In questa intervista del 1988 di Gianni Boscolo a Jacques Cousteau, il grande oceanografo francese affrontava alcuni temi ambientali attualissimi, anzi anticipava molte delle problematiche che nel 2023 sono diventate pressanti con considerazioni quasi profetiche, come ad esempio l’opportunità di concentrarsi sulla ricerca di fonti energetiche pulite, alternative a quelle tradizionali, una strada che in questi trentacinque anni l’umanità non ha perseguito con sufficiente convinzione.
Jacques-Yves Cousteau nacque a Saint-André-de-Cubzac, Francia, l’11 giugno 1910 e morì a Parigi il 25 giugno 1997. Fu esploratore, navigatore, militare, oceanografo e regista.
Come ufficiale della Marina militare francese ebbe modo di fare i suoi primi esperimenti subacquei. Nel 1936 inventò un modello di occhiale subacqueo che divenne il progenitore delle moderne maschere, ma fu durante la seconda guerra mondiale che, insieme ad Emile Gagnan, inventò l’acqua-lung, il primo erogatore monostadio che aprì a tutti le porte del mondo sottomarino.
Durante le esplorazioni a bordo della Calypso, un vecchio dragamine della Royal Navy da lui ristrutturato, fece numerosissime esperienze che raccolse poi in un libro e in svariati documentari.
Nel 1956 vinse al Festival di Cannes e ricevette anche l’Oscar per il miglior documentario con Il mondo del silenzio, ripetendo poi l’esperienza nel 1960 e nel 1965.
Cousteau fu il primo a usare un linguaggio semplice nei suoi documentari e ciò gli procurò svariate critiche, all’epoca, ma poi tutti lo imitarono e ancora oggi chi fa divulgazione scientifica cerca di attenersi a questa regola.
Che cosa lasceremo ai nostri figli?
(a colloquio con Jacques Cousteau)
di Gianni Boscolo
(ripubblicato su piemonteparchi.it il 21 marzo 2023)
Singolare figura di scienziato di fama internazionale e di divulgatore, Jacques-Yves Cousteau è un personaggio popolarissimo e di grande fascino.
Settantasette anni portati con grande disinvoltura (è nato a St. André de Cubzac in Gironda, nel giugno del 1910), da quasi cinquant’anni studia il mare ed i suoi segreti.
La sua intensa avventura umana e scientifica inizia durante il secondo conflitto mondiale quando, capitano di corvetta, fonda il Groupe de recherches sousmarines, abbandonando una brillante carriera, con Émile Gagnan è l’inventore del principio sul quale si basano i moderni autorespiratori ad aria.
Le sue principali esplorazioni, sopra e sotto i mari, sono state realizzate grazie alla “Calypso”, un traghetto che ha trasformato in nave oceanografica nel 1950.
I suoi documentari sulla fauna e gli ambienti oceanici hanno sempre trovato l’apprezzamento degli specialisti e del grande pubblico, ed uno di essi ha vinto nel 1956 il primo premio al Festival di Cannes.
Dal 1957 è direttore del Museo Oceanografico di Monaco. Ha dato vita ad una Fondazione, che porta il suo nome, e che gestisce i proventi dei suoi libri e dei suoi film, trasformandoli in mezzi con cui sovvenziona le sue ricerche.
“Fabbrichiamo letteralmente i soldi” spiega ridendo, fiero di questa autonomia che gli ha permesso, in tutti questi anni, di dire le cose che pensava senza condizionamenti di nessun genere. “Una libertà che costa cara, ma che è la base della credibilità della fondazione”.
Da oltre 22 anni è segretario della Commissione per il Mediterraneo, un gruppo di lavoro che riunisce i 17 paesi che si affacciano sul “mare nostrum”. Da alcuni anni si dedica a quella che ama definire “socio-ecologia”, ossia la ricerca delle interazioni fra cultura dei popoli marini e ambiente acquatico.
Autore di moltissimi libri, il suo ultimo lavoro si intitola significativamente Mediterraneo ferito.
“Il Mediterraneo è certamente molto malato; si impoverisce, anzi è certamente già molto povero, ma se non morirà diverrà molto sporco; già oggi si trovano pochi pesci nel Mediterraneo orientale. Quello occidentale ha la fortuna di avere un passaggio per l’Atlantico. Vi sarebbe un sistema per ripopolarlo, rifiutato però dall’Italia e dalla Tunisia: vietare la pesca e le immersioni, nell’ampia regione del canale di Sicilia, per cinque o sei anni. Altrove si potrebbe pescare abbondantemente“.
