Negli anni 2002 e 2003 diedi vita a un gruppo che, popolato da individui che in qualche modo pensavo potessero avere voce in capitolo, avevo invitato ad esserne partecipi. Prima che nascesse facebook (4 febbraio 2004), proprio mentre anche i primi blog (apparsi in Italia nel 1999) cominciavano ad avere fortuna, e ben lungi dall’immaginare che avrei fatto nascere GognaBlog dieci anni dopo, l’idea di scambiarsi idee e commenti tramite macchinose mail circolari fu certamente nuova.
Conservo in archivio l’intero “pubblicato” di tutti i partecipanti (circa una trentina di persone). Oggi, conscio dell’importanza dell’essere sempre propositivi, non avrei scelto di chiamare il gruppo con questo nome: probabilmente opterei per “Altrascuola”.
Controscuola
(2002-2003)
Era nato dunque Controscuola, un movimento per riproporre la centralità del «sentire» e della «relazione» nella pratica della montagna.
Controscuola proponeva un tema così vitale per la frequentazione della montagna e in generale di ogni ambiente da richiedere approfondimenti pressoché inesauribili, con l’assunto di base che «agire in sicurezza dipende dalla profondità della relazione tra se stessi e l’ambiente».
Ben presto mi avvidi che il dibattito stava scadendo, come tutte le discussioni volutamente senza una regia o un moderatore: spesso si toccò il vituperio. Decisi che non era il caso di proseguire, così tolsi la corrente dopo un tredici-quattordici mesi.
Ho scelto qui di riprodurre, tra le decine di interventi del periodo migliore, qualche pensiero di Franco Michieli e di Lorenzo Merlo, nonché qualcuno mio.
«Capita a tutti noi, al momento di partire per una facile escursione come per una ascensione impegnativa, di domandarci che cosa ci occorra per vivere al meglio l’esperienza. Spontaneamente, o con un certo sforzo mentale, ci elenchiamo il materiale necessario, pensiamo se possediamo sufficienti informazioni, ci facciamo un’idea di quale tipo di impegno ci aspetti. Per qualcuno è essenziale anche cogliere il proprio grado di sintonia, quel giorno, con quello che si propone di fare: quanti di noi si pongono la domanda, siamo in relazione, oppure distratti, rispetto all’ambiente in cui vogliamo inoltrarci? (Merlo)».
«Ci vado per ri-creare o per imitare, per sentimento o per valori che mi sono estranei? (Gogna)».
«Il quesito è fondamentale, non solo in montagna, ma in qualsiasi situazione quotidiana. Se infatti consideriamo in quali condizioni ambientali nei passati milioni di anni l’essere umano e i suoi antenati hanno sviluppato le proprie attitudini a muoversi sul territorio, a trarne sostentamento, a difendersi dalle insidie, è facile intuire come proprio la capacità di aderire adeguatamente alla realtà con le modalità del proprio agire sia stata alla base della vita. In quelle epoche non c’erano attrezzature sofisticate in vendita, istruzioni scritte su come agire, agenzie di servizi. Perciò l’evoluzione naturale ci ha dotati della facoltà di entrare personalmente in relazione con l’ambiente e con la nostra condizione globale, nonché di utilizzare i materiali a nostra disposizione, per creare, dirigere e organizzare i gesti in modo idoneo al contesto e allo scopo e non avventato. Tuttavia i rapidissimi cambiamenti nelle condizioni di vita della società moderna tendono ad assopire questo atteggiamento Animale, Naturale, Vitale, che ci ha sempre fatto da guida, e che oggi non è meno necessario che in passato (Michieli)».
