Cosa è il trad?

Cosa è il trad?
di Steve McClure
(traduzione di Luca Calvi, per gentile concessione da Climb 127, www.climbmagazine.com)

“Ehi, ma dove hai intenzione di andare?” – mi chiese Chris che mi stava spiando mentre ero intento a riempire di dadi e friends uno zaino di dimensioni mostruose.
“A Pembroke, a fare arrampicata trad”.
“E cosa vai a provare?”

Steve McClure
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Il significato di quel “provare” era evidente: “provare” nel senso di “andare a provare e riprovare qualcosa di davvero difficile, di veramente troppo duro da salire a vista e da fare da primo magari solo dopo”. La domanda partiva dall’assunto che ciò che stavo andando a fare era proprio quello, ovvero headpointing su qualcosa di grado E seguito da un numero alto, invece che andare a salire a vista qualche classica di grado E5.

Beh, c’è da dire che aveva assolutamente ragione: del resto, con gli occhi incollati su Choronzon, un E10 ancora non ripetuto di Neil Mawson, non mi stavo certo preparando per andare a fare una salita a vista. Quindi, cosa stavo andando a fare, arrampicata tradizionale a Pembroke o qualcos’altro?

Ma cosa vuol dire esattamente arrampicata trad? Beh, se per l’arrampicata sportiva possiamo dare la precisa definizione di “salire vie protette da spit precedentemente piazzati”, l’arrampicata tradizionale può essere definita come “salire vie protette da attrezzatura posizionata nelle strutture naturali offerte dalla roccia”. L’arrampicata sportiva, peraltro, può essere divisa in vari stili: redpoint (lavorata), on sight (a vista) e flash (a vista ma con informazioni precedenti), tutti e tre stili chiaramente definiti e altrettanto validi. Per quanto riguarda l’arrampicata tradizionale, invece, le cose non sono definite in modo così preciso.

Per cominciare, le protezioni vengono piazzate nelle strutture offerte in natura dalla roccia stessa, quindi, per esempio, i friend nelle spaccature, i dadi nelle fessurine, i tricam nei buchi scavati… (Ehm, buchi scavati presenti in natura? Va bene, dai, passiamo oltre). Poi, ovviamente, fettucce e cordini attorno a spuntoni o sassi incastrati. E se per caso fosse troppo difficile piazzare quella fettuccia, o troppo scomoda per uno che sale da primo? Si può anche posizionare del materiale e lasciarlo in loco, come gli spit.

Neil Mawson: Foto: Jack Geldard
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Va bene, diamo per buoni quelli e anche i chiodi che vengono inseriti nelle fessure esistenti in natura, anche se raramente vengono piazzati a colpi di martello da chi sale da primo; vengono piantati scendendo in doppia lasciando così una protezione fissa, anche in questo caso similmente a quanto avviene con gli spit.

Tuttavia, siccome i nut e i chiodi vengono posizionati in alloggi naturali e dato che questi possono anche uscirne, arrugginirsi o spaccarsi, è giusto considerarli alla stregua di attrezzatura tradizionale, rientrano nella descrizione fatta e in fin dei conti siamo britannici e siamo noi a creare le regole.

