Coronavirus tra bias cognitivi e narrazione del rischio

Coronavirus tra bias cognitivi e narrazione del rischio
(I princìpi che alterano il percepito)
di Marianna Moni
(pubblicato su rbhq.it il 27 febbraio 2020)

Alle prime voci sul Coronavirus in molti hanno fatto spallucce. Succede. A volte nel mondo le persone si ammalano e muoiono e ciò che abbiamo interiorizzato (e implicitamente accettato) in secoli di evoluzione è che alla fine non ci possiamo fare poi molto.

Ma se riusciamo ad accettare che HIV e Malaria causino rispettivamente 530.000 e 680.000 morti l’anno in qualche zona sperduta dell’Africa, o che in Cina si perda qualche vita a causa di una nuova influenza, la situazione cambia quando questi fenomeni acquisiscono tutte quelle caratteristiche che ci permettono di riconoscere un rischio prossimo e concreto (indipendentemente dall’effettiva concretezza del rischio).

Ma quali sono le caratteristiche e gli elementi che trasformano un pericolo di media entità in una vera e propria narrazione del rischio?

Allarmismo evolutivo: così ricordiamo per evolvere
Per comprendere come si innesca e si amplifica la percezione del rischio e quanto potere possa avere una singola informazione, dobbiamo innanzitutto considerare la nostra naturale predisposizione a ricordare eventi spiacevoli e informazioni negative.

La ricerca ha infatti dimostrato che la razza umana si è evolutae continua ad apprendere proprio grazie a questo genere di esperienze e, nonostante la nostra condizione attuale non sia minimamente paragonabile a quella dei nostri antenati primitivi, la nostra amigdala (la regione del cervello che regola emozioni e motivazione) continua ad impiegare 2/3 dei suoi neuroni soltanto per rilevare quello che percepiamo come pericolo.

A conti fatti, essere allarmisti è quindi nella nostra natura.

Nell’esigenza, o meglio, nell’urgenza di prendere la decisione più conservativa possibile, il cervello tenderà a cercare punti di riferimento o esempi rappresentativi della conseguenza temuta; generando quelle scorciatoie di ragionamento che ci rendono i peggiori nemici di noi stessi: i bias (termine di etimologia incerta che indica un errore sistematico in varie discipline, NdR) e le euristiche (si definisce procedimento euristico un metodo di approccio alla soluzione dei problemi che non segue un chiaro percorso, ma che si affida all’intuito e allo stato temporaneo delle circostanze, al fine di generare nuova conoscenza, NdR).

Il Framing, attraverso cui il cervello bypassa la contestualizzazione adeguata
Primi tra i bias responsabili di una percezione distorta del rischio, sono senza dubbio le meccaniche di framing, che includono un’ampia serie di meccanismi con cui il nostro cervello bypassa la mancanza di una contestualizzazione adeguata, adattando l’informazione disponibile a uno schema interpretativo parziale e costruito a priori.

Al momento della scelta, la nostra attenzione verrà immediatamente catturata da dati e testimonianze che riportano le peggiori tra le conseguenze possibili, ignorando l’informazione complementare. Una meccanica che ci porterà a scegliere uno yogurt che ci promette il 20% di frutta fresca, ignorando il concentrato che, molto probabilmente, costituisce un abbondante 50% di prodotto. Non un gran problema finché si tratta della nostra colazione, ma decisamente più grave quando, durante un’epidemia, un 2% di morti ci porta a ignorare il 98% che è sopravvissuto.

Il risultato è sempre 100% di prodotto, ma uno vende più dell’altro
Parlare di superstiti rincuora, parlare di morti mette in allarme. Cosa scegliamo?

A contribuire all’allarmismo, è anche l’estrema difficoltà con cui il nostro cervello elabora informazioni molto complesse. Non essendo in grado di reperire e analizzare adeguatamente tutte le notizie e i dati disponibili, tendiamo a costruire schemi logici artificiali che includono solo le informazioni che ci consentono di sviluppare modelli rappresentativi della realtà.

Bias ed euristiche di rappresentatività sono alla base del processo logico che ci porta ad associare cattivo odore e colore verdastro a cibi che non dobbiamo mangiare, facendoci storcere il naso la prima volta che ci offrono del Gorgonzola.

Lo stesso meccanismo di difesa si applica nei rapporti sociali, portandoci a ricordare un attentato terroristico quando sentiamo un uomo parlare arabo, ad associare criminalità e maleducazione ad alcuni accenti del sud Italia o a ricordare pessime esperienze personali quando conosciamo una donna; generando fenomeni quali razzismo, discriminazione e costruzione di stereotipi.

Durante una situazione di instabilità, in cui le informazioni sono in costante smentita e aggiornamento, molte di queste vengono ignorate o scambiate per fake news perché associate a un partito politico o a un’ideologia che non condividiamo.