«È stato Alessandro a proporre il nome Controscuola, traendo spunto da un sottotitolo da me usato per descrivere la mia attività di guida alpina, cioè Controscuola di alpinismo; l’ho chiamata così perché promuovo un lavoro centrato più sulla relazione con se stessi e col terreno che non sull’apprendimento puro della tecnica. Mi spiego meglio con un esempio estraneo al campo della montagna: la massaia che prepara la pastasciutta non si scotta, perché in quel momento è «in relazione» con la sua cucina, sa come muoversi senza bisogno di leggere istruzioni; se si scotta, qualche elemento – esterno o interno – è intervenuto in lei, probabilmente per un momento ha «perso la relazione», magari perché ha portato all’orecchio il telefono che squillava, oppure è stata distratta da una preoccupazione. Quello che si vorrebbe valorizzare è dunque una prospettiva che tutti noi usiamo comunemente nella vita, che c’è già in noi, e che tuttavia sempre più spesso siamo indotti a scordare spinti verso atteggiamenti prestazionali. Per esempio, oggi è normale parlare di sport anche se il terreno non è un anello di atletica o non ha quattro righe e una rete. Ciò alimenta una tendenza a concepire la natura stessa come un campo sportivo, alimenta una concezione della stima di se stessi prevalentemente riposta nel risultato, nella «catena di sosta» (arrampicata), nella vetta (alpinismo e alpinismo commerciale), nell’edonismo (fuoripista inconsapevole): con ciò non riconoscendo la nostra autenticità, esclusività, forza, bellezza, libertà quali nucleo irriducibile per la realizzazione di ogni uomo. Una dimenticanza che lascia spazio ad una fiducia totalizzante nell’attrezzatura, nelle descrizioni scritte dei percorsi, nelle regole generali di comportamento e nei vari decaloghi. Quando ci affidiamo prevalentemente a queste cose, non ci accorgiamo di cosa sta avvenendo realmente a noi e all’ambiente, ed è più probabile non accedere al controllo della situazione (Merlo)».
«Certo, l’atteggiamento della relazione c’è sempre stato, più o meno apprezzato in epoche alterne. Tuttavia bisogna ammettere che oggi averne coscienza è particolarmente difficile, perché siamo soggetti ad abitudini opposte. Per questo trovo giusto dedicare tempo ed energie all’argomento. In particolare, mi sembra che una delle cause scatenanti del problema sia l’idea diffusa che pensare e sentire siano la stessa cosa. Cioè, ad esempio, capita di studiare bene a tavolino un itinerario e di credersi con ciò nella giusta condizione, mentre è più importante sentire, una volta sul posto, se veramente noi siamo in sintonia col terreno che ci circonda. Se siamo capaci di sentire, sappiamo cosa fare molto meglio che ascoltando le parole di un istruttore (Gogna)».
«Non vorrei che qualcuno ci fraintendesse; il nostro obiettivo non è quello di abolire tecnologia, descrizioni di itinerari e strumenti, ma di recuperare una dimensione umana occultata dalla fede cieca in questi mezzi. Se si afferma la coscienza che la migliore sicurezza sta nell’essere sempre in relazione col divenire dell’ambiente e di se stessi, anche il giorno in cui dimenticheremo a casa la bussola o l’orologio non sarà un dramma, sapremo comunque cosa fare, incluso il tornare a casa senza frustrazione. E così avremmo a disposizione forze creative per gestire inconvenienti ed imprevisti, evitando con più facilità imprudenze anche se l’evoluzione reale del tempo si rivelerà assai diversa dalle previsioni meteo del giorno prima (Merlo)».
«Dobbiamo anche sottolineare che la capacità di relazione di cui stiamo parlando è qualcosa che non si può acquisire in modo definitivo, per tutti è qualcosa di variabile, è l’oggetto di una continua ricerca (Michieli)».
«Anzi, spesso capita la giornata in cui ci si sente estranei all’ambiente, alla salita. Quello che non bisogna perdere, è la coscienza di come ci si sente: non sono in sintonia? E allora per oggi torno a casa, o scelgo una meta molto semplice. Se invece ignoro questa coscienza e continuo a pensare razionalisticamente alla meta prefissata e persevero, alzo di molto il rischio cui mi espongo. Nel mio caso, considero il fondamentalismo per il pensiero razionale come la maggiore causa di distrazione dalla realtà (Gogna)».
«Penso che tutti abbiamo sperimentato il fatto che incidenti anche minimi, come inciampare sul sentiero, avvengono proprio nell’attimo della distrazione, e non hanno nulla a che vedere con la perfezione dei materiali che abbiamo con noi. Tuttavia la fede in questi ultimi rappresenta oggi la tendenza che ci influenza più o meno tutti. È quindi fondamentale ricordare che la Relazione tra se stessi e l’ambiente è crescita della persona e della cultura che questa tramanderà, non dell’attività che questa fa. Tanto che si può anche dire oggi sento che non è giornata per… (Merlo)».
