Contro il metodo
di Lorenzo Merlo
Qualche riga, tutt’altro che esaustiva, prevalentemente dedicata alla didattica in campo motorio, ma disponibile ad essere mutuata a tutti i contesti della vita relazionale. Siccome capire non conta nulla e ricreare è necessario, per procedere in questo articolo torna utile prendere il ruolo di discente o di docente e alternarli, né più né meno di quanto sempre accade. E siccome non c’è protocollo che imponga alcunché, ognuno lo farà secondo se stesso. A quel punto tutto sarà chiaro.
Il totem
Il metodo è un mito. Nella nostra cultura razionalista e meccanicista ha il valore di totem. Il metodo semplifica, risolve, aiuta. Nel metodo c’è la soluzione e c’è la selezione.
Tuttavia, il metodo uniforma docenti e discenti. Per sua natura tende ad appiattire la dentellatura degli orizzonti individuali che siamo.
Se il metodo dimostra la sua miglior efficacia in contesto addestrativo, quando – come avviene – è trasferito in contesto didattico-educativo-pedagogico-terapeutico-comunicazionale, tende a selezionare, a perdere qualcuno per strada, a creare i “negati”, a mortificare, inibire, umiliare. Ovvero, tende a evidenziare la sua inopportunità in quanto realizza l’opposto di un processo destinato a formare uomini compiuti, indipedenze creative, capacità di riconoscere se stessi, la propria natura, la propria posizione nel mondo, la via della realizzazione, soddisfazione, benessere.
Uomomacchina
Se si tratta di attività motorie la didattica ancora dominante è centrata sulla tecnica, che il docente descrive, rappresenta e detiene. Compito del discente, che ritiene di non averla e di doverla acquisire, è replicarla. È una modalità che vale anche in ambito cognitivo-intellettuale. In ambo i contesti– motorio e intellettuale – si osserva uno sfondo meccanicista, che per sua ontologia tende a ripetersi senza variazioni.
Chi non sta al passo del mondo rappresentato o enunciato dal docente è destinato ad un giudizio negativo, quindi scartato, abbandonato. L’alienazione di sé è avviata e con essa l’impossibilità di riconoscere il proprio ruolo nella vita, il solo elemento di equilibrio. Il discente subisce la condanna e tende ad identificarsi nell’inetto, castrando così il suo gradiente di talento specifico. Il suo probabile riscatto dall’umiliazione sarà riproporre lo schema subito una volta nel ruolo di docente, padre, guida, tutore. La persona ridotta a meccanismo, è privata della sua individualità, della sua verità, è abilitata alla sofferenza, esorcizzata a suon di ideologie e dogmi. L’infinito che siamo, non solo è ridotto a poche idee egoiche, è culturalmente cestinato.
Il meccanicismo applicato alla didattica è stato chiamato drill, come trapano, metafora della ripetizione come modalità base d’insegnamento/apprendimento, da Jean Le Boulch (psicomotricista).
La freccia
Volendo disegnare una rappresentazione grafica della modalità didattica più frequente, disegneremmo una freccia che, scoccata dal docente, è diretta al discente. È un esito scontato quando l’universo del discente non è al centro del processo didattico-comunicazionale. Quando ogni discente è concepito come identico ai suoi colleghi. Quando la sua imitazione del modello ideale, affermato dal docente, è valutata con un unico, assoluto, metro di giudizio per tutti.
È un contesto educativo che tende a generare una dipendenza della parola del docente. Infatti, nel suo giudizio è racchiuso il nostro valore.
L’ascolto
Se tecnica o concetto sono al centro della struttura didattico-comunicazionale, se il potere didattico è ridotto alla presunta detenzione del sapere, la persona è necessariamente ai margini. Così procedendo si avanza di affermazione in affermazione da un lato e di imitazione in imitazione dall’altro. Perfino il se stesso del discente non è al centro del suo agire, un centro occupato da ciò che gli è stato richiesto.
Il binomio docente/discente si muove in un campo chiuso e autoreferenziale in cui non c’è spazio per l’ascolto, quella metafisica materia che la cultura meccanicistica ci ha sottratto nonostante la sua idoneità a indicarci la strada nelle relazioni della vita. Il processo di individuazione tarda o viene a mancare.