La narrazione del rischio e il rischio percepito
Con i primi focolai europei del virus è scattata la corsa alle mascherine e ai gel igienizzanti. Intere città si sono mobilitate per arginare il contagio con restrizioni e provvedimenti ben oltre le aspettative, immediatamente attuati e recepiti dalla collettività.  Nonostante i disagi, il coprifuoco e le perdite subite da ristoratori e commercianti, in molti sospirano rassegnati. Passerà, si dicono. Del resto, come si può non collaborare quando in gioco c’è la vita delle persone?

Ma facciamo un passo indietro, di cosa ci stavamo preoccupando prima che iniziasse questo prequel di 28 Giorni Dopo?

Secondo il Climate Index Risk negli ultimi 20 anni le conseguenze del cambiamento climatico hanno causato 500.000 vittime nel mondo.

L’OMS stima che tra il 2030 e il 2050 la crisi ambientale alzerà la quota a oltre 250.000 ogni anno. Nei grandi centri urbani gli effetti sulla salute sono già evidenti e le previsioni economiche ci suggeriscono che non ne sta nemmeno valendo troppo la pena.

Eppure, i giornali non stanno tenendo il conto dei morti per tumore o crisi respiratoria, nessuno ha chiuso in casa i figli per proteggerli dalle polveri sottili e sono ben poche le aziende che si sono concretamente attivate per ridurre l’utilizzo di plastica e prodotti chimici.

I dati non mentono e le fonti si mostrano altrettanto attendibili. Non si tratta anche in questo caso di vite umane?

Il parallelismo tra Coronavirus ed emergenza climatica è l’esempio perfetto di come la percezione del rischio non varia solo in relazione a percentuali e opinioni autorevoli, ma si basi su tutta una serie di elementi che ne costituiscono una narrazione più o meno efficace.

Complessità e Archetipi: come scegliamo il male minore?
L’estrema complessità della realtà che ci circonda, unita all’ancestrale necessità di imparare tutto ciò che può permetterci di sopravvivere, ci ha portato ad adottare un approccio euristico anche nel tramandare le conoscenze acquisite. Ancor prima di sviluppare un linguaggio complesso, abbiamo iniziato a costruire storie, semplificando le nostre esperienze in modelli che potessero essere facilmente ricordati e riconosciuti, distinguendo il bene dal male, la vittima dal carnefice e l’utile dal pericolo.

L’evoluzione di questi princìpi, ci porta ancora oggi a incasellare ogni nuova informazione in un archetipo. Un processo spesso inconscio ma completamente interiorizzato dalla società e applicato quotidianamente.

Ed ecco la prima differenza fra le due catastrofi: l’antagonista.
Per poter mettere in atto il nostro Viaggio dell’Eroe, abbiamo bisogno di qualcosa, o qualcuno, contro cui combattere: un nemico che muova la corsa agli armamenti.

La notizia del primo focolaio a Wuhan ci ha permesso di identificare fin da subito la popolazione cinese come “nemico da sorvegliare” e, in seguito alla diffusione, da isolare e sconfiggere. Il virus è il male e la necessità è difendersi. Nella complessità, tutto ciò che tossisce e ha gli occhi a mandorla è simile a ciò che abbiamo categorizzato come pericoloso.

La minaccia climatica non ci ha offerto la stessa opportunità. Non rientra in nessun archetipo e, anzi, forza i nostri schemi costringendoci a valutare l’idea di essere noi stessi gli antagonisti che stiamo cercando. Un’ipotesi che non siamo biologicamente programmati ad accettare.

Questo stesso principio si applica a gran parte delle scelte che affrontiamo ogni giorno, anche a quelle apparentemente banali. Quando scegliamo un prodotto light, ad esempio, grassi e zuccheri sono il nostro antagonista poiché richiamano tutti quei cibi riconosciuti come “dannosi per il nostro corpo”, in cui questi due valori sono notoriamente molto alti. Un’euristica che esclude completamente le altre informazioni disponibili, come la necessità fisiologica di assumere quotidianamente anche questi nutrienti o la presenza quasi certa di dolcificanti artificiali sostitutivi, spesso sconsigliati da medici e dietologi.

Tempo e spazio: identificare gravità e posizione della minaccia, al fine di stabilire priorità
Nella narrazione del rischio, tempo e spazio assumono un ruolo chiave. Identificando gravità e posizione della minaccia, il nostro cervello ha la possibilità di stabilire una priorità, portandoci a concentrare sforzi e risorse contro quello che possiamo definire “il leone più vicino”.

