Conosci Renato Casarotto?

Conosci Renato Casarotto? (GPM 065)
di Gian Piero Motti
(da rivista Fila n. 9, settembre 1979)

Lettura: spessore-weight**, impegno-effort*, disimpegno-entertainment***

Primavera 1978, palestra di roccia della Courbassera in Val d’Ala. Renato Casarotto è venuto a Torino per un po’ di giorni: voleva arrampicare, così ci siamo trovati qui in Courbassera. Siamo parecchi: c’è Gian Carlo Grassi, c’è Craigh Martinson, il biondino americano che arrampica leggero come una piuma, ci sono molti del giro di Torino, qualche amica. Si sa, quando viene un nome grosso di fuori si è sempre un po’ curiosi di vederlo in azione: sappiamo bene com’è l’ambiente alpinistico. Sarebbe da cattivi dire che è un mondo piccolo, che vi regnano l’invidia, la gelosia e il pettegolezzo. Ma gli alpinisti non sono diversi dagli altri uomini, qualità e difetti compresi. E tra i difetti, siccome sono uomini, vi sono pure la gelosia, l’invidia e il pettegolezzo. Ma a fianco trovi anche stima, lealtà e sincera ammirazione. Viva la nevrosi, dunque, come sempre se si parla di uomini.

Ma quel giorno era un’occasione per arrampicare tutti insieme, con un misto di curiosità nei riguardi del “grande” Casarotto. Si sa, quando si va in gruppo ad arrampicare sui blocchi, il divertimento è garantito: ciascuno piazza la battuta al momento giusto, si tira il gioco dello “sfottò” fino ai limiti consentiti e oltre, ci si cissa gli uni con gli altri fin quando non si riesce più ad aprire le dita.

Renato Casarotto

In Courbassera vi sono un sacco di blocchi di serpentino, alcuni alti anche più di quindici metri, molto pericolosi in caso di caduta. È una palestra per il bouldering fantastica, direi ideale: anche con la più ferma volontà, difficilmente in un solo giorno riusciresti a fare tutti i passaggi segnati con il minio. Ce n’è per tutti i gusti: dai più facili (che noi definiamo scherzosamente “prinzipianden”) a quelli tremendi, sia di forza che di fino. Per alcuni si può benissimo parlare di settimo grado. Passaggi che pochissimi arrampicatori in stato di grazia riescono a superare. Quando uno viene di fuori, è raro che riesca a far bella figura nelle palestre di blocchi altrui: gioca evidentemente fuori casa. Non conosce l’esatta dinamica dei gesti, fondamentale per vincere certi passaggi dove è praticamente impossibile fermarsi a cercare l’appiglio, staccare una mano, prendere fiato in posizione statica. Non è assuefatto alla struttura rocciosa particolare, viene in un certo senso inibito dalla disinvoltura con cui gli habitués superano passaggi estremi, che però essi conoscono a memoria. La storia è sempre la solita, tutto per loro è così facile… «Dai, un piede in aderenza, ecco, così, ma metti un po’ di magnesite sull’appoggio, se no il piede parte. Dai, adesso tira su quella scheggia da unghie…» Ma tu che non conosci il passaggio, non trovi un bel niente da poterti tirare con le unghie e il piede, anche se hai messo un po’ di pof, non ti dà proprio nessuna fiducia. Così, invece di andar via in dinamica, ti fermi, cerchi, stai sotto sforzo in posizioni assurde e… vieni di sotto.