Senza sottrarsi al dominino egoico dell’affermazione di sé, ovvero senza ascolto, il senso e le verità degli universi che abbiamo di fronte tendono a sfuggirci. La concezione generale, la situazione del momento, il gradiente di motivazione del discente non possono essere raccolti dal docente, e quindi considerati tanto per modulare opportunamente la relazione, quanto per stimolare la propria intelligenza didattica. Quando gli elementi portati dalla persona non vengono integrati nella relazione didattica, non divengono strumento di personalizzazione della didattica stessa. Finché la persona non è posta al centro dell’incontro didattico, comunicazionale, terapeutico, tutto l’apporto che questa ci offre per realizzare una didattica opportuna va a perdersi.
Circolarità della didattica
Quando il binomio persona/ascolto sostituisce quello di tecnica-concetto/affermazione, il disegno della freccia, da unidirezionale, diviene circolare. Docente e discente, che prima condividevano un rapporto gerarchico e chiuso, ora godono dell’apertura sull’infinito creativo che una relazione alla pari tende a generare. In questa, il discente si sente centrato su se stesso, si esprime senza timore di una valutazione negativa, senza timore quindi di senso di colpa o pena. E anche senza perdersi in un’autostima fittizia, tutt’altro che formativo-evolutiva, in caso di giudizio positivo da parte del docente. Sentirsi superiori è una patologia grave che passa per normalità, che è camuffata da meritocrazia.
Quando la relazione è alla pari, il docente è emancipato dalle proprie definitive affermazioni. Tende così a creare una comunicazione in forma di prova, di test, per osservarne la bontà o meno. Sottopone cioè se stesso al vaglio dell’efficacia della sua affermazione che, se fallace, è sfruttata per riformulare diversamente in base al ritorno ascoltato. Nel processo di didattico attraverso l’ascolto, il docente è consapevole della propria piena responsabilità nei confronti di una crescita interrotta, di un avvio mancato, di un abbandono compiuto.
Capire non conta nulla
A causa del dominio razionalista, espressione del meccanicismo, riteniamo che il capire costituisca lo scopo, che attraverso il capire si realizzi l’apprendimento. Riconoscendo però i limiti del territorio amministrativo in cui detta verità si compie ed è condivisibile, possiamo osservare che capire non conta nulla in contesto didattico, che ricreare è necessario. Capire riguarda la dimensione intellettuale, la più superficiale tra quelle disponibili all’uomo. Capire è funzionale tra pari esperienze, entro un ambito che condividono, attraverso espressioni di un linguaggio comune. Una situazione in qualche modo opposta a quella didattica.
Al contrario dell’imitazione, la ricreazione richiede un’iniziativa che sgorghi dal profondo. In contesto ri-creativo siamo in ascolto di noi stessi e da soli possiamo scoprire come modificare scelte e comportamenti fino a sentirne l’efficacia. È una condizione in cui la nostra responsabilità sullo sviluppo degli eventi è piena. Orientati invece all’imitazione siamo in ascolto di un’idea, di un’intenzione di fare bene, di essere giudicati bene e, a volte, di una paura. Nell’imitazione noi non siamo presenti.
Ricreare implica alimentare un processo di indipendenza e sicurezza. Viceversa imitare senza la consapevolezza di farlo, è un ubbidire a modelli estranei dai quali dipenderemo.
Tornare in sé
Come detto, non basta capire che l’ascolto permette ciò che l’affermazione impedisce. È necessario ri-creare il percorso individuale affinché la modalità circolare venga espressa dal nostro fare. Affinché quella impositiva, egocentrica, autoreferenziale resti buona e limitata ai pochi contesti che le competono.
Portando l’attenzione sulla motivazione, sulle paure, sulle velleità nostre e altrui, possiamo avviare l’acquisizione dell’ascolto. Coltivare il percorso che arriva a denudarci delle maschere che avevamo creduto legittime e necessarie, è premessa indispensabile per apprendere esattamente ciò che fa al caso nostro. Si arriva a riconoscere le ragioni delle espressioni corporee nella nostra intima condizione. Si arriva a lavorare su se stessi, e a scoprire che scalare lo sapevamo già.