Si tratta sempre di un leone, ma lo riteniamo pericoloso solo quando è vicino

Ed ecco come l’epidemia, localizzata in specifici luoghi (città, ospedali, navi in quarantena…) e visibile negli effetti, annebbia completamente la problematica del cambiamento climatico, che ci appare come un’ipotesi vaga e lontana. Un leone affamato che probabilmente si sta già nutrendo altrove e che potremmo non vedere mai. Qualcosa da considerare ma di cui non sentiamo di doverci davvero preoccupare.

Allo stesso modo, eccoci portare le buste della spesa da casa per non sprecare plastica ma scegliere comunque i taralli monodose da portare in ufficio perché “Alle 11 di mattina ho sempre fame e sono troppo comodi”. La fame, la mancanza di tempo e il poco spazio nella borsa sono problemi concreti e quotidiani. Stanno per ripresentarsi e dobbiamo occuparcene subito. Nemmeno sappiamo dove finirà la bustina di plastica che lasciamo nel cestino dell’ufficio. Come può essere una priorità?

Questa percezione di imminenza dimostra come nello scindere problema ed emergenza sia altrettanto cruciale la scala temporale che siamo in grado di percepire.

Si parla di cambiamento climatico da almeno 50 anni, ma gli effetti che siamo stati in grado di vedere personalmente sono di fatto lievi e limitati. Questo perché la Terra ha 4,5 miliardi di anni e la degenerazione si colloca su una scala temporale estremamente più ampia rispetto a quella della vita umana. Il virus è stato riconosciuto e si è diffuso in meno di un mese, collocandosi all’interno di una scala temporale per noi ragionevole e comprensibile.

Le parole della paura: le registriamo per euristica, noncuranti del campo semantico
Nel costruire la narrazione di crimini e disastri, esperti e media vengono spesso accusati di sensazionalismo.

Il fatto che il dramma faccia vendere più copie è certamente un dato, ma ciò che è davvero interessante è il modo in cui anche le parole che usiamo vengano registrate per euristica.

Nel tentativo di descrivere al meglio la realtà, tendiamo ad apprendere le parole lungo una “scala di gravità” che, in questo caso, vede susseguirsi: viruscontagio – malattia – epidemia – pandemia. Nonostante l’apparente logica di questa sequenza, la sua applicazione può avere un risultato piuttosto deviante. Virus, contagio ed epidemia, ad esempio, appartengono a campi semantici completamente diversi e perfettamente in grado di coesistere, ma la narrazione di una “rapida diffusione del virus” non toccherà mai le stesse corde che tocca la parola “epidemia”, nonostante l’una sia, di fatto, la definizione dell’altra.

Secondo la logica della mera esposizione, la ripetizione costante di determinate parole o costruzioni verbali, contribuisce a innalzare il livello di rischio percepito, scatenando la corsa alle mascherine e ai gel igienizzanti. Una logica che ha portato gli ambientalisti a sostituire l’espressione “cambiamento climatico” con “emergenza climatica”, per evitare che la parola “cambiamento” sminuisse la gravità della situazione.
Magari non lo avevate notato, ma il vostro cervello lo ha fatto…

Sforzo e Lieto fine: come definiamo le nostre priorità in base al reward
Come molti scienziati e psicologi affermano: l’essere umano non fa nulla se non ottiene nulla. Abbiamo il bisogno di percepire le nostre azioni come concrete e in grado di restituire, a noi o ai nostri cari, qualcosa di utile, in modo che il nostro tempo sia stato impiegato al meglio. Quando scegliamo o rinunciamo a qualcosa ci aspettiamo che ne sia valsa la pena, un princìpio ben noto a quelle aziende che hanno dovuto affrontare il fallimento a causa dell’insoddisfazione dei loro clienti.

Contribuire a combattere il contagio prevede uno sforzo relativamente limitato. Nessuno considera di doversi rinchiudere in casa per più di qualche settimana e indossare una mascherina e lavare le mani è ben poca cosa rispetto alle rinunce, probabilmente eterne, che richiederebbe la lotta all’emergenza climatica.

Nel primo caso, inoltre, lo sforzo promette un reward praticamente immediato. Nell’annullare un viaggio o tenere i bambini a casa, ci sentiamo protettivi e intelligenti, è un sacrificio necessario, e quando sarà finita potremo festeggiare e tornare alla normalità. È praticamente una certezza.

A parità di rischio percepito, la possibilità e la vicinanza di un lieto fine definirà la priorità.

È per questo motivo che le strategie di coinvolgimento più efficaci sono quelle che riescono a esprimere il fine ultimo attraverso una serie di piccoli traguardi. Una teoria che trova applicazione immediata in tutti quei buoni propositi che sono soliti fiorire tra il 30 e il 31 dicembre per poi spegnersi come un cerino tra il 9 e il 10 gennaio. È quasi impossibile modificare a tavolino uno stile di vita. Ciò che invece prevede uno sforzo contenuto e un reward a breve termine è fissare degli obiettivi periodici. Una teoria applicata non solo nel quotidiano ma anche in molte teorie di management, come l’approccio Agile o la definizione degli Objective & Key Results (OKRs).