4
Nello strettoambito della mia mia esperienza..nei corsi a pagamento..la si tira sempre per le lunghe centellinando e ricamando , se invece si è amici di maestri o istruttori o gia’scafati , poche dritte in corso d’opera e si impara subito.Il meglio e’ il baratto..tipo tu mi istruisci nello sci fondo( alpino..arrampicata), io ti sgrezzo un figlio in…(matematica, tedesco..ragioneria..ecc.)oppure ti piastrello il bagno..ecc.
N.5.In effetti, basandomi su ricordi lontani, i momenti piu’ intensi di attivita’ in ambiente montano ma anche lavorativo sono legati alla fase iniziale, con tecnica e materiali non perfetti, ma tanti compagni e situazioni coinvolgenti.Poi diventati esperti ( o meglio assuefatti, allenati)si perde ilsenso di meraviglia.Ancora ricordo un giovanissimo che mi dette alcune dritte:il lacciolo del bastoncino da fondo si posiziona cosi’..si usa questo tipo di scioline e non le altre, ma poi si andava in gruppo anche cadendo chi piu’ chi meno.Anzi avere neofiti da coinvolgere e far entrare nella magia divenne piu’ divertente che andare tra affiatati.
C’è un film divertente con Danny De Vito: “Un professore tra i marines”. Nella sua prima lezione lavora su consapevolezza e motivazione. Fa svolgere per cinque volte di fila il tema “ Perché mi sono arruolato nei marines”. Nella prima versione del tema tutti rispondono “per servire la patria” . Nella quinta versione scrivono : “perché mi piace sparare alle persone” e cose simili. Da qui si parte quando metti un fucile in mano ad una persona. Sarebbe interessante fare la stessa cosa per chi va in montagna prima di insegnargli come si fa sicura al compagno o mettergli in mano una picozza.
Veramente un bel tema.
Coraggioso e profondo è dir poco ma amo la sintesi e come conseguenza più scrivo più devo poi adoperarmi per farmi comprendere.
Leggere cose che senti dentro di te e ti appartengono fa piacere ritrovarle tra le righe delle varie opinioni.
Un ritorno e approccio verso l ‘istinto-estinto ( quasi ) farebbe certamente calare incidenti di percorso indotti da troppi elementi materiali tecnico cognitivo e pochissimo lavoro su sè stessi.
Standardizzare e tutorializzare è un modo sterile di insegnare qualsiasi cosa,ogni persona ha un suo percorso unico e singolare tanto più quando nel distacco parziale dalle abituali forme del vivere si ritrova ad affrontare se stesso senza schermi o protezioni preconfezionate.
E bello che in un epoca dei super accessori si proponga una chiave di insegnamento controcorrente Zen.
Se la persona è al centro il tempo non è un problema. Lo diviene sostituendola con lo scopo, il successo, l’esaurimento di un programma (per sua ontologia, meccanicistico).
Non erano infatti Corsi, che presumono l’esauriemento di qualcosa di prefissato. Erano chiamati Incontri o Periodi dedicati al fuoripista, alla roccia, eccetera.
Nel tempo disponibile, ognuno aveva modo di percorrere la sua miglior progressione sul tema in questione.
La curva evolutiva più veloce è quella idonea alla persona ed è anche la più rapida.
Arioti. C’è la variabile tempo che impedisce un approccio basato sull’ascolto ma non è solo questo. Ascoltare vuol dire esporsi al rischio del “contagio” e della sua gestione. Molti educatori/formatori si illudono di evitare i pericoli mantenendosi sulla superficie dell’addestramento. Questo può valere per abilità molto specifiche ma appena si affrontano competenze più complesse devi necessariamente mettere le mani dentro la soggettività dell’interlocutore. E questo può fare paura, soprattutto se non hai messo le mani sulla tua di soggettività. Da qui la pratica consolidata della supervisione.
Lorenzo, mi sono espresso male.
Non intendevo dire che le tue siano mere teorie prive di fondamento pratico ma semplicemente che il contesto contribuisce a tracciare una linea di demarcazione fra la teoria e la sua applicazione pratica.
Quanto accennato non è che la descrizione essenziale di una pratica messa in atto per più attività didattiche psicomotorie e non solo. Con considerevole soddisfazione delle persone che se la sono trovata tra capo e collo.
Non sono la descrizione di una teoria.