Così inizia un lungo colloquio con il comandante, nel suo studio, presso il Museo Oceanografico di Monte Carlo, autentico “tempio” del mare.
E i pochi parchi sottomarini sono sufficienti per curare questo “grande malato”?
“Certamente no. Anzi preferisco parlare di riserve piuttosto che di parchi, perché bisogna vietare completamente ogni attività. In Mediterraneo sarebbe meglio avere una estesa riserva nel canale di Sicilia che cento piccoli parchi”.
Con passione il comandante Cousteau ripete i tanti mali che affliggono questo favoloso, ma sovrappopolato bacino: l’inquinamento industriale, la pesca selvaggia in ogni periodo dell’anno, gli scarichi urbani.
“Se si pesca durante la riproduzione, è evidente che l’anno dopo non ci sarà più pesce. Non ci vuole molta intelligenza per capirlo”. Ma ci sono gli interessi delle società di pesca, quelli dei pescatori, ognuno con il suo piccolo-grande interesse particolare che rende inarrestabile il degrado.
Impegnato da anni su questo versante, Jacques Cousteau espone pacatamente il suo punto di vista, senza polemizzare, con la sola forza che gli deriva dalla saggezza del guardare avanti.
Serenamente ma senza assolvere nessuno: non certo i politici (“responsabili ed interessati soltanto per quanto dura il loro mandato”), ma nemmeno i diportisti (“che gettano ancore ed immondizie ovunque, dove capita”).
“Dieci anni fa – dice – ho fatto uno studio sulla polluzione in Mediterraneo ed ho iniziato misurazioni chimiche e fisiche. Mi sono reso conto che si parla molto di inquinamento, che ha effetti molto gravi – certo – ma non si parla mai dei danni meccanici, per esempio della costruzione dei porti, dell’utilizzazione delle strascico sui bassifondi, delle reti a maglie troppo strette dei pescatori, tutte cose che non hanno nulla a che fare con la chimica e l’industria ma che hanno ugualmente effetti devastanti. La pesca subacquea non è certo la principale imputata ma viene ad aggiungersi, moltiplica gli effetti della polluzione, il problema è dunque molto complicato e non può essere risolto senza una presa di coscienza della popolazione a tutti i livelli, in tutte le classi”.
Quindi comandante, i governi sono lenti a muoversi, a mettersi d’accordo, ma ci sono piccole-grandi responsabilità di ognuno?
“Certo, ma sono anche convinto che ognuno possa fare qualcosa: la nostra fondazione riceve contributi da poco più di un milione di persone: non è gigantesca ma importante. La fondazione ha abbandonato temporaneamente la speranza di convincere i governi o gli uomini d’azione, perseguiamo invece l’obiettivo di mobilitare i cittadini. Devono essere loro ad esigere che tutti i partiti politici siano intransigenti nei confronti dei diritti delle generazioni future”.
L’eredità che lasciamo ai nostri figli è un tema che ritorna spesso conversando con Cousteau.
“Abbiamo preparato un progetto di dichiarazione dei diritti delle generazioni future che abbiamo esposto al segretario generale delle Nazioni Unite. Per essere adottata bisogna che venga proposta all’Assemblea Generale da almeno due Paesi. Per ora abbiamo trovato un solo Paese disposto a presentarla”.
“C’est fou”, è folle, commenta. È folle investire miliardi nelle centrali nucleari (“sono bombe che possono esplodere per qualsiasi incidente”) invece che nelle ricerche per le risorse alternative, l’energia nucleare pulita…
Una battaglia senza speranza?
“Alcuni contenuti ecologici si ritrovano in molti programmi di diversi partiti ed in diversi Paesi del mondo. Non è ancora molto, ma è bene. Pensi a com’era la situazione quindici anni fa. Questa conversazione non avrebbe avuto luogo. La gente avrebbe capito di cosa si parlava. È stato un progresso considerevole arrivare qui, e bisogna continuare perché non è un obiettivo che si raggiunge da un giorno all’altro, ci vuole tempo. Bisogna continuare ad agire e combattere”.