Marianna Moni

FOMO e Bisogno di Dramma: una combinazione esplosiva
Ultimo, ma non per importanza, è un aspetto molto caro soprattutto a noi italiani: il dramma.

Abituati a percepire la quotidianità come stantia e noiosa, disprezzando parole come routine e abitudine, tutto ciò che è nuovo, scandaloso e (possibilmente) pruriginoso, attira subito la nostra attenzione. Nel timore di poterci perdere qualcosa di importantissimo e di cui si parlerà a lungo ritrovandoci, quindi, esclusi durante una conversazione (FOMO: Fear of Missing Out), seguiamo ossessivamente i notiziari e gli aggiornamenti online.

La possibilità di poter dire la nostra e criticare “quegli incompetenti che avrebbero dovuto fare così e che non sono come noi che invece abbiamo capito tutto” è uno dei princìpi base su cui costruiamo, e delimitiamo, le nostre cerchie sociali e su cui poggiano gran parte delle meccaniche di narrazione e intrattenimento. Sfidiamo gli amici nello sport e nel gioco per rafforzare il nostro ruolo nel gruppo e per poterlo raccontare, spendiamo ore in pettegolezzi per costruire un rapporto di vicinanza con chi condivide la nostra opinione e ne alimentiamo la narrazione per rendere la quotidianità più emozionante.

Oltre a farci sentire compresi e accettati socialmente, la condivisione di emozioni e paure permette di memorizzare meglio un evento, pur deformandolo se raccontato più volte.

Tutti questi elementi, che costituiscono, in realtà, solo lo scheletro della narrazione del rischio, ci mostrano l’estrema complessità che presenta la comunicazione di un evento e l’interpretazione della percezione umana.

Una rete di intuizioni e meccanismi inconsci che agiscono sulle opinioni e, soprattutto, sulle azioni degli individui. Informazioni preziosissime per brand e aziende che si propongono sul mercato e che dimostrano come pensare di non rappresentare un rischio per il consumatore sia certamente il primo e peggiore degli errori.

In una situazione di apparente emergenza sociale, in cui decreti e restrizioni limitano la nostra libertà di scelta e raccontano il dramma dell’inefficienza sanitaria e amministrativa, la vera leva per la sopravvivenza di un’azienda non sono i kit sanitari ma l’osservazione.

Marianna Moni

Marianna Moni, strategist e copywriter. Certified Facilitator in LEGO Serious Play Method. Dopo 3 anni di formazione e numerose esperienze come mediatrice linguistica, si specializza in Brand Management presso il Politecnico di Milano
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Coronavirus tra bias cognitivi e narrazione del rischio ultima modifica: 2020-04-03T04:00:44+02:00 da Totem&Tabù

24 pensieri su “Coronavirus tra bias cognitivi e narrazione del rischio”

  1. Matteo, mi trovi d’accordo su quanto hai scritto per Roberto.
    E dunque potrai convenire sul fatto che i numeri forniti lasciano il tempo che trovano. I dati con cui ci seppelliscono affinché non restino neanche le energie per dar spazio ai nostri sogni si riferiscono davvero ai decessi per covid19?

  2. Mi sa che proprio non riesco a essere chiaro.
    Per Roberto.
    L’incubamento che intendo non fa parte dell’accettazione e riguarda:
    1 – a chi verrà fatto pagare il conto e in che maniera. Se vuoi specifico, ma i segnali mi paiono abbastanza chiari (e deprimenti): sicuramente non alla finanza
    2 – cosa riusciranno a farci ingoiare in termini di libertà personale e diritti, sia individuali che politici. Se lasci fare a un Fontana o un Zaia di sicuro reintrodurrebbero il passaporto interno (magari da conferirsi con l’approvazione del parroco e del capo manipolo) e qualcuno ha già ventilato l’ipotesi. Quanto ai diritti politici siamo già messi bene vista la chiamata all’unità acritica e che da un paio di mesi siamo governati a base di DPCM e regionali giustificati dallo stato di emergenza: riesci a pensare come potrebbe finire?
     