Scalare lo sappiamo già
Abbiamo imparato a camminare da soli, forse la cosa più difficile della vita, senza istruttori né maestri, basando il nostro procedere soltanto su quanto sentivamo. Può non valere come dimostrazione che la conoscenza è già nelle nostre motivazioni?
Gli individui di un gruppo eterogeneo di persone, di fronte a una parete rocciosa di varia difficoltà che si interpone al loro percorso, tenderanno a salire lungo percorsi a loro idonei, e, se necessario, tenderanno a impiegare il materiale eventualmente disponibile in modo creativo, il loro comportamento sarà idoneo per produrre la miglior sicurezza. Nessuno del gruppo sceglierà linee inadatte alle proprie disponibilità psicomotorie. Salvo ragioni di vanesie emulazioni, ognuno si comporterà secondo il proprio sentire, relegando il proprio sapere a semplice strumento.
La salita avrà al centro il se stesso di ognuno in quanto, muoversi a propria misura, genera un criterio a noi idoneo, tende a generare sicurezza, tende al successo. Il se e dove proseguire, il se e quando rinunciare è totalmente commisurato a noi stessi, totalmente sottratto ai dogmi dell’importanza personale, a quelli delle ideologie, dei luoghi comuni. E, soprattutto, a quelli della nostra esperienza pregressa. Una volta purificati da superstizioni d’ordine vario, fossero anche cosiddette scientifiche, emancipati dal totem del capire, possiamo seguire noi stessi, possiamo trarre il massimo dagli errori, possiamo riconoscere il destino come scelta. Possiamo percepire forze sottili, rivelatrici di un mondo energetico, che agiscono sempre in tutte le relazioni. Possiamo cioè riconoscere le ragioni dei fenomeni e alzare la nostra capacità di gestirli.
Quando la modalità io sento sostituisce quella dell’io so, dell’io devo, dell’io voglio, si procede a propria misura, secondo motivazione del momento. L’importanza personale, l’orgoglio, la vanità, l’esibizionismo non sono più forze che ci distraggono da noi stessi alzando così il rischio di inconvenienti. Attraverso l’io sento tutti possono constatare che scalare lo sappiamo già. Non serve istruttore per muoversi secondo il sentire. La sicurezza non risiede più negli accessori.
Chi si fa male è un fesso
Nel caso della scalata e non solo, la formula chi si fa male è un fesso può rappresentare una didattica e un comportamento centrato sulla persona.
In una didattica relazionale, circolare, sebbene tutti arrivino assetati di sapere come fare per scalare, per ghiacciare o per sciare, è inizialmente frequentemente necessario smontare la corazza di convinzioni prodotte della cultura del sapere e della specializzazione, che ricopre le persone come una pelle, che le riempie come un cuore di verità.
Finché non si prende coscienza di quanto l’attenzione sia su quello che si sa o che si vuole invece che su quello che si sente, sulle reali motivazioni, paure e aspettative, finché il docente è concepito come la sola origine del nostro apprendimento, ci muoveremo secondo un copione che non ci rappresenta, in cui il rischio di comportarci in modo inadeguato a noi stessi e alla sicurezza tende ad alzarsi.
Deresponsabilizzare con aiuti e sicurezze artificiose, plaudendo a falsi successi, nient’altro che sconvenienti distrazioni nella maieutica dell’indipendenza, è la pratica comune, ma è anche il contrario di una maieutica dell’indipendenza.
Per riconoscere che è una nostra tensione che ci impedisce di arrivare a una presa sono necessarie tutte le prese di coscienza utili affinché il microcosmo del corpo torni a far parte di noi. Quando il miracolo si compie la tecnica, che credevamo da apprendere, è ricreata.
Se sbattere contro chi si fa male è un fesso è traumatico, una volta recuperato se stessi ne implica la condivisione. Oltre a scoprire che non c’era nulla da imparare, che tutto è già dentro le nostre motivazioni, che eravamo arrivati per imparare a scalare o sciare, ce ne andavamo consapevoli che quanto avevano esperito e ricreato non sarebbe servito solo sotto una falesia o per una serpentina nella polvere. Sarebbe servito a noi.