Il punto di origine di questa modalità è di tipo olistico. Ma volendo stringere – con tutto ciò che ne soffre, ma anche che contiene – di ascolto.
Lungi da me il contestare ciò che dice Lorenzo, anche perché in linea di massima lo condivido, ma il problema è che le cose sono molto complicate e dalla teoria alla pratica ci passa molta acqua.
Anche un grande maestro può arrivare a dire al discente “non ho tempo per la tua logica, fa ciò che ti ho detto e basta”, perché il contesto fa la differenza.
E’ altrettanto vero che il contesto ce lo creiamo in gran parte noi ma quel “noi” è molto difficile da definire ed interpretare. “Noi” ci troviamo “lì” ed è in quel “lì”, che magari non abbiamo nemmeno contribuito a creare in quanto retaggio di un passato prenatale, che dobbiamo operare, fare delle scelte, prendere delle decisioni.
Su tutto questo poi incombe il tempo, variabile non da poco.
Dimenticato2.
Non sussiste quindi più alcuna formula didattica preconfezionata da proporre a tutti in medesimo modo e modalità.
Non esiste più “non capisci niente”, “te l’ho detto già mille volte”, guarda i tuoi compagni”, “sei nagato”. Queste espressioni se pronunciate con convinzione divengono evidenze del modesto gradiente di idoneità didattida del “docente”.
Inversamente, quando il “discente” esprime di non aver inteso la consegna, sarà il “docente” ad andare alla ricerca di cosa-come-perché il messaggio non ha prodotto il risultato auspicato e, contemporaneamente, a ricercare in sé nuove espressioni, tempi e linguaggio per riprorre la consegna.
La rappresentazione grafica della didattica meccanicistica è una freccia che corre dal docente verso il discente.
Quella di una didattica relazionale è un cerchio rotante tra docente e discente. Dove il docente, assume le migliori informazioni per formulare la propria didattica proprio dal discente.
Quando nella relazione (in campo educativo ma non solo) si strofina la lampada non sai mai cosa viene fuori. Già è difficile di persona e richiede una certa pratica e formazione anche su di se’, virtualmente poi è un 8a bagnato e strapiombante e infatti molti volano e ci sono un sacco di danni collaterali, come vediamo ogni giorno sui social. È una sfida faticosa e parecchie persone, che pure avrebbero molto da offrire, hanno iniziato a desistere, almeno dal virtuale.
Dimeticato. Sottrarre dal centro la tecnica da “trasmettere” e porvi la persona interessata è sottrarre l’ego del “maestro” in questione e porvi la concezione del mondo dell’altro. Tutta da scoprire attraverso l’astensione dal giudizio e l’ascolto in essere nel “docente”. Ne viene che ogni espressione del “discente” é verità di riferimento per modulare il proprio linguaggio, il tempo e il modo. Il rischio di entrare in contatto “spirituale” tra le parti si alza.
Interessante che già nel 2003, agli albori dei social, la corrente fu tolta per il deterioramento del confronto e il vituperio emergente. E si trattava di 20 persone, immagino scelte e con relazioni di conoscenza diretta tra loro. A proposito di polarizzazione e di attivazione di tendenze oppositive della personalità.
6) D’accordissimo.
Pensieri molto interessanti (commenti di Merlo compresi) che chiariscono quanto già accennato in alcuni commenti a “Al soccorso! Anzi no!”.
Molto bello, grazie per la pubblicazione.
Su una cosa, tuttavia, non sono affatto d’accordo.
“Ogni volta che ti trovi dalla parte della maggioranza è tempo di fermarti a riflettere”.
Per me è sempre tempo di riflettere. Essere dalla parte della c.d. maggioranza oppure no lo trovo totalmente incidentale (e del tutto irrilevante).
Altrimenti si rischia di considerare giusta qualunque cosa purchè sia contro, e per me questo è altrettanto tossico.
Guardare sempre con sospetto ciò che soddisfa i nostri pregiudizi.
2°
Chi rientrava in sé e diveniva corpo, cioè si liberava dall’idea che aveva di sé, dai timori ad essa coniugati, dai confronti con gli altri o il proprio mito, dalla vanità di cui non era fino a quel momento consapevole e dall’identificazione della realtà con ciò che pensava, invece che con ciò che sentiva, certamente si avviava a trovare la sua linea personale di evoluzione, di scoperta di un sé che pareva già sapesse fare ciò che credeva di dover apprendere.