    Per Grazia: insisto che senza dati certi è difficile dire qualcosa di sensato, ma considerando che in un anno normale muore circa l’ 1% della popolazione, parlare del 2% significa che tutte le polmoniti, influenze, infezioni, tumori, leucemie, incidenti, suicidi messi insieme farebbero la metà dei morti da/con COVID…ipotesi realmente terrorizzante (e io credo in realtà improbabilissima, al momento siamo a 2.6 su diecimila)
     

  3. Sii ottimista; si parla dell’1%
    Si parla dell’1%, sono parole, la realtà può essere ben differente dalle chiacchere. Sono passati 3 mesi dall’inizio del propagarsi dell’epidemia,
    Quando ne saranno passati 12 di mesi la percentuale del si parla dell’1% corrisponderà alla realtà? Speriamo che si abbassi notevolmente! Ma tutto dipenderà dai dati reali e non fittizi.
    I dasti della percentuale di morti durante la 2^ Guerra mondiale li abbiamo conosciuti molto dopo terminata la guerra.
    Durante una guerra non si possono fare previsioni su dati e percentuali certe e affidabili perchè va considerato che non tutti i contendenti possono oppure vogliono comunicare i decessi. Tutto è in divenire.
     

  4. Bnjour.
    Matteo, visto che  siete così appassionati di numeri, osservate quanta gente muore per polmoniti, influenze, infezioni (spesso contratte in ospedale), tumori, leucemie.
    Io di tutte queste patologie continuo a rimanere preoccupata, non del covid19.
    Ti invito a leggere qualche relazione sulla situazione in cui versa la popolazione umana e animale di Augusta, solo per citartene una. Lì si muore da decenni, ma non se ne fa pubblicità, visto che ci sono dietro le case petrolifere. 
    Stay tuned.

  5. Matteo, l’”incubamento” è compreso nella fase cinque dell’accettazione: l’accettazione della possibile ascesa nel regno dei cieli. Sii ottimista; si parla dell’1% e poi qui a differenza della guerra si tratta prevalentemente di un “ricambio” generazionale, lo dice un possibile candidato al ricambio. In ogni caso:
    And we’ll keep on fighting ‘til the end 

  6. Il problema dell’applicazione del modello Kubler Ross è che si sta profilando una sesta fase non prevista prima dell'”accettazione”, che ci colpirà duramente se non stiamo attenti: la fase dell’ “incubamento” duro con lubrificazione a sabbia!
    “In realtà, caro Lusa, ogni giorno andiamo incontro a infinite possibilità di lasciare questa Terra” certo Grazia, e alla fine moriremo tutti. Però, come già detto, il 2% dovrebbe altro che terrorizzare: è quasi il doppio delle vittime della seconda guerra mondiale (1.07%)!

  7. In realtà, caro Lusa, ogni giorno andiamo incontro a infinite possibilità di lasciare questa Terra: incidenti stradali dovuti all’eccessiva velocità dei mezzi che ci fanno sentire più maschi, incidenti sul lavoro dovuti a mancanza di sicurezza,  malattie di ogni sorta figlie di questo pazzo tempo storico. Eppure ci sono dati statistici a portata di mano sempre, anche prima.
    Ma ugualmente si corre in macchina (la gente non ha smesso neppure adesso, approfittando delle strade vuote), si continua a mangiare cibo di dubbia provenienza, indossare abiti confezionati con fibre artificiali, tenere ritmi di vita che nuocciono all’equilibrio psico-fisico, abitare in luoghi fortemente inquinati per il nostro assurdo attaccamento a casa e denaro.
    La morte fa parte della vita e mai in questi mesi mi ha sfiorata il timore di morire di covid19.
    Al contrario sono anni che seguo le vicende delle aree intorno alle raffinerie, per esempio, anni che i miei amici malati di tumore aumentano e se ne vanno nel giro di un mese senza che abbia il tempo di abbracciarli.
    Di questo e altro dovremmo preoccuparci, magari proprio ora che abbiamo tempo per pensare alle nostre vite e possiamo analizzare i nostri gesti – acquisti online senza posa senza alcun rispetto per i fattorini e con la conseguente chiusura di molti negozietti di quartiere, acquisto di manufatti che trasudano lo sfruttamento dei minori, il cambiare scarpe da corsa ogni due minuti solo perché qualcuno dice che è meglio, mangiare soia che viene da coltivazioni intensive invece di preferire le uova del vicino….dove stiamo andando? Lo sappiamo? Eppure abbiamo miliardi di informazioni a disposizione. 

  8. Parlare di superstiti rincuora, parlare di morti mette in allarme. Cosa scegliamo?
    Al momento della scelta, la nostra attenzione verrà immediatamente catturata da dati e testimonianze che riportano le peggiori tra le conseguenze possibili, ignorando l’informazione complementare
    un 2% di morti ci porta a ignorare il 98% che è sopravvissuto.

    Il 2% a mio avviso è più che logico che metta in allarme!
    Uscendo dalla trincea per dare assalto al nemico e vi fosse la probabilità che su 100 persone 98 potrebbero sopravvivere e 2 morire un pensiero potrebbe salire alla mente di ogni individuo: e se toccasse a me far parte del 2%?
     