Facciamo qualche passaggio, tanto per scaldarci, sui primi blocchi. Roba media, non facile, ma nemmeno difficile. Arriviamo poi a un blocco che fa una paretina verticale e leggermente strapiombante, alta sei o sette metri, di roccia nera come legno bruciato. Lo chiamiamo il Muro Nero, infatti. Tante piccole schegge, alcune persino un po’ balorde, dove devi andar via veloce se non vuoi accramparti le dita. Ci sono tre o quattro passaggi segnati nel muro: nessuno è veramente estremo, ma bisogna già saper andare, si gira intorno al quarto superiore con qualcosa di quinto. Attento però: è gradazione da blocchi, non è pane per “prinzipianden”; per andar via elegante devi già essere un arrampicatore purosangue. Casarotto guarda un po’ la paretina, si dà una spolverata di magnesite sulle mani da gigante, poi attacca deciso al centro. Sale, scende, traversa, sale ancora, ridiscende per poi attraversare ancora. Il tutto con una tecnica, una leggerezza e un’eleganza che lasciano senza fiato. Il tutto dando un’impressione di potenza inaudita, una vera e propria forza della natura, non scatenata, ma guidata con controllo e intelligenza. Io e Gian Carlo ci guardiamo negli occhi, Gian Carlo alza le sopracciglia con una sua espressione tipica e ripete un paio di volte in dialetto: «A l’è mat, a l’è mat!». Craigh Martinson osserva attento e silenzioso, poi mi chiede se è la prima volta che Casarotto arrampica su questi blocchi: gli rispondo che è la prima volta. Lui fa un sorrisino, poi si volta verso Cindy, la sua ragazza, e le dice qualcosa in un americano troppo stretto per le mie nozioni di inglese. Capisco invece, da quel poco che ho visto, che Casarotto è un vero fuoriclasse in arrampicata libera. Durante la giornata le dimostrazioni non mancheranno: al primo colpo passa uno strapiombo micidiale, dove ci si sostiene con un solo braccio e con due dita incastrate in una fessuretta unta e sfuggente. Poi supera un bruttissimo diedrino di roccia verdastra, che noi più volte avevamo tentato senza successo. Infine, nel tardo pomeriggio, con le braccia già cotte, passa con stile fantastico uno strapiombo di almeno quattro metri, veramente grandioso e impressionante. Gian Carlo continua a guardarmi negli occhi alzando le sopracciglia, Martinson, sempre con quel sorrisino, mi chiede ancora un paio di volte se Casarotto conosce i blocchi oppure no.

La giornata, a dire il vero un po’ umida e afosa, è passata in fretta. I curiosi sicuramente sono soddisfatti. Se vi erano invidiosi, si roderanno il fegato; se vi erano gelosi, si consumeranno nell’acido della loro malattia spirituale; se vi erano pettegoli, dovranno tenere la bocca chiusa.

Primavera 1979. Patrick Cordier, fortissimo arrampicatore francese, intelligente, aperto, profondo cultore di filosofia orientale, viene a Torino per presentare il film che illustra la sua scalata solitaria della via degli Americani sull’Aiguille du Fou. È un film bello, interessante, molto raffinato e avvolto da un’atmosfera mistica e quasi magica, che purtroppo, però, una parte del pubblico torinese sembra non afferrare. Prima del film, nel pomeriggio, a casa mia, parliamo simpaticamente di tante cose. È piacevole discorrere con Patrick: ha un gusto spiccato per il bello, è ironico ma non sarcastico, affronta anche argomenti impegnativi, sempre però dandoti l’impressione di non prendere nulla sul serio. Parliamo di tante cose, del mio viaggio in Sahara e in Africa Occidentale, di quegli spazi infiniti, del territorio Dogon in Mali, della leggendaria Falaise de Bandiagara dove i Dogon hanno costruito villaggi incredibili tra ammassi di rocce giganteschi, parliamo della mitologia Dogon e del loro “Dio d’acqua”, parliamo delle fantastiche pareti che ho visto lì, vicino ad Hombori e a Duentza. La celebre Mano di Fatima, l’Hombori Tondo: pareti di basalto rosse come il sangue, colonne di arenaria fantastiche, torri di grès che sfidano le leggi dell’equilibrio. Perdute là tra la savana bruciata dal sole, pure e taglienti nella luce cruda della sera, evanescenti e tremanti nella nebbiolina di calore del giorno. Parliamo d’avventura, di libertà, di orizzonti senza confine. Patrick ha dato un calcio a tante cose. Si è nauseato di un certo ambiente alpinistico, ora vive con la sua compagna, istruttrice di yoga, in uno splendido e rustico chalet posto proprio sul bordo del verde altopiano boscoso che fa da vetta ai Rochers des Presles in Vercors. Quante volte mi ha invitato! Sento che presto andrò a trovarlo per arrampicare un po’ da tranquilli. Spero ci sia anche Bernard Amy, sicuramente ci sarà. Bernard Amy è una miniera di impressioni, di esperienze, di sensazioni. Parliamo anche di questo, della sua casa, delle rose che coltiva. Patrick mi racconta dei suoi bagni in una grande tinozza di legno piena di fiori di tiglio («C’est mieux q’un trip!» dice Tina sorridendo), parliamo del mondo di oggi («Le combat, peut-être, n’est pas si loin, – dice Patrick – il faut être spectateur. Vien chez moi, ma maison est une très belle place pour observer les choses d’en haut…»), inevitabilmente parliamo anche d’alpinismo. Del K2, della spedizione nazionale francese cui prenderà parte (e che lo lascia un po’ perplesso), della spedizione di Messner, di Gogna, col quale a Trento avevamo passato giorni estremamente simpatici. Gli parlo del Fitz Roy, che lui ben conosce, della solitaria che Casarotto ha fatto laggiù, un exploit fantastico. Patrick sgrana gli occhi scuri e mi dice: «Vraiment? Le Fitz Roy en solitarie et par une voie nouvelle? C’est presque incroyable!».