Bibliografia
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– Sergio Manghi, La conoscenza ecologica, Milano, Raffaello Cortina, 2004
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– Humberto Maturana, Ximena Dávila, Emozioni e linguaggio in educazione e politica, Milano, Elèuthera, 2006
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– Marianella Sclavi, Arte di ascoltare e mondi possibili. Come si esce dalle cornici di cui siamo parte, Milano, Mondadori, 2003
– Paul Watzlawick, Janet Helmick Beavin, Don D. Jackson, Pragmatica della comunicazione umana, Roma, Astrolabio-Ubaldini, 1971
– Paul Watzlawick, John H. Weakland, Richard Fisch, Change, Roma, Astrolabio-Ubaldini, 1974
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Il commentatore sportivo , non richiesto, commenta l’impresa ciclistica parlando di telaio, ruote, copertoni e rapporti, snocciala 53-24…34-28…. 32-32….32-36.. adessobeve il gel ecc.ma la vera sensazione la sente il ciclista e sceglie che levette manovrare, indovinandi o sbagliando.
Poi le interviste o sono stereotipate o…:
” ci dica Moser, cosa prova dopo questa vittoria alla Parigi … Roubaix? che sensazioni ha provato sul pave’?”
“Unica risposta:tant mal al cul!”
”
Non ci provo neanche. Troppa distanza.
“Abbiamo imparato a camminare da soli… basando il nostro procedere soltanto su quanto sentivamo. Può non valere come dimostrazione che la conoscenza è già nelle nostre motivazioni?”
Forse ma non proprio da soli (che non bisogna dimenticare esempi e genitori pronti alla parata, senza i quali saremmo morti), ma occorre ricordarsi di guardare un po’ intorno e ci si accorge che la maggioranza delle persone cammina male: quindi o la maggioranza ha un difetto genetico o la teoria è come minimo incompleta.
In realtà anche per camminare occorre imparare. Con un metodo fatto tempo e allenamento
Invece l’affermazione chi si fa male è un fesso” è solo una stronzata.
Equivale a dire che occorre imparare a muoversi in montagna come un camoscio: non tiene conto che circa il 20% di camosci muore di incidenti ogni anno (valanghe, cadute) e che almeno la metà dei camoscetti muore prima dell’anno…praticamente un tasso di mortalità da grande guerra, altro che feeling con la natura!
Come sempre le cose non sono né bianche né nere, ma dell’infinita varietà di sfumature che rende il mondo sorprendente e meraviglioso.
Pensare che il tutto sia già dentro di sé è solo il polo opposto, il duale dell’addestramento autoritario tipo college inglese o Wehrmacht.
Ugualmente inutile, ugualmente limitante, ugualmente falso.
Il metodo”serve”, in quanto a volte fornisce schemi, velocizza i risultati, pero’ l’effetto migliore e’ che indirizza alla critica, alla disobbedienza , alla ricerca di una “my way”e a distinguere tra chi ha solo quello a disposizione e chi ha un quid in piu’.Ci sono istruttori ( a tariffa e tempo cronometrato )e MAESTRI.. amici…disposti ad una reciprocita’.
Anzi ho visto la differenza di approccio di un istruttore di sci con clienti e lo stesso come amico con cui si condividevano gite escursionistiche , barzellette , merende , vicende con ragazze. .Andando per conto mio su pista fondo, affiancai un allievo a seguito di un istruttore dalla giacca irta di logo ..e dopo averlo osservato gli insegnai a impugnare correttamente il bastoncino.L’istruttore vide e disse “ah, si’ , non lo avevo notato. “.A proposito di …@2, “Serve ad abituarsi ad obbedire subito, e senza pensarci, all’ordine di un superiore.” E’recente lo sviluppo della vicenda “forchettoni ai freni della funivia di Stresa”..sembra che l’indagine si allarghera’ ad alcuni addetti ,la classica manovalanza che esegue a mettendoci le mani, per sapere se abbiano ubbidito ad un capo servizio..sara’interessante capire se minacciati ,o persuasi che la portante non si potesse MAI rompere, o convinti che servisse a salvare il posto…la paga.