     
     

  9. Caro Paolo, nessuno shock, anzi. Una conferma del valore dell’integrazione dei punti di vista. Io sono attento ai numeri proprio perché l’ho imparato dagli ingegneri in mezzo ai quali ho sempre vissuto.  Ma la mia formazione mi porta a guardare anche alle “narrazioni” e alle “proiezioni” più o meno consapevoli degli uomini rispetto agli eventi. Tu hai giustamente notato che la musica sta cambiando, a prescindere dall’andamento dei numeri. Io non mi meraviglio. Nel mio mondo, quello delle scienze sociali “descrittive”, si usa molto un modello a cinque fasi per descrivere le reazioni individuali e collettive ad eventi inaspettati come la malattia, ma applicabile anche ad altre aree ( il modello Kubler Ross, se ti interessa trovi in rete la documentazione). Il modello non va interpretato in modo sequenziale o “ingegneristico”, oserei dire con affetto, non è una legge ma uno strumento probabilistico di lettura dei comportamenti umani basato sull’osservazione. Dopo le fasi della negazione, del panico e della rabbia, stiamo entrando nella fase del patteggiamento, in cui le comunità’  e gli individui riprendono il controllo della situazione e cercano di riparare il riparabile. Molti segnali vanno in questa direzione. Vedi articolo dell’Economist. “Convivere con la malattia”. Non mi meraviglierebbe che tra qualche mese ci fosse una fase depressiva, quando le speranze e le consolazioni dell’impegno operativo che oggi assorbono le energie e le ansie si scontreranno con i colpi di coda del contagio. Chi dirige la baracca dovrebbe farsi aiutare da un team interdisciplinare, eviterebbe le guerre accademiche interne ad una singola specialità alle quali assistiamo quotidianamente e avrebbe una visione più ampia del processo. Forse commetterebbe anche meno errori anche sul piano della comunicazione, oggi guidata da un ingegnere elettronico che ha imparato la comunicazione sociale all’università del Grande Fratello 🤪

  10. Grazie Grazia, lo passo a mia madre!
     
    Ho letto i numeri di oggi in Italia e quelli nel lontano oriente.
    Dicono ancora che siamo in “un canale discendente” come lo dicono in Spagna… ma sanno quello che dicono, non vedono i numeri ?
    Là stanno ripartendo dopo aver fatto come la gente da noi sta facendo ?!?
     
    Ormai mi sono convinto che la gente proprio se ne frega finché non ci va di mezzo.
     
    Ps: mi spiace per lo shock che subirà Roberto Pasini se non lo sa, ma anche io sono un vecchio ingegnere elettronico, però per fortuna ormai obsoleto 🙂 

  11. Caro Matteo, gli ingegneri sono la mia maledizione. Ho sempre arrampicato con ingegneri, i miei migliori amici sono ingegneri, professionalmente ho sempre avuto più successo in ambienti ingegneristici. Singolare per me che ho una formazione filosofica , anche se con un taglio epistemologico,  e una specializzazione in psicologia sociale e del lavoro. Forse gli opposti si attraggono. Conosco bene un certo modo di ragionare, che come tutti i modelli di pensiero ha vantaggi e svantaggi. Anche in alcune discussioni su questo blog, soprattutto in Totem e Tabù, si riconoscono i diversi modelli di pensiero in azione. Ti consiglio in proposito un libro del solito ingegnere americano/indiano (il top di gamma): Guruprasad Madhavan , Come pensano gli ingegneri. A volte, e ovviamente non parlo di te, li ho trovati molto ingenui in altri campi e con mia grande meraviglia, facile preda di venditori di fumo e ciarlatani vari che a me facevano venire subito l’orticaria. Per farmene una ragione mi ha aiutato l’idea di Jung del lato ombra inconscio, che rimane ingenuo e infantile più sviluppiamo in modo unilaterale il nostro lato dominante. Sul lato ombra della mia corporazione esistono innumerevoli barzellette, come per i carabinieri e taccio per carità di patria. Siamo individui specializzati e come diceva un mio maestro nessuno di noi da solo è così smart come possiamo esserlo tutti insieme come specie e qui sta la nostra forza, di cui in questo momento abbiamo un gran bisogno.

  12. Per Matteo.
    [(Tra quadre in quanto fuori tema)
    …le nude cifre, che sono, per ora, il metodo più efficace che abbiamo di rappresentare la realtà…
    Tutti i linguaggi sono efficaci entro un ambito condiviso e solo lì.
    Non solo, quanto dici, necessariamente contiene anche l’opzione opposta.
    Ovvero che siano il più fallace.
    Le nude cifre sono infatti pronunciate da individui che si credono altro e neutri rispetto a ciò che osservano.
    Non dovrebbe fare scandalo la questione in quanto tu stesso poche righe dopo, in modo divertente come nel tuo stile, scrivi: ab minchiam.
    I complici, per esempio, per perseguire il loro scopo impiegano un linguaggio all’opposto del più oggettivamente preciso che avrebbero i numeri ma, si capiscono perfettamente. Fuori dal loro ambito il loro linguaggio non porta signicato o porta equivoci.
    I giornalisti, che si vantano di attenersi ai fatti, sono un altro campione del costo dell’oggettività.
    Comici.]