Primavera 1979. Milano, Mias invernale: gran casino in quei saloni caotici e pieni di fumo, di vociare, di persone un po’ scialbe e anonime. Nello stand Fila (dove almeno ti puoi sedere) incontro Enrico Frachey, che io scherzosamente chiamo “il Führer”, tanto so che lui è intelligente ed è il primo a ironizzare su se stesso. Si parla un po’, c’è anche Giorgio Daidola, direttore della Rivista della Montagna. Viene fuori una discussione su una tavola rotonda che si dovrebbe fare sul tema dei rapporti tra la grande stampa ufficiale italiana (non quella alpinistica specializzata) e l’alpinismo, meglio, tra i mezzi di informazione in Italia (stampa, televisione, radio, cinema) e l’alpinismo. Da ambedue le parti vengo sollecitato un po’ brutalmente a dirigere e organizzare il dibattito. Più volte rispondo che non mi interessa, che la dimostrazione di ignoranza e superficialità data dalla stampa e dalla televisione italiana in ogni occasione è semplicemente vergognosa, fa schifo. Frachey dice che è vero, ma che proprio per questo si dovrebbe sensibilizzare (è una parola che ama molto. A Frachey piacciono molto le parole un po’ complicate, che fanno effetto, e le usa molto abilmente. Sono sicuro che Macchiavelli sarebbe fiero di lui…) la stampa, i giornalisti, il pubblico… educare, informare, acculturare… eccetera, eccetera. Scuoto ancora la testa: «E perché? Per gli interessi della Fila? Per gli interessi degli alpinisti sponsorizzati dalla Fila? E l’alpinismo che ne guadagna se i giornalisti italiani continuano a scrivere cazzate, se chi scrive di montagna (o meglio vorrebbe scrivere di montagna) su rotocalchi e quotidiani, alpinista non lo è mai stato, se non capisce proprio niente d’alpinismo, se la televisione italiana ogni volta che si cimenta con l’alpinismo ottiene dei risultati disastrosi? Distinguiamo una buona volta tra “letto” e “vissuto”, tra intellettualismo e reale conoscenza derivata da esperienza diretta».

Il Fitz Roy e il Pilastro Goretta (sulla destra, contro il cielo)