Un attimo, però. Non sono del tutto sicuro che la definizione di arrampicata tradizionale sia corretta. Probabilmente “tradizionale” sta ad indicare il vero stile tradizionale, quello che usavamo un tempo quando andavamo a scalare e che comprende l’arrivare fin sotto alla falesia o alla parete con la maggior quantità possibile di informazioni che è stato possibile ottenere dalla lettura della guida fatta all’interno della tenda la notte precedente, il tutto assieme ai consigli di andare a dedicarvi a una qualche via classica che arrivano da parte del socio, ormai stufo di tenere il peso di chi si lancia verso nuovi gradi. Lo stile è quello dell’arrampicata a vista, che tende magari a una sorta di “flash” a causa di un po’ di informazioni sulla via, il tutto dipende dalle preferenze di ognuno, ma, soprattutto, partiamo come se stessimo andando incontro all’ignoto, ad assaporarci l’avventura. Gli ostacoli vengono affrontati man mano che si incontrano, decidendo quali protezioni usare, calcolando la misura necessaria, andando a piazzarle male e poi dovendo lottare per riprenderle visto che le stesse si sono incomprensibilmente andate a incastrare a lato. Dobbiamo tirarle? Ne abbiamo portate a sufficienza? E cosa succede se nelle fessure entrano solo i friend del 2 e li abbiamo già usati tutti? E dov’è il passaggio chiave? La fessura orizzontale là sopra è asciutta? E quella scaglia lì, dall’aspetto così precario, terrà? Così tante domande e tutte che ricevono risposta man mano che ci si muove. Ecco, questa è per me l’arrampicata tradizionale nel suo senso più puro: tutta la sfida offerta dalla via e tutte le sue difficoltà vengono affrontate nello spazio di tempo tra il momento in cui si abbandona il terreno alla base e quello in cui si arriva in cima.

Certo, possiamo dare un’occhiata dalla base prima di partire, e possiamo anche decidere che i friend più grandi possono rimanere nel sacco perché la fessura è strettissima, oppure possiamo decidere di non aver bisogno di trenta rinvii visto che la via è lunga quindici metri in tutto, come d’altra parte che quel cordino (su clessidra o sasso incastrato) così evidente o quel chiodo così a prova di bomba saranno più che sufficienti per proteggerci nel passaggio chiave. E’ davvero un gioco leale, così, e nella testa della maggior parte delle persone nemmeno la descrizione presente nella guida che vi indica la necessità fondamentale di un friend del 2 a metà via potrà andare a inficiare manco lontanamente la vostra salita a vista.

Si potrebbe giungere all’affermazione che l’arrampicata tradizionale sta tutta nel far sì che rimanga dura. A parte un’idea generale sulla difficoltà e una descrizione della guida (e c’è chi obietta che già questo basti a far saltare una vera salita a vista), rifuggiamo in modo deciso ogni aiuto, voltando le spalle mentre qualcun altro sta salendo la via, cominciando a cantare a squarciagola se qualcuno si mette a descrivere la relazione della via e gettando via i DVD che mostrino i nostri obiettivi futuri. Noi bramiamo l’avventura, ecco qual è la vera arrampicata tradizionale.

Bene, cosa dovevo andare a fare a Pembroke? Avevo già una vaghissima idea della via di Neil, sapevo che c’era un grappolo di protezioni piazzate su tutto il lungo tratto chiave, e sapevo anche che se per caso cadevi prima di quel grappolo a quindici metri d’altezza probabilmente ci avresti lasciato la pelle. Sapevo anche che Neil aveva passato anni a provare quella via e sapevo anche che Neil è uno che scala piuttosto bene.

Per tutte queste ragioni non avevo alcuna intenzione di andare a scalare la via di Neil in stile tradizionale. L’ultima cosa che volevo fare (a parte lasciarci la pelle per un volo) era arrivare in qualche modo fino al grappolo di protezione per poi scoprire di essermi portato dietro il materiale sbagliato e trovarmi così costretto a pensare alla svelta a un piano di fuga. Fu così che decisi di passare a un altro stile di arrampicata “trad”, quella che non consiste nel cercare le difficoltà, bensì nell’andare a cercare il modo più semplice possibile.

Spetta agli scalatori fissare le loro regole, ma il vero problema è, pur rimanendo all’interno delle stesse, riuscire a dare una risposta alla maggior parte delle domande che vengono poste sulla via ben prima di lasciare il terreno per iniziare la scalata. Dove va l’attrezzatura, come piazzarla, dov’è il tratto chiave, gli appigli sono asciutti?