Attraverso il sentire – dimensione nuova per la maggior parte delle persone, non presente nella nostra cultura – scopriva come realizzare l´opportuno gesto per ogni attività dell´alpinismo. Ricreava la tecnica a sua misura psicomotoria.
Essere sé secondo quanto si sente è il contraltare dell’essere io secondo quanto si crede. Permette di muoversi in modo idoneo a sé, al gruppo, all’ambiente. Permette di realizzare la miglior sicurezza. Significa emancipazione dal conosciuto.
Controscuola era dunque un momento evolutivo della persona, che poi imparasse il fuoripista, a scalare il ghiaccio o la roccia, diveniva del tutto di portata inferiore.
1°”Controscuola” è una formula che alludeva ad una critica sia didattica che formativo-culturale.Tra le Guide, ma non solo, ordinariamente si impiegava la dimostrazione e la valutazione come elementi centrali della didattica. Chi meglio realizzava un´imitazione del maestro otteneva una buona valutazione. C’era anche la descrizione del gesto da compiere e la sua scomposizione dei momenti successivi che realizzavano la prassia.
La tecnica era al centro del processo didattico. Non a caso al tempo tecnica e didattica erano un binomio solido che implicava l’esaurimento della didattica nella comunicazione/dimostrazione della tecnica.
Era una modalità a sfondo meccanicistico. Ovvero sostanzialmente proposta identicamente a tutti. In essa vi era nascosta la falsità che il maestro detenesse la verità e l’allievo la dovesse riconoscere e fare sua.
La linea didattica di Controscuola era maieutico-ricreativa. Non era centrata sulla tecnica, e la descrizione, come la dimostrazione non erano elementi centrali della relazione didattica. Tutto era invece riferito alla persona, alla sua motivazione, alla sua paura, distrazione o intento.
@albert commento numero 2: veramente interessante e condivisibile.
https://www.ilgazzettino.it/nordest/udine/morto_alpinista_giovanni_anziutti_forni_di_sopra-6211560.html
si possono avere tutti gli OTTO o altri discensori piu’ moderni..ma la storia si ripete :il punto debole è sempre quello..si e’ in balia dell’ancoraggio… la cui consistenza dipende dalla valutazione e sensibilita” individuale al”particolare “.La CONTROSCUOLA Insegna ancora a scendere in disarrampicata? EPPURE OCCORRE UNA PARTICOLARE SENSIBILITA’PSICOFISICA. Sul web innumerevoli corsi filmati a puntate di salita in parete o palestre ma pochissimi su arrampicata in discesa.Pare sia obbligatoria la corda doppia anche su grado facile.
Piu’che contro-scuola userei altra-scuola.Ogni insegnamento parte da obiettivi di base , poi passa a semplici esercizi ripetitivi, ( le fasi piu’ noiose che i “contro “vorrebbero evitare e saltare a pie’pari)fino ad affrontare problemi complessi teorici e applicativi in palestre o terreno vero e diverse condizioni ambientali..il top e’ valutare tra varie situazioni e compiere le scelte ottimali..la ricerca A volte un metodo dipende anche dal tempo a disposizione ..progressione didattico addestrativa per piccole tappe o alla svelta con stile autoritario e selezione che scarta gli inadatti .E’vero che “tutti abbiamo sperimentato il fatto che incidenti anche minimi, come inciampare sul sentiero, avvengono proprio nell’attimo della distrazione, e non hanno nulla a che vedere con la perfezione dei materiali che abbiamo con noi..”cio’ che ci dicono essere necessario non sempre e’ sufficiente , a volte addirittura fornisce inganno e falsa sicumera, c’e’sempre un “quid”di indeterminato.. c’e’ chi lo coglie prima e chi ne rimane vittima.Per questo aiuta molto il racconto,la relazione..domenica scorsa mentre giovani in tuta stretch e scarpette slick provavano una nuova palestra climb indoor, fuori tra pensionati , davanti ad un piccolo museo open air di atrezzature d’antan(ovvero le momentaneamente piu’aggiornate che ci comprammo svenandoci decenni fa)ci si raccontavano le vicende storte, da cui siera usciti con colpi di improvvisazione adattativa o imponderabile fortuna .Penso ci siamo divertiti piu’noi che gli atleti imbiancati di magnesite.