Frachey, che è molto astuto, mi dà ancora ragione e dice allora che dovrei essere io a scrivere, io a smascherare l’inganno. Come se già non avessi nemici a sufficienza. «Che – gli dico – vuoi proprio arrivare al “crucifige”?» No, scuoto ancora la testa, no, ho deciso di non scrivere più, perché quando poi mi rileggo a volte non mi piaccio più e poi non mi va di essere frainteso. E io mi voglio bene, mi secca entrare in contraddizione con me stesso, a meno che lo faccia di proposito per scardinare nella mia psiche qualcosa che non mi va. Però forse scriverò perché sono stanco di leggere preziosismi come “Messner Tarzan del ghiaccio” (è un insulto a Reinhold essere trattato in questo modo. È un insulto alla serietà e all’intelligenza del suo alpinismo e mi stupisco che Reinhold lo tolleri); perché sono stufo che alpinisti come Gianni Comino, oggi il più forte ghiacciatore italiano, e come Grassi siano del tutto ignorati (per un’impresa come la “solitaria” di Comino al Supercouloir del Tacul, un giornalista torinese che vanta conoscenza alpinistica ha speso non più di cinque righe); sono stufo che per un’impresa come quella di Casarotto al Fitz Roy (grandiosa, pari a quella di un Bonatti al Dru) si siano scritte poche righe su una colonna di un quotidiano. Allora mi chiedo: ma ne vale la pena? Vale la pena parlare seriamente d’alpinismo (non come fatto sportivo, è troppo comodo) su una stampa in malafede, venduta alla politica, venduta al capitale, alla continua ricerca del morboso e della disgrazia su cui speculare per stimolare il pietismo delle masse, trafficante in facile populismo, artista del compromesso (non solo storico), paladina di un moralismo stucchevole in una pagina e protettrice di un falso progresso nell’altra, pronta a condannare la pornografia (ma quale? Il nudo e il sesso? Ma è questa pornografia o non il pasticcio politico italiano e i giochi di potere?) per poi pubblicare le locandine dei film “hard core” o la foto un po’ piccante (ma solo per vecchi impotenti e bavosi) dove si vede il seno della star o qualcosa di più scuro sotto le mutandine della ninfetta che tutta bagnata esce dal mare? Ancora mi chiedo e vi chiedo, vale la pena? Oppure mi ridurranno Messner a Tarzan del ghiaccio, Casarotto a John Travolta della roccia, Grassi a hippy dell’alpinismo, Comino a mago del piolet-traction, Boivin a Superman delle nevi e Seigneur a Goldrake dell’Himalaya?

Ora tu mi dirai: ma in quest’articolo non dovevi parlare di Renato Casarotto? Certo, e infatti ho parlato di Renato Casarotto, per chi ha orecchie per intendere. Casarotto è un ragazzo semplice, ancora lontano da tante cose. E come una forza della natura. Ma semplice non significa sprovveduto. No, non è vero che non pensa, come molti sostengono. Pensa, eccome. Ma pensa a pareti di roccia verticali e rosse come il sangue, a spigoli affilati come lame, a strapiombi immensi, a canali di ghiaccio infiniti, a scalate solitarie su pareti di granito lisce come specchi. A questo pensa Renato, e i suoi sogni, fortuna di pochi, divengono poi realtà. A tante altre cose non pensa, forse non ci ha mai pensato. Paranoia? Rimozioni? Meccanismi di difesa dall’impatto con il vero? Fuga dal reale?

Dylan in Tutto va bene mamma, sanguino soltanto, la più bella delle sue poesie-canzoni, diceva, quasi con rabbia: «I miei occhi scontrano frontalmente cimiteri pieni, falsi ideali; disprezzo la mediocrità così violenta, cammino capovolto, ammanettato, scalcio con i piedi per liberarmi, dico: va bene, ne ho abbastanza, che altro c’è da vedere? E se si potessero vedere i miei sogni pensanti probabilmente metterebbero la mia testa in una ghigliottina».

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Conosci Renato Casarotto? ultima modifica: 2018-01-15T05:00:33+01:00 da GognaBlog

13 pensieri su “Conosci Renato Casarotto?”

  1. Per dire di due “piolettati”….  Fowler non è Urubko, ma nemmeno Urubko è Fowler, hanno fisici diversi, ma  entrambi hanno teste rare e sono grandissimi Mountaineers. Però Renato era anche Alpinista, sapeva pure arrampicare molto bene, e un incredibile, ancora oggi, solitario, specialmente d’inverno. Certo che lui aveva un “fisichetto”, ma sapeva come allenarlo: con testardaggine e capacità di sopportare la fatica, non ha mai mollato, aveva una coscienza di se stesso  come pochi.

  2. La forza e la testa. La mano e la mente.

    Sono due facce della stessa medaglia. L’una abbinata all’altra fanno il grande risultato. Ci si può migliorare e anche di tanto ma il talento , fisico e tecnico alla fine credo facciano la differenza. E questo è un dono.