Molte domande ottengono così una risposta. Ognuno può scegliersi la tonalità di grigio che preferisce: per esempio trovarsi un socio che la salga con la corda dall’alto, si faccia un’idea dei movimenti e dell’attrezzatura necessaria e poi farsi dare una relazione passo per passo, in modo che poi uno se la possa bere per benino dall’inizio alla fine, oppure si può anche scendere in doppia lungo la via, senza dover assolutamente fare in fretta, perché non ci sono penalità in caso di ispezioni “veloci”; è anche possibile salire tranquillamente la via con la corda dall’alto, garantendosi in questo modo di poter scalare quanto si vuole senza il pericolo di cadere: non resterà quindi altro da fare che ripetere la via, legandosi stavolta all’altro capo della corda.

In questa immagine e seguenti: Steve McClure durante la seconda salita di Choronzon (The Cauldron, Pembroke). Foto: Ben Pritchard
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E per il materiale? Difficile da posizionare? C’è solo da stabilire tutto prima: DMM dragon, numero 3, infilato a 45 gradi, da posizionarsi stando su un buco per due dita sulla destra. Provare e riprovare. Prepararlo sull’anello porta-materiali frontale sinistro. La stessa cosa va poi fatta per tutto il resto dell’attrezzatura, non ci saranno casini e non ci saranno domande per le quali aspettarsi una risposta. Non avrete portato materiale inutilmente, non ci sarà bisogno di altre fettucce porta-materiali. Peraltro, perché mai non lasciare tutto già moschettonato? Se già c’è un nut pre-posizionato, può starci anche un moschettone? Ho sentito di gente che sale vie con tutte le protezioni già moschettonate e le salgono staccando il moschettone e poi riposizionandolo per poter poi dire di aver “piazzato tutte le protezioni da primo”; alcuni addirittura se li attaccano all’imbrago, li appendono, poi li tolgono e li riposizionano. Ho anche sentito di gente che sale portandosi attaccato all’imbrago il doppione del materiale, così, caso mai a qualcuno venisse in mente di obiettare che non erano saliti con il peso del materiale dalla base!

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Sembra davvero un po’ arbitrario, ma ci scegliamo una serie di regole così, piuttosto a casaccio, e poi le osserviamo scrupolosamente, cercando il più facile possibile all’interno delle nostre regole. La serie di regole “migliore” per questo stile pare essere comunque quella che prevede il posizionamento di tutto il materiale salendo da primi, ad eccezione dei chiodi e dei cordini su clessidra o sasso incastrato, e magari anche di un moschettoncino attaccato a un cordino, soprattutto se viene buono per ripulire la via dopo l’ennesimo tentativo andato male.

Che si salga con la corda dall’alto (provandola quindi prima) o in stile flash, a molte delle domande viene data una risposta. A così tante domande, a dir la verità, che secondo me siamo andati ben al di fuori dei limiti dell’arrampicata tradizionale. Se non altro, comunque, se ancora non si è stati di persona sulla via e ci siamo solo fatti raccontare della stessa da qualcun altro resta almeno ancora un elemento di incertezza: sono fisicamente all’altezza? Nella maggioranza dei casi, però, esiste la necessità di sapere in anticipo se si è fisicamente all’altezza o no, soprattutto se abbiamo già stabilito, sulla base di ricerche fatte da noi o da parte di qualcun altro, che le conseguenze di una eventuale caduta sarebbero catastrofiche. Così tutto si concentra sulle prove la cui quantità dipenderà da quanto le stesse siano fondamentali per il successo dell’impresa. Per esempio, se uno ha in mente una via da cinquanta metri in solitaria, vorrà prima provare a ripeterla qualche volta senza cadere, tanto per essere sicuro.

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A Pembroke qualcuno mi pose una domanda: “Ma come fai ad abbassarti a quello stile di arrampicata? Non sarà mica che stai abbassando il grado della via solo per adeguarla alle tue capacità?”.

La risposta fu che sì, stavo abbassando il grado della via, che non ero in grado di salire un E10 a vista e che scalavo in quello stile per il semplice motivo che mi piace.

