Croci e simboli della montagna
di Ines Millesimi
Estratto di un capitolo tratto dal volume di Ines Millesimi, Croci di vetta in Appennino (Ciampi, Roma 2022).
Sacralità delle montagne e comparsa delle croci
La prima notizia di apposizioni di croci in montagna, come segno del passaggio dell’uomo e come simbolo di ringraziamento cristiano, apparve in Francia nell’anno della scoperta dell’America. Da quel momento in poi questa pratica è diventata consuetudine. Il fenomeno di croci sulle vette è nel complesso meno marcato in Francia (dove prevale storicamente una posizione più rigorosa della laicità e dove spesso le croci nei Pirenei sono state vandalizzate o asportate), come anche in Slovenia[1], dove è più presente lo stolp (torre), e in Inghilterra, in cui prevalgono piuttosto i cippi, come del resto avviene nella catena dei Carpazi in Repubblica Ceca e Romania e nei Monti Tatra tra Slovacchia e Polonia. Al contrario nelle regioni cattoliche delle Alpi, in Svizzera[2], in Austria e in Baviera, in Spagna e in Italia (soprattutto nel Tirolo) si sono susseguite nel tempo vere e proprie stratificazioni di croci anche sui punti più alti delle cime, dovute alla fervente fede cattolica delle comunità pedemontane e per iniziativa di diversi gruppi e associazioni non solo alpinistiche e confessionali. Una croce cattolica si trova nelle Ande dell’Argentina, sulla vetta dell’Aconcagua 6961 m, il summit più alto delle Americhe e dell’emisfero australe, ed è di modeste dimensioni.
In Asia Centrale nel Kyrghyzstan, una bassa croce ortodossa figura invece accanto al busto in bronzo di Lenin sul vertice del Lenin Peak 7134 m. In Spagna ha destato curiosità l’azione delle amministrazioni di sette comuni spagnoli del Paese Basco che nel 2014 hanno rimosso gran parte delle croci dal Monte Hernio 1078 m, una montagna iconica per la sua popolarità, di facile salita pure nell’ultimo tratto roccioso, molto panoramico. A partire dal 1911, anno dell’apposizione della croce più antica, hanno iniziato disordinatamente a proliferare tante croci sul suo vertice, fino alla crescita inverosimile degli ultimi anni, al punto da essere soprannominato «la montagna delle mille croci». Eccetto la grande croce centrale o la croce del Calvario, insieme a poche altre croci storiche rimaste in situ, i simboli sono stati tutti asportati dopo aver instaurato un difficile dialogo con le comunità; tante croci personalizzate con foto e targhe in memoria erano state infatti apposte dalle famiglie per commemorare i loro defunti, tanto che sono state percepite come un simbolico cimitero in quota. Ma anche un potenziale pericolo per i pellegrini e per gli escursionisti che sarebbero potuti incappare nell’eventuale caduta delle «costruzioni» più pericolanti. La mancanza di regolamenti in merito aveva determinato involontariamente un impattante disturbo sullo skyline della montagna, una percezione compromessa dei panorami e del paesaggio, occultati parzialmente da una selva disordinata di elementi[3].
Certamente l’installazione più impressionante resta la cosiddetta Collina delle Croci in Lituania, meta di pellegrinaggio e di un turismo internazionale per l’attrazione delle oltre quattrocentomila croci piantate per devozione su una minima altura: una tradizione popolare che risale a secoli fa e che si è accresciuta in modo esponenziale nella seconda metà del secolo scorso, diventando espressione riconosciuta di identità nazionale lituana nonostante il regime sovietico abbia raso al suolo più volte (1963 e 1973) quell’affastellamento spontaneo e stupefacente di croci di ogni foggia e dimensione.
Nel 1492 abbiamo testimonianza in Francia del primo alpinista «ufficiale» della storia, il soldato di ventura Antoine de Ville, il quale nel suo resoconto della prima salita «spaventosa e terrificante» sulla vetta «incantevole» del Mont Aiguille 2085 m, la torre vertiginosa del Massiccio del Vercors, scrisse di aver fatto erigere «negli angoli dell’altopiano, tre grandi croci»[4] in onore di Carlo VIII, re di Francia, e per ringraziamento a Dio dell’impresa, notevolissima per quei tempi stando alle attrezzature utilizzate.
(…) Un altro pioniere delle salite alpinistiche del Medioevo legate all’apposizione di simboli sacri è Bonifacio Rotario d’Asti che nel 1358 portò un’immagine santa sul Monte Rocciamelone 3538 m, una cima delle Alpi Graie al confine della Valle di Susa, molto più alta e ben più impegnativa del Ventoso del Petrarca. Riuscì a installare un ex voto per la liberazione dalla sua prigionia in Turchia durante la crociata in Terra Santa. Secondo altri, invece, la sua iniziativa sarebbe nata come preghiera per la liberazione della Contea di Asti dalla Signoria dei Visconti (dal 1342 al 1389). (…) Immagini di croci e di figure mariane trovarono così «casa» in montagna, e non solo negli spazi chiusi delle chiese dove svolgevano uno scopo liturgico, legato alla catechesi. Al posto del trittico medievale, in epoca moderna sono stati apposti sulla vetta: il santuario più alto d’Europa, la statua in bronzo della Madonna (1899), un bivacco, un busto del re Vittorio Emanuele II, oltre al vertice trigonometrico e a un traliccio parafulmine.