ADDESTRAMENTO FORMALE
Esiste una bella rappresentazione di quanto scritto sull’addestramento formale in uno stupendo e poco noto film di Kurosawa: Sogni.
Sarebbero i sogni belli e brutti di tutti i giapponesi, compreso l’incubo del disastro nucleare (anticipa di decenni il disastro di Fukushima).
Uno degli incubi è il senso di colpa dei combattenti sopravissuti alla guerra nei riguardi dei compagni morti.
Kurosawa (lui che nella realtà non ha partecipato direttamente alla guerra, ma in un film ha sostenuto l’eroismo delle operaie di guerra) lo rappresenta con un ufficiale reduce che a piedi attraversa un angosciante tunnel ferroviario (la guerra) e alla fine torna alla luce e si ferma per abituarsi a quel ritorno alla luce e alla uscita dal tunnel.
Dietro a sè ode dei passi e poi dal tunnel sbuca un suo soldato che anche lui vuole tornare alla luce del giorno e della vita.
Lui gli spiega che non può, perchè è morto in guerra, ma il soldato morto insiste, indica la casa in cui l’aspettano i parenti, non sente ragione.
Lui capisce che non riuscirà mai a convicerlo che sia giusto così e, esausto, ricorre alla sua autorità di ufficiale e gli ordina:
soldato! attenti, dietrofront, avanti march!
Il soldato obbedisce senza fiatare e rientra nel tunnel.
Poi si odono dei passi pesanti di soldati tutti in marcia al passo e dal tunnel esce tutto un plotone di soldati tutti morti in guerra, tutti che reclamano la loro vita…
La scena finisce sull’incubo che continua…
geri
CONTRO (OGNI) METODO?
Albert, in tutti gli eserciti del mondo si insegna a marciare al passo, fare dietrofront, presentat’arm ecc.
Nessuno crede che quell’ “addestramento formale” sia utile per combattere contro un nemico. E allora non serve a niente?
Si serve, eccome!
Serve ad abituarsi ad obbedire subito, e senza pensarci, all’ordine di un superiore.
Cosa importante e giusta, dal punto di vista di chi comanda, e anche dal punto di vista dell’efficienza.
Nell’addestramento formale c’è un metodo e uno scopo.
Lo scopo può essere condivisibile o no.
Io non lo condivido, quindi per la mia etica è uno scopo sbagliato, per altri può essere giusto.
Ha senso domandarsi se il metodo sia giusto o sbagliato?
Sì, ma non in assoluto; il metodo può essere giusto o sbagliato rispetto allo scopo e/o rispetto ad altri effetti “collaterali”, tipo modifica della personalità, condizionamento sull’ambiente sociale, bisogno del sottomesso di “rifarsi” sottomettendo qualcun altro…
Io direi che quel metodo è giusto rispetto a quello scopo principale (obbedienza immediata) e chi lo apprezza probabilmente apprezza anche i suoi effetti collaterali.
Per me invece non avrebbe senso affermare che quel metodo di per sè sia giusto o sbagliato.
Feyerabend ha fatto benissimo a criticare il culto del metodo nel suo libro “Contro il metodo”, ma credo che neanche lui condividerebbe una avversione per ogni metodo.
Credere che chiunque abbia già dentro di se tutte le risorse metodologiche mi sembra una fanatica negazione di ogni progresso culturale.
geri
“Se sbattere contro chi si fa male è un fesso è traumatico, una volta recuperato se stessi ne implica la condivisione.”In dialetto veneto e dintorni, si teorizza con “a tuti capita el colpo del mona”…la mossa o la giornata in cui si commettono involontarie “corbellerie”…meglio avere qualcuno che te le fa notare con stile…un amico o dal tratto amichevole . Ripensando a squallide lezioni di educazione fisica alla scuola media ed al liceo, venivo stigmatizzato come il secchione incapace( salto della cavallina, salita alla fune e pertica con le scarpe a suola di cuoio ,mezz’ora di marcia , allineamento cadenza, passo) , Poi un giorno Qualcuno mi fece una rivelazione “gran parte degli ufficiali del ventennio, si riciclarono grazie legge ad hoc, come insegnanti di educazione fisica”. Allora compresi! Erano proprio ex riciclati e alcuni pure ostentanti simboli .