Quello continuò: “A Pembroke ci siamo sempre dedicati alle salite a vista, e le vie nuove dovrebbero essere tutte salite dal basso, a vista, e in quel modo saremmo tutti sulla stessa barca e allo stesso livello”. Un punto a suo favore. Avremmo però anche uno stallo nel progresso: nei gradi veramente alti è proprio impossibile riuscire a salire una via nuova a vista, si dovrebbe partire con una scorta completa di materiale senza avere un’idea delle possibilità di dove e come andare a posizionarlo, salendo su terreno al limite, sapendo con certezza che in caso di caduta ci potremmo lasciare le penne e il tutto senza avere nemmeno una pallida idea se quella scalata sia possibile o no. Non si tratta di vie di E3 o E4 dove c’è tempo per fare qualche valutazione. No, su vie di E7 o più i movimenti sono spesso schiaffi dinamici a prendere bordi nascosti e distanti, movimenti senza possibilità di tornare indietro ben distanti da protezioni che comunque durante una salita a vista non si trovano mai, spesso dentro a fessure riempite di fango che possono essere pulite solo calandosi preventivamente in doppia. Credo che il sistema di gradazione non vada bene se applicato a vie nuove salite a vista.

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Provare, lavorare le salite ha permesso di scalare vie nuove dando risposta alla domanda più importante di tutte per gli scalatori del domani, ovvero se la via è scalabile o meno. Una volta che sappiamo questo e abbiamo un’idea più o meno del grado possiamo decidere anche lo stile da seguire, arrampicata tradizionale o altro.

Alla base di Choronzon il secondo giorno provai a convincere me stesso che mi trovavo lì a fare arrampicata sportiva. Ecco, la soluzione migliore era proprio quella, arrampicata sportiva con attrezzatura tradizionale. Su una via sportiva non avrei avuto esitazioni a provare, nessuna paura di cadere. Eh, l’avrei provata addirittura il primo giorno.

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Il primo giorno però era stato quello precedente e io ero arrivato con un piano: non stavo andando a fare arrampicata tradizionale e volevo sapere tutto di tutto. Valutata E10, era nota per essere una delle vie con protezioni tradizionali più difficili di tutta l’Inghilterra e del Galles. Conoscevo l’equivalente della scala francese di quel grado (8b+) che eguagliava il mio record personale di salita a vista di vie sportive, quindi mi sembrava da pazzi andare a provare una salita a vista su un simile livello senza avere praticamente la più pallida idea delle protezioni.

Attrezzai quindi una salita con la corda dall’alto, andai a controllare parte delle attrezzature, osservai le prese e stabilii quali dovessero essere i movimenti: mi sembrò fattibile. Se fosse stata una via sportiva sarei partito direttamente lì per lì per una redpoint. Quella, però, non è una via sportiva. Le protezioni erano state piazzate in punti scomodi e nessuna sembrava davvero buona, c’era ancora molto che dovevo studiare, così partii per un tentativo con la corda dall’alto e riuscii a collegare tutti i movimenti.

Fu una manna per la mia testa perché mi ero reso conto che ce la potevo fare, dovevo solo andare e salire la via.

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Ero tornato di nuovo al punto di prima : fosse stata una via sportiva sarei salito diretto per farmi la redpoint, ma quella non era una via sportiva. Mi mandai a quel paese per non aver controllato bene le protezioni, a quel punto dovevo tornare a farmi un altro giro su anelli e fittoni d’ottone per trovare la giusta rete di sicurezza.

Si era però fatto tardi, ero stanco, e le previsioni che davano pioggia in arrivo si rivelarono esatte quando iniziò a cadere sopra di noi una leggera pioggerellina. Provare o non provare?

Il giorno dopo ci portammo sotto la parete tardi, dopo aver passato parecchie ore ad attendere che la pioggia persistente cessasse. Il vento freddo del giorno prima era sparito e l’aria fresca aveva lasciato il posto a un’umidità appiccicosa e pesante. Ieri la risposta sarebbe dovuta essere “provare”, visto che la parete aveva cambiato completamente colore da bianca a marrone scuro e gocciolava condensa. Demoralizzati andammo a scalare qualche altra via, anche se il mio terzo occhio continuava a guardarsi attorno in cerca di novità. Rab Carrington si rese conto della situazione e mi diede questo saggio consiglio: “Senti, piazza una corda dall’alto e sali a vedere cosa ne vien fuori, così lo vedremo tutti e potremo a quel punto dedicarci a quello oppure andare da qualche altra parte”.

