza capire.
Noi abbiamo iniziato con questo obiettivo, alla fine degli anni settanta, costruendo i primi computer personali per “tener buona” la gente e ora tutto è molto più difficile: abbiamo creato “il buco nero della stupida ignoranza”, tutto ciò che è intelligente scompare e non esce più.
Mah… io non vorrei fare il moralista ma credo che tutto alla fine sia riconducibile ad una sola finalità cioe’ quella del cosiddetto dio denaro… i rifugi ovviamente ne traggono guadagno. Sono contrario alle grandi masse in montagna a prescindere quali siano le motivazioni di questi “richiami o raduni…”e non starei a fare distinzioni dei vari stili musicali che forse si adattano meglio alla maestosita’ della montagna o quant altro… La musica l’ascolto in altri contesti e la montagna preferisco viverla scalandola o comunque ascoltando i suoi suoni naturali.
La precisazione di Alberto B (commento 3) chiarisce bene il concetto. La definizione “tipologia umana” e’ riferita al modo di comportarsi. Sicuramente ci sono anche dei frequentatori di discoteche che poi in montagna sono rispettosi ed educati. Ma spesso trasportano in quota la propensione la casino, chiamiamola cosi’.È questo che rende diffidenti verso quel mondo.
Precisato ciò, comprendo e condivido il contenuto del commento 1 e non solo con riferimento ai concerti.
Non sono mai stato, purtroppo al Rifugio Gilberti, ma non credo che saranno i concerti a stuzzicanti ad andarci, quanto le escursioni che da lì si possono fare.
chi l’ha detto che non può avere a che fare con la montagna.
Però mica può trasportare la discoteca in montagna!
Anche a me piace la musica, i concerti, il Rock ma il metallaro casinista lo faccio allo stadio.
Per quale motivo una persona che va a teatro e/o in discoteca dovrebbe essere una “tipologia umana” che non può avere a che fare con la montagna?
Per me non è tanto una questione di concerto tradizionale o alla Jovanotti ma semplicemente una questione di numeri mista a una questione di sensibilità.
A me la montagna piace con poca gente e per questo motivo non amo neanche vedere degli sfigati (scusate il termine ma non riesco a trovarne uno migliore) che si affannano per raggiungere la vetta dell’Everest supportati dagli sherpa o degli altri sfigati che vanno sul Monte Bianco solo per aggiungere una tacca al loro curriculum.
Per lo stesso motivo non i piacciono gli elicotterei che trasportano gli sciatori fuorispista, evitando loro la salita.
Insomma non mi piace il casino, ancorché talora silenzioso. Ma forse sono io ad essere fatto male, non pretendo certo di essere il Verbo incarnato. Mi limito ad esprimere un punto di vista perchè a me piace quella pace e quel silenzio che solo in mezzo alla natura si riesce a percepire.