Dopo una lunga pausa di duecento anni, il processo scientifico di conoscenza delle Alpi e delle montagne europee proseguì nei modi più strutturati e diffusi, propri del secolo dei Lumi. (…) Come ha evidenziato Antonio De Rossi[5] «la costruzione del paesaggio alpino», cioè l’invenzione della montagna, salita dai pionieri, perlustrata e osservata dagli scienziati per le loro scoperte, fonte d’ispirazione per gli scrittori e per gli artisti che la rappresentarono, divulgata dai viaggiatori nei loro diretti resoconti, sancisce in fondo la separazione dell’uomo dalla Natura, prima ancora che la montagna diventasse «terreno di gioco» e di «conquista» per gli alpinisti moderni[6]. Nell’Ottocento molte pratiche e altrettanti saperi, esperienze e simboli vengono trasferiti dalla dimensione urbana a quella montana, facendo diventare le Alpi uno straordinario laboratorio di sperimentazione tecnica, ingegneristica e architettonica. Con la conseguente trasformazione fisica del paesaggio alpestre, più antropizzato ed edificato, proteso verso lo sviluppo locale perché confinato da tempi secolari nella dimensione di marginalità economica, produttiva e sociale, si costruiscono nell’epoca moderna non solo infrastrutture, ma anche gli stereotipi, i simboli della montagna tipica, funzionali per rappresentare in modo conforme il «paesaggio delle altezze». Nell’epoca contemporanea si tende a fare della montagna un «non-luogo», una cornice per l’offerta di eventi, esperienze wellness o altre manifestazioni ludico-ricreative standardizzate, in cui per lo più è frammentata la gran parte dell’armonia territoriale, sono recisi i legami con l’unicità, l’identità sociale e la tradizione storica. Più che alla convergenza di interpretazioni plurali e utili, che tentino di unire passato e futuro con i principi della salvaguardia, si è giunti a una fase di stallo, in cui invece di cercare soluzioni alternative e risolutive a proposito del paesaggio montano e delle attività umane più coerenti, si tende a semplificare e a fare di esso il teatro conflittuale di dualismi e polarizzazioni: la montagna di chi è? Spazio o luogo? Dicotomia tra tradizionalismo/sviluppismo? Nel mentre la montagna si sta sempre più patrimonializzando[7] e in molte zone spopolando. Ma anche consumando ed erodendo[8] a causa della pressione turistica stagionale (aumenta la frequenza e l’intensità delle suddette attività), a causa di grandi opere per eventi effimeri (le complesse infrastrutture dei Giochi olimpici invernali nel 2026 a Cortina d’Ampezzo e in Valtellina) e a causa dei cambiamenti climatici. Alcuni studiosi hanno aperto nuovi spazi di riflessione su queste urgenti e complesse domande, proponendo interpretazioni innovative. (…)
Se l’uomo è stato costruttore dei paesaggi delle montagne non è detto dunque che sia stato un responsabile «custode» nella difficile mediazione tra il passato della tradizione e l’urgenza dell’innovazione. L’adattamento ai nuovi modelli di stili di vita non è per lo più avvenuto coniugando, con equilibrio consapevole e lungimiranza di scelte corrette nella governance, quei concetti di «buona vivibilità», da intendersi come interconnessione vitale tra qualità del paesaggio, qualità della vita e il valore del limite[9]. Non imposto, bensì incorporato nella cultura del vivere insieme, proprio come maturazione di un comportamento abituale, riconoscibile dalla comunità, attraversata da un nuovo processo di educazione e consapevolezza. Proposta utopica? Questa riflessione – e la sua domanda collegata – introduce un passaggio nodale:
“I nostri antenati di epoca preistorica e protostorica, ma anche di epoca storica premoderna, non violentavano l’ambiente naturale perché certi elementi della natura venivano sacralizzati. Il dispositivo magico-religioso interveniva sui comportamenti modellandoli. Se si eludeva la norma incorporata, che era norma sostanziale, si prefigurava quella che gli antichi greci chiamavano la hybris, cioè la violazione del limite per eccesso di superbia o «tracotanza», alla quale corrispondeva la némesis, ovvero la punizione divina[10]“.
Abbiamo accennato nel precedente capitolo alla pratica di cristianizzazione con l’incisione di croci rupestri per rimuovere la componente pagana insita in determinati luoghi di culto sulle alture e nei ripari delle grotte e nelle foreste. I luoghi sacri fin dalle origini sono nati negli spazi isolati e selvaggi della Natura proprio perché centri ideali in cui trovare risposte metafisiche a necessità spirituali, prima tra tutte quella di meditare sul mistero della vita e sulla paura della morte. Pertanto montagne e sacralità nella cultura occidentale e in quella orientale rappresentano un binomio indissolubile nei secoli: la montagna come centro del mondo terrestre, come luogo delle rivelazioni (teofanie e cratofanie, cioè manifestazioni della divinità attraverso le forze dirompenti della Natura) e come tema del viaggio di matrice cosmica[11]. L’Axis mundi[12], presente in differenti religioni e mitologie, è un asse verticale che congiunge il Cielo, la Terra e gli Inferi e che in modo figurato, attraversando questi tre livelli del Cosmo, converge nel centro con i quattro assi cardinali, indicatori di direzioni nello spazio. Di nuovo la forma precipua che ritorna è quella di una croce.
Tuttavia il senso della dimensione sacra e solenne che appartiene alle montagne a ogni latitudine – e in particolare a quelle che sono mete di pellegrinaggi, cioè riconosciute dalla pratica religiosa come «montagne sacre» – è insito nella montagna proprio in quanto tale, e questo l’ha tenuta al riparo «dal dogma dell’univocità» come era nelle religioni naturali, sostituite poi dalle fedi monoteistiche (Ebraismo, Cristianesimo, Islam). In alcune fasi della storia l’affermarsi di un solo credo ha creato intolleranza e spirali di violenza per ribadire l’assolutezza di una «verità» sull’altra, distruggendo i segni dell’uomo che simboleggiavano una fede diversa[13]. L