Andare a provare quella via faceva paura a me quanto a lui che doveva farmi sicura, un fattore spesso trascurato dai primi di cordata che si gasano mentre vanno a oltrepassare il confine del pericolo. Basta un anello di corda che si aggroviglia e cala il sipario. E di chi è poi la colpa?

Con un sacchetto di magnesite, parecchie spazzole e uno straccio iniziai a calarmi su corde inzuppate. Le cose non sembravano mettersi al meglio, una capillare procedura di asciugatura di ciascun singolo appiglio e appoggio aiutava, facendo rialzare l’ottimismo, che comunque tornava subito a smorzarsi non appena li si ritrovava nuovamente inzuppati. Consumai sia lo straccio, che la magnesite.

Neil Mawson nel suo primo tentativo da primo di cordata su Choronzon. Foto: James McHaffie
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Toccò quindi alle protezioni, che furono ottimizzate: un fittone precario, un piccolo anello d’ottone, un friend un po’ ballerino, ecco cosa vi può salvare dall’obitorio se per caso non riuscite a tenervi sul passo di 7b+. Tutti insieme probabilmente tengono, ma sono a notevole distanza sotto i piedi. Poi però è saltato fuori un altro dado da piazzare a metà del tratto chiave. Neil lo sapeva, ma aveva deciso che era troppo difficoltoso da posizionare. Per me, invece, fu ciò che diede una svolta alla partita. Dovevo piazzarlo anche se questo poi mi sarebbe costato una sana pompata di braccia per venirne fuori. Decisione presa, nessun pensiero relativo alla via se non per i livelli di energia richiesti. Funziona così: ognuno gioca con i suoi livelli di rischio.

Bene, nuovamente alla base di Choronzon stavo cercando di convincermi che ero lì a fare arrampicata sportiva. Il modo migliore era proprio quello, arrampicata sportiva con attrezzature tradizionali. Se fosse stata una via sportiva non avrei avuto alcuna esitazione a provarla, nessuna paura di cadere. Ironia della sorte, la mia salita con la corda dall’alto del giorno prima poteva essermi di ben poco aiuto, in quanto non avevo la minima idea se sarei stato in grado di salirla in quelle condizioni. La ripassai con lo sguardo, stabilii il materiale da portarmi dietro, le possibilità di una caduta e diedi tutte le risposte che dovevano essere date prima di alzarmi da terra. Non rimaneva altro che dedicarsi alla scalata.

Entrai quindi in modalità arrampicata sportiva e mi lanciai di potenza, arrivando alla fine del tratto duro che ero al limite. Dopo aver tirato un grosso sospiro di sollievo rilassai un po’ i muscoli prima dell’ultima sezione più semplice, quella che in realtà non avevo controllato per bene. Inzuppata dalla pioggia della notte precedente, mi trovai a improvvisare e poi a cercare disperatamente qualcosa per proteggermi, del tutto dimentico del fatto che all’imbrago non mi era rimasto ormai più nulla a parte la piastrina per la doppia! Mi trovai a salire in libera totale, scalando davvero disperatamente a vista, tuffandomi e annaspando per la mancanza di riposo per le braccia su passi di 4a in scala britannica! Il vero passo-chiave mi sembrò proprio quello. Il punto in cui arrivai quasi ad essere sul punto di cadere fu proprio sulla parte più semplice della via che, ironia della sorte, mi sembrò essere quella più bella.