  13. Grazie Matteo, ma adesso ho rivisto la Spagna: è partita e nessuno riesce a fermarla!
    Poveretti.
    Il nuovo terreno di valutazione sono loro.

  14. P.S.: per Pasini: appena finito di scrivere sono andato a leggere il tuo “Problema della malattia asiatica”: molto interessante, grazie.
    Però chi sceglie la seconda opzione o non sa far di conto o è un criminale!
     

  15. L’articolo è molto interessante, tratta di cose che conoscevo a spizzichi e, sebbene un po’ confusionario, mi è piaciuto. E lei è molto carina!
    Però io sono un ingegnere e forse per questo un po’ meno incline a comportamenti basati su bias, euristica e framing e un po’ più sui numeri.
    Una frase come Non un gran problema finché si tratta della nostra colazione, ma decisamente più grave quando, durante un’epidemia, un 2% di morti ci porta a ignorare il 98% che è sopravvissuto.” mi fa letteralmente saltare in aria, perché dovrebbe terrorizzare chiunque.
    Mi spiego: avete presente la II guerra mondiale, con tutto quello che è successo, che ci hanno raccontato i nostri padri e decine di film e libri, ve la ricordate?
    Voglio dire la campagna d’Africa, la ritirata di Russia, Cassino e Anzio, i bombardamenti di Torino e Milano, gli sfollati, i razionamenti, l’8 settembre, tutti a casa, i tedeschi, i partigiani, Salò, Marzabotto, s. Anna di Stazzema e le fosse Ardeatine, Cefalonia e i deportati, la fame nera e la borsa nera. Tutte quelle cose li, avete presente?
    Beh, tutte quelle cose lì sono costate all’Italia 472000 morti. Su 43 milioni e 800 mila abitanti, circa 1.07 % in 58 mesi, dal 10 giugno 1940 al 25 aprile 1945. [dati wikipedia]
    In pratica una passeggiata rispetto al 2% in 2, 3 o anche 6 mesi!
    Sarebbe bene che chi si occupa della conoscenza e delle sue modalità controllasse anche un minimo le nude cifre, che sono, per ora, il metodo più efficace che abbiamo di rappresentare la realtà (anche se temo che Lorenzo Merlo non sarà d’accordo)
    Come si dicevo altrove, nessuno sa (o vuole sapere) il numero effettivo di contagiati e i morti sono contati ab minchiam, per cui dire 2% non significa nulla.
    Comunque il Ministero della Salute conta ufficialmente 17681 morti ad oggi, che su una popolazione di 60 milioni e 400 mila abitanti vuole dire circa 0.02%, il che mi fa ritenere molto improbabile che si possa arrivare al 2% anche se non si facesse proprio nulla (Questo per tranquillizzare un po’ il Paolo Panzeri che mi pare preoccupatino)

  16. La mattina guardo i dati di wordmeters e poi un po’ dovunque ciò che si “racconta” nei vari stati…… i racconti più fantasiosi sono sempre quelli dei nostri esperti da quattro soldi al servizio giornalistico dei politici.
    Oggi è molto interessante.
    La Spagna è esplosa e ci ha quasi raggiunto e …. le medie sono in discesa. 
    La Francia ha i record mondiali, ma la situazione è sotto controllo e non danno dati provinciali.
    La Svizzera è velocissima in tutto, ma le medie a tre giorni danno valori bassi.
    Usa, Germania, Olanda galoppano veloci, ma i fantini guidano benissimo.
    Tutti i grafici “nazionali” sono in netta discesa, ma i numeri aumentano ancora quasi esponenzialmente…. pure noi provatissimi, che ufficialmente diminuiamo, stando ai dati non diminuiamo, se non di qualche morto.
    Boh, penso che la politica stia sguazzando alla grande…. magari la cambieremo.
    Una nota per me ridicola: qui da noi non si trova più il lievito e la mia mammina 93enne dice che non può farmi la sua crostata, sembra che tutti si siano messi a fare pane e torte, i birrai non riescono a star dietro alla richiesta che non si  prevedevano e per il lievito ci vuole tempo per averlo perché “deve farsi”…… ma la carenza alimentare non è immaginabile, nemmeno fra qualche mese, si può pensare solo a una certa lentezza distributiva…..
    Eh, la gente va in giro senza mascherina coi bambini e li porta nei negozi lasciandoli toccare tutto: non capisce ancora niente !
    Pensavo che l’epidemia stesse migliorando, ma forse è appena iniziata.
    Qui da noi il casino assurdo però è sceso bene, ora c’è solo un silenziosissimo e pulitissimo  casino. 🙂 
    Come dicevo gli ambientalisti con il loro virus ci hanno incasinato !!!!!!!!!!! 🙂 😉 