    Casarotto credo racchiudesse in se, molti talenti: forza e resistenza sia  fisica che  mentale, capacità tecniche, capacità di soffrire,  voglia di mettersi in gioco, sete di avventura che lo lanciava verso grandi traguardi.

    Un pò come Desmaison e Gousseault sulla nord delle  Jorasses. Il primo ha resistito e poi è stato salvato. L’atro invece no. Desmaison aveva solo più testa? Più capacità di soffrire? Più voglia di vivere? Può darsi ma è anche vero che il suo compagno aveva un problema fisico che lo rendeva assai  più debole in quelle condizioni ambientali.

  3. Se la sofferenza corrisponda alla capacità di accettarla o di fuggirla è difficile dirlo.

    Di sicuro c’è che ciascuno di noi, nel porsi tale quesito, non può prescindere dalla percezione della sofferenza a livello personale. Ci sono persone che si fanno trapanare dal dentista senza anestesia e altre che appena si siedono sulla poltrona dicono “ahi” e si fanno fare la puntura. Da cosa dipenderà? Da un diverso livello di sopportazione di tipo strutturale (maggiore o minore sensibilità) oppure dai modelli, dai valori, ecc.? Oppure dipenderà da tutta una serie di fattori combinati insieme?

    C’è un filone di pensiero, con un certo seguito, in base al quale con la forza mentale si può superare qualunque ostacolo. Forse è vero però credo non vi sia traccia documentata di atleti che abbiano stabilito dei record mondiali con la sola forza di volontà. Spesso si porta come esempio un certo Pietro Mennea dimenticando però che quest’ultimo sfidava da giovane le automobili in velocità (cioè Pietro aveva una forza di volontà incredibile però non è che sia partito da delle basi scarse, tutt’altro!).

    In buona sostanza, quando esprimiamo dei giudizi, positivi o negativi, su una persona che compie delle imprese straordinarie non possiamo mai sapere con assoluta certezza quanto questa persona fosse predisposta per l’ottenimento di certi risultati. O meglio, vi sono attività dove esistono dei protocolli alquanto affidabili ma altre dove si ragiona solo a sentimento e siccome in alpinismo di codificato non vi è nulla si finisce sempre per ragionare i termini di sensazioni.

    Per dirla in parole ancora più povere, dopo un anno di allenamenti qualsiasi allenatore con un minimo di competenza sarà in grado di capire se un suo allievo ha le potenzialità per andare alle olimpiadi. Tutto dipenderà dai tempi e dalle misure ottenute.

    In alpinismo, non essendo uno sport, nessuno è in grado di fare queste valutazioni e nessuno nemmeno ci si mette. Il risultato è che alla fine si attribuiscono molti risultati alla sola forza di volontà senza pensare che alla base potrebbe esserci una predisposizione fisica particolare (d’altronde l’alpinista, per il tipo di attività che svolge, è lontanissimo dalla figura di atleta tramandataci dai greci e quindi si mimetizza molto bene con il vicino della porta accanto che magari svolge un’attività fisica assai modesta).

    Io credo che tutti i grandi alpinisti abbiano una predisposizione naturale sulla quale la forza di volontà trova il supporto ideale per essere sviluppata. Fatto 100 il totale fra facoltà mentali e fisiche non sarà poi semplice andare a stabilire in che percentuale incidono le une e le altre, dico solamente che se le doti fisiche sono 10 la vedo molto dura arrivare a 100 con le sole facoltà mentali.

  4. Mi chiedo se la sofferenza corrisponda alla capacità di accettarla o di fuggirla.

    Se dipenda dall’educazione, dai modelli esperiti, dai valori respirati.

  5. “Era un immane testardo e aveva una capacità di soffrire infinita.”

     

    Se non l’avesse avuta non avrebbe fatto quello che ha fatto.