L’E10 era in saccoccia e io non avevo ancora fatto in tempo a trovare un punto in cui ci fosse campo che sul forum di UKC c’erano già 40 risposte ad un thread dedicato alla salita. Com’era logico aspettarsi la maggior parte dei commenti era dedicata al grado. Ma è davvero un E10? Ma è davvero così dura come la gradano? Ma il grado è quello solo per la salita a vista? Continuo a meravigliarmi del fatto che queste domande vengano ancora ripetute in continuazione. Vabbe’, tanto per semplificare le cose, prendiamo London Wall e Edge Lane, tutte e due a Millstone e tutte e due valutate con un incontestabile E5. Se vi va potete andare a salirvele a vista, oppure prima con la corda dall’alto e il grado non cambierà, anche se per voi invece farà differenza eccome. Una è molto sicura, l’altra molto pericolosa. London Wall è più o meno un 7a+ francese, Edge Lane un 6b+. Prendete il tutto e andate a estrapolare verso l’alto, tutto qua, fine della discussione.

Se vi può essere di consolazione, è vero che è possibile restarci secchi se si cade da Choronzon, ma è anche vero che è altrettanto probabile farsi un bel po’ di male semplicemente cadendo da una sedia.

Sono tornato col pensiero ai miei differenti stili di scalata degli ultimi giorni. Ho salito un E10 nel giro di pochissimi giorni e un E9 dopo una rapida ricognizione su uno shunt, parecchi E5 a vista in varie condizioni, più parecchie altre vie estreme da secondo. Tutte belle e tutte differenti! Non sono del tutto sicuro che per tutte si possa parlare di “arrampicata tradizionale”, ma in fin dei conti è solo un gioco, e di quelli belli!

Steve McClure su Hubble, F8c+, Raven Tor. Foto: Tim Glasby
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Bene, qual è il mio stile preferito per le scalate? Arrampicata tradizionale, arrampicata sportiva su attrezzature, headpointing? Solo pochi giorni dopo mi sono trovato a salire da primo un E8 a Huntsman’s Leap, perso su quella parete senza segni di magnesite e senza la minima idea di dove stessi andando. I movimenti che avevo fatto erano davvero troppo duri per pensare a una ritirata e senza nemmeno avere una quantità sufficiente di materiale ero andato avanti zigzagando da una microcengetta all’altra fino ad arrivare esattamente lì dove non mi sarei mai voluto trovare. Le uniche informazioni che avevo sulla via erano quelle di Charlie Woodburn, che aveva già scalato quella via in headpointing qualche tempo prima. Alla base della falesia mi aveva guardato con aria un po’ stralunata: “Ma vuoi davvero salirla a vista? Wow… Beh, è all’incirca un F7c+ e credo sia meglio tu ti prenda questo alien blu per proteggerti”. A dirla tutta, l’alien blu posizionato in un punto buono ma basso assieme a un RP2 dava l’aria di essere assolutamente inadeguata come protezione, visto che si trovava ad almeno 6 metri al di sotto dei miei piedi ed era l’unico materiale che mi avrebbe dovuto salvare dal volo verso la base della parete, invero piuttosto lontana. A distanza faceva capolino un chiodo, che fungeva anche da segnavia, ma rimaneva la domanda su quanto sicuro potesse essere e se fosse sulla via giusta. Impegnato allo stremo su passaggi di 6c UK riuscii ad arrivare al chiodo e a piazzare un moschettone su quella specie di vecchio cordino da bucato legato attorno a quell’ammasso di ruggine. Senza appigli dovevo comunque muovermi, per cui mi spinsi verso l’alto, mirando a uno spuntoncino che arrivai ad afferrare, ma le dita, ormai sudatissime e stanche, non riuscivano ad afferrarlo a dovere. Passai velocemente al setaccio la zona al di sopra, niente magnesite che potesse indicare la via e mi trovai di fronte all’inevitabile: stavo per volare. Cosa sarebbe successo? Avrebbe tenuto quel chiodo?