  17. Una cosa interessante a proposito del “framing” o “inquadramento” è proprio uno degli esperimenti più famosi di Kahneman che si chiama “Problema della malattia asiatica” guarda caso. Chi non lo conoscesse può digitare il titolo in google e trova una buona descrizione in Wikipedia. Mette in evidenza che le scelte delle persone rispetto ad in programma di intervento sono condizionate dal modo in cui viene formulato. In base a come viene formulato, in termini di guadagni (sopravvivenza) o perdite (morti) , determina scelte diverse nella maggior parte delle persone.

  18. Una piu’ calzante traduzione di “bias” e’ “parzialita’” o nel caso dell’articolo, “pregiudizio”. Indica una predisposizione, una polarizzazione del giudizio. Nel contesto di una misura, puo’ effettivamente rappresentare un errore sistematico.

  19. Paolo, mi rendo conto che questa confessione mi costerà cara, ma devo dire che anche l’aspetto della cuoca predispone positivamente (trappola cognitiva o effetto del framing?) verso il minestrone e scalda il cuore di chi appartiene al target preferito dal Coronaro, dopo i tristi elenchi quotidiani dei morti che tanta energia richiedono quotidianamente i bollettini di Steve. La vita è bella e invochiamo il perdono per questa leggerezza spero veniale.

  20. Robero, hai detto bene, almeno secondo me, e mi chiarisco un poco di più.
    Cipolla spiegava le sue percentuali, che mi hanno sempre preoccupato
    Kahneman ha ricevuto anche un Nobel
    Moni è un poco “confusionista”, deve piacerle fare i minestroni, ma si lasciano mangiare con buona soddisfazione 🙂

  21. Paolo, quella che tu chiami “stupidità” ha a che fare col funzionamento della nostra mente ed evidentemente ha un fondamento evolutivo. Ci riguarda tutti. Ognuno di noi facendo scelte piccole o grandi è stato influenzato da quelle che vengono chiamate in gergo da chi studia questi argomenti “trappole cognitive”. Quello di Cipolla era un arguto divertissement di un uomo colto. Kahneman ha preso il premio Nobel studiando sistematicamente e in modo sperimentale la “stupidità “ umana nel prendere decisioni in condizioni di incertezza. Ciò che ha ispirato i suoi studi non è stato un interesse teoretico ma la riflessione sugli errori di giudizio da lui commessi quando lavorava come valutatore e selezionatore per le forze armate israeliane. Certo l’autrice non è Kahneman, ma il tema non è fuffa. Personalmente alcune di queste idee mi hanno portato a ripensare alle mie decisioni in molti campi e a riconoscere la mia sostanziale “stupidità” in molte decisioni. È parte di noi ma come diceva un vecchio slogan “se lo conosci lo eviti” e soprattutto ti difendi magari un po’ meglio da chi conosce e usa questi meccanismi per influenzare il tuo comportamento.

  22. Che io sappia solo il professore Carlo Maria Cipolla ha scritto un libro sulla stupidità umana.
    Sulla follia alcuni hanno scritto a cominciare da Erasmo nel passato, che la elogiava.
    Però molte persone costruiscono castelli fra le nuvole per spiegare la stupidità, la mancanza di capacità di comprendere…. come mi sembra qui.
    Se l’è bambo, l’è bambo….. dicevano gli anziani, ma ormai stanno scomparendo.

  23. L’articolo presenta alcuni spunti interessanti ma è un po’ confuso. Risente della mancanza di un intervento redazionale professionale come molti articoli auto-pubblicati che oggi escono in rete. Il punto di vista a cui si ispira è quello della cosiddetta “economia comportamentale” che mette insieme concetti ricavati dall’economia e dalla psicologia per spiegare il complesso meccanismo che sta alla base di alcune scelte di comportamento che vediamo oggi messe in atto di fronte all’emergenza covid. Interessante l’attenzione posta sul ruolo degli schemi percettivi che entrano in gioco nella valutazione del rischio e del pericolo. Erano temi che avevamo discusso a suo tempo anche a proposito delle valanghe. Il fenomeno di fronte al quale ci troviamo presenta aspetti molteplici, da quello epidemiologico a quello psico-sociale, e quindi richiede l’uso di categorie interpretative di diversa origine. Ben vengano dunque proposte di lettura che ci permettono nel loro insieme una visione sistemica che nessun approccio parziale da solo può garantire e si può pertanto perdonare anche qualche peccato di generosa superficialità.

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