Ecco, il fascino che emana quest’uomo di mare, mosso dalla curiosità (“per il mare, la vita, per tutto”), che gli anima lo sguardo quando parla, come i bambini, sta nella sua perseveranza senza animosità. Non combatte guerre sante, semplicemente dice “non voglio consegnare una terra disastrata”. Lavora “senza aspettare la catastrofe per reagire” e credo si chieda continuamente “cosa lasceremo ai nostri figli?”.
Il commento
di Carlo Crovella
Nell’ambito delle celebrazioni per i 40 anni di Piemonte Parchi vengono riproposti alcuni articoli “storici” apparsi nell’allora versione cartacea della rivista. Articoli che hanno davvero fatto epoca, come questa rimarchevole intervista (1987) al grande oceanografo Jacques Cousteau, pioniere dell’ambientalismo nei decenni in cui il grande pubblico non riusciva neppure a comprendere cosa fosse il concetto stesso di tutela dell’ambiente. Sentiamo cosa ha da dirci, il “Comandante” Cousteau, a distanza di così tanto tempo. Come avremmo fatto bene a seguirne gli insegnamenti fin da subito!
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Ho vissuto le stesse cose di Cominetti. Ma è sul mare che ho scelto di lavorare, finendo a conoscere e a collaborare con lo stesso Albert Falco.
Una parte importante della mia vita. Un messaggio ancora più ché attuale per ognuno.
Mi associo a Cominetti, ricordo con grande nostalgia i documentari di Cousteau e della sua nave Calipso, mi sembravano un’immersione nell’avventura.
Cosa lasceremo, sicuramente non un grande esempio da seguire.
Ognuno dovrebbe fare la sua parte nel suo piccolo. Lo penso da sempre anch’io e sapere che uno dei miei modelli di gioventù sosteneva un concetto così semplice e lampante mi fa molto piacere. Praticamente sono cresciuto a pane e Cousteau e quando c’era un suo documentario in tv, avevo l’autorizzazione dai miei genitori a stare sveglio anche dopo Carosello.
Ho raccolto i fascicoli dell’enciclopedia del mare Oceani (che ho ancora) e ho sognato di imbarcarmi sulla Calypso, immergermi con il mini-sommergibile Deepstar e studiare lo squalo bianco dalle gabbie che ogni tanto distruggeva.
Ho fatto la guida alpina ma Cousteau mi ha influenzato non poco, anche in montagna.
De belles idées pour ceux qui ont tout et trop, mais pour ceux qui n’ont rien et qui en veulent…
5, c’è una corrente di pensiero che dice quella la massima popolazione che il pianeta potrebbe sostenere imperituramente….a patto che l’umanità si ritirasse su metà pianeta. Forse una utopia, ma che da il senso delle possibilità sia del pianeta che del genere homo. Per ora, noi che abbiamo avuto, dovremo emigrare verso i luoghi da dove vengono loro.
@ Enri al 4. ” . . . a quali figli lasceremo a questo pianeta”. Domanda alla quale nessuno sul Globulo Terraqueo è in grado di rispondere, neanche con l’aiuto di tutte le I.A.
3. Già, e pensa un po’, invece di accontentarsi dei loro bisogni vengono a rompere qua da noi occidentali. Se ne rimanessero nella loro miseria, così possiamo spingerci fino a 10/12 miliardi.
Pensiamo sempre (almeno cosi si sente dire) a “quale pianeta lasceremo ai nostri figli e molto meno a quali figli lasceremo a questo pianeta”. Questa frase non l’ho detta io ma una persona che ha un’acutezza di pensiero ed una visone delle cose ben superiori alle mie. La frase parla da sola, senza bisogno di ulteriori spiegazioni. Sintetizza un concetto, mi verrebbe da dire, ovvio ma che spesso, se non nella maggior parte dei casi, rimane sullo sfondo quando dovrebbe essere la preoccupazione primaria.
Se posso…dipende dai bisogni. A Un etiope servono 9 volte di meno risorse di un occidentale
E se decidessimo di lasciare ai posteri, se non ai nostri figli, un pianeta meno sovraffollato?
È difficile vivere in una casa in cui abitano otto miliardi di persone.
Un visionario alla resa dei conti più che un profeta. La sua generazione ha lasciato alla mia un mondo più inquinato. Ora che noi abbiamo la sua consapevolezza, non mi sento di affermare di essere in grado di lasciare un mondo più pulito a mio figlio.