Mi trovai quindi seduto sull’imbrago, appeso alla corda, col chiodo che teneva davvero bene. Meglio comunque non fare movimenti bruschi… Guardando da un nuovo punto d’osservazione, sopra allo spuntoncino notai due maniglie, raggiungere le quali significava essere alla fine della parte dura. Ero andato dalla parte sbagliata! Ero così vicino… Sarebbero bastate un paio d’informazioni e ce l’avrei fatta! Un piccolo sopralluogo scendendo in doppia e ce l’avrei fatta! Ma avrei vissuto la stessa esperienza? Non ce l’avevo fatta, ma avevo potuto provare tutta l’esperienza completa! E che avventura!

Neil aveva preso il nome Choronzon da quel demone mitologico che vive negli abissi della mente di una persona e che continua a tornare a galla per tormentare chi lo ospita (il tutto nasce dagli scritti degli occultisti del XVI secolo Edward Kelley e John Dee sul sistema occulto della magia enochiana). E’ un nome adeguato per la battaglia pluriennale di Neil che ha dovuto vedersela con le condizioni, le maree, il tempo a disposizione, la mancanza di soci, per non parlare delle seicento miglia tra andata e ritorno ogni volta che andava a provare il suo progetto. Anch’io sono andato molto vicino ad essere aggredito dal Choronzon: se avessi sprecato quel tentativo, visto che quella giornata era ormai andata, seguita da una serie di giornate di pioggia e di chiusura continuativa dell’area per le manovre militari, beh, a quel punto mi sarei portato dentro quel tormento ancora oggi e probabilmente per sempre!

 

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Cosa è il trad? ultima modifica: 2016-01-07T05:06:16+01:00 da GognaBlog

7 pensieri su “Cosa è il trad?”

  1. 7
    pepe says:

    Ancora più facile: se non è free solo non è arrampicata. E occhio che la gomma delle scarpette conta come artificiale.

  2. 6
    Alberto Benassi says:

    Con la sistematica spittatura delle nostre falesie e conseguente eliminazione del rischio si è voluto dare spazio al superamento della pura difficoltà tecnica a scapito dell’aspetto mentale della scalata.
    In questo senso gli inglesi hanno sicuramente da insegnarci una nuova strada.

  3. 5

    Bella recensione Michele Guerrini, a mio avviso hai colto il messaggio di McClure che sicuramente può essere uno stimolo ad uscire da un’attività ormai divenuta statica come la sportiva, ciò non toglie che, ci siano alcuni punti storicamente non proprio corretti:
    Casarotto parla della superiorità degli inglesi (così la definisce) in merito all’arrampicata libera, ma anche quì si potrebbe parlarne per ore… Non molti anni prima ed in anticipo con le prime “dichiarazioni ufficiali” di 7° grado, un certo Enzo Cozzolino volava sulle crode dolomitiche in scarpe da tennis (ante-litteram senza alcun dubbio) assieme ai suoi compagni di cordata e dando vita a realizzazioni (alcune delle quali non ripetute) che quasi certamente ( a detta dei ripetitori) sfondarono quel limite ben in anticipo…
    E non va dimenticato che fino a fine anni ’80 molte delle nostre falesie erano attrezzate in maniera tradizionale, ti portavi dietro chiodi e martello oltre a cordini per incastrare i nodi, i più “ricchi” possedevano qualche nut che costava un cifrone e poi comparvero timidamente anche i primi friends…
    Di lì a poco la sportiva prese il sopravvento e tutto venne richiodato con l’espansione, i vecchi itinerari non ammodernati persero d’importanza e non vennero più saliti se non sporadicamente.
    C’è anche da dire che a differenza degli inglesi, da noi andare in falesia voleva dire principalmente allenarsi per la montagna e quindi le vie lunghe e l’allenamento su pareti spittate faceva comodo perché si poteva fare molti più tiri in una giornata, per poi riportare l’esperienza e la tecnica acquisite direttamente sulle pareti alpine, alzando di molto il limite.