  6. da un articolo sulla rivista del CAI di PR “L’Orsaro” un ricordo personale sulla salita al Gasherbrum del 1985 con Renato e Goretta

     
    Giunti a Pindi, in attesa dei permessi e preparando i trasporti, ci trovammo catapultati nel gotha dell’alpinismo dell’epoca: mancava solo Messner; gli altri c’erano tutti.
    Nelle serate al FlashMan, incontrammo Kurtyka e Shauer, reduci della sottovalutata salita al Gasherbrum IV; Wanda Rutkiewicz, Jean Marc Boivin e tanti altri; ma come, noi alpinisti di pianura cosa ci facevamo lì?
    Di quegli incontri il ricordo più vivo è la figura di Renato; non passava certo inosservata, era stimata e di sicuro anche odiata, emergeva e sovrasta tutti, li costringeva a confrontarsi con il proprio modo di andare in montagna, al di fuori ed al di sopra di quanto si legge sui libri o si racconta… Renato era uno specchio che riflette l’immagine reale di se stessi; anche i grandi alpinisti ne erano consapevoli e alcuni proprio non l’accettavano.
    Si, Renato è stato davvero l’unico “maestro”, nell’accezione orientale del termine sensei, che ho incontrato nella mia vita; Renato il cavaliere, il fortissimo, il puro, lo “sgruso”, l’introverso… la persona più buona e onesta che mi sia mai capitato di conoscere!
    Renato e Goretta insieme… una fortuna e un privilegio averli incontrarti e potersi ancora dire loro amico.
     

  7. Per me Renato era Renato. Parlavamo di montagne, di salite, di come organizzarci e quali allenamenti fare e ci spiegava i suoi problemi con i suoi sponsors per guadagnare e vivere scalando. Le tante serate in casa passavano così, sempre con la testa solo in montagna, senza parlare d’altro e andavamo a dormire presto. Però prima era fuori ad allenarsi, più di tutti, e pregava, spesso entrando in una chiesa. Noi questo non lo facevamo mai, lui sempre. Talvolta qualcuno di noi lo accompagnava fino agli attacchi portando un pó di materiale, era bello stare con lui. Era un immane testardo e aveva una capacità di soffrire infinita.

  8. Nella..Storia dell’ alpinismo Italiano “Renato ” si ritaglia un grande spazio, per la sua classe..di arrampicatore e nel Mondo, per le sue imprese..! C. saluti..G.C.

  9. Probabilmente Casarotto al Fitz Roy è più grande di Bonatti al Dru. E poi è bello e molto piacevolmente snob, l’apparente uscir di tema di Motti, sovvertitore di regole non scritte, come certe dell’alpinismo.

    Fa quasi pensare che ai tempi esistesse una swinging Torino.

     

  10. Dice bene Gian Piero quando, parlando di Renato,scrive che a tante cose non pensava e forse non ci ha mai pensato perchè i suoi pensieri erano tra spigoli diedri e ghiacciai…..

    Poi questi pensieri davano spazio all’azione degli allenamenti e alla realizzazione delle sue imprese…tante e sempre estreme.

    Al ritorno di ogni salita ne aveva già in mente un’altra…più difficile

    Ma un essere umano dove trova poi il tempo per pensare ad altre cose ?…ed anche lo trovasse è questione di scelte consapevoli ( e Renato era una persona perfettamente consapevole !!! )

    Il suo mondo era la montagna ( e Goretta ), era l’ambiente dove sapeva di poter dare il massimo di se stesso….perchè “abbassare” il livello in un ambiente ( forse anche ostile e falso in alcuni casi ) come quello dei rapporti tra gli uomini ?

    Non credo che tra l’altro lui non li avesse ma semplicemente forse li evitava affrontando invece ” l’impatto con il vero” unico atto assolutamente incontestabile…

    “Semplice ma non sprovveduto” ha saputo rinunciare ad un cambio di programma del signor Messner per tornarci qualche tempo dopo DA SOLO !!!

    La Magic Line per me sarà sempre SUA.

    Grazie Alessandro

    Mic

  11. E sì, belle parole, Renato era un grande, a mio modesto parere ineguagliato nel suo stile a tutt’oggi. Un “cavaliere visionario”senza compromessi, poche “chiacchere grandi gesta. Lui era così. Ho avuto il piacere di vederlo arrampicare, leggero preciso come pochi. Ciao Alessandro.
    Da Facebook, 15 gennaio 2018, ore 12.45

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