  4. 4
    Guerrini Michele says:

    Articolo ben scritto,ricco di spunti tecnici ma anche etici e psicologici. Sembra impossibile che l’arrampicata abbia in se tutti questi valori ma in realtà li ha sempre avuti solo che,con il passare degli anni e delle mode, sono stati un po’ persi a discapito forse del…grado. Questa parola ha di fatto (come l denaro ha aumentato la smania di “possesso” di cose spesso superflue ) annientato quelle radicali qualità,capacità e potenzialità umane che anche attraverso l’arrampicata(di paretone,paretine,sassi,alberi o…paracarri) si potrebbero valorizzare.E’ vero che gli inglesi hanno la pretesa di essere i portatori dell’etica trad ma è anche vero che, come noi andiamo in falesia con gri-gri e rinvii,loro vanno con il secchiello,due corde,dadi,friends,casco e cordini e fanno trad da anni.Mentre per noi è uno stile che fa notizia,per loro è la norma ( anche Renato Casarotto, al ritorno dalla sua esperienza inglese, disse che erano avanti rispetto a noi in questo stile!!! ) Nell’arrampicata sportiva, con il tempo ( e anche qui ci sarebbe da fare un bel discorso su cosa si è perso e come si è evoluta l’etica de primi anni 80…) le regole si sono divulgate e riconosciute dalla maggior parte degli arrampicatori mentre lo stile trad, in effetti, come dice Mc Clure,è piu’ libero e ricco di sfumature ( regole etiche) e questo comporta il fatto che ognuno sceglie lo stile seguendo il limite del proprio istinto (..di sopravvivenza in questo caso). Il trad è solo un modo diverso di approccio alla scalata che allena quella parte di noi (cervello) che non viene ottimizzata con elevate percentuali come avviene invece per il resto del nostro corpo (muscoli). Nella nostra cultura alpina il trad è sempre esistito ma rivolto quasi esclusivamente alle salite di vie lunghe in montagna o vie di piu’ tiri ma molto meno su monotiriin falesia.
    In definitiva mi pare che Mc Clure ci inviti ad esplorare le nostre capacità psichiche attraverso la conoscenza dei nostri limiti ( ..paura?..)
    Provare per credere

  5. 3
    emanuele says:

    più che arrampicata trad la definirei un giochino per esperti(fenomeni?) che in mancanza di vere pareti e di vere montagne, si diverte e si appassiona su dei beceri paracarri…

  6. 2
    Alberto Benassi says:

    già Stefano siamo proprio esterofili.
    Non ho ancora capito quale si la novità di questo TRAD. A me, nel mio piccolo, mi sembra di averlo sempre praticato il TRAD….
    Oltre al pregio dell’esplorazione, però riconoscerei all’alpinismo inglese, nonostante i rimescolamenti che accennavi, una certa dose di severità nel rispettare dei principi di base che a me sembrano, da loro, intoccabili.

  7. 1

    “… in fin dei conti siamo britannici e siamo noi a creare le regole.”… mi verrebbe da dire: “in fin dei conti siamo italiani, esterofili ed anche un po’ scemi…”
    Son 150 anni, come minimo, di storia alpinistica che da noi si scala così e senza calate preventive per pulirsi le tacche… cos’avranno inventato di nuovo gli inglesi?
    Non credo sia un caso che in Dolomiti e Alpi del nord-est in generale inglesi e americani (altri “innovatori”) non siano praticamente presenti o quasi… invece i limiti maggiori sono stati superati spesso da scalatori dell’est europeo, i quali hanno lasciato itinerari che ancora oggi rimangono irripetuti per quanto siano duri, altro che rischi di volo col chiodo già bello infisso… oltre che da italiani e tedeschi…!
    Se c’è da riconoscere un pregio all’alpinismo inglese è quello dell’esplorazione e su quel fattore anche oggi si dimostrano innovatori veri (anche se pure qui gli slavi sono anni luce avanti…) e mentre noi ci perdiamo a tentare di catalogare E5, E10, E ? che sono cuturalmente incomprensibili (loro non hanno molto materiale roccioso da sfruttare e ricambiano ogni tot anni le regole del gioco che sarebbe altrimenti esaurito da un pezzo…), i british se ne girano per il pianeta in cerca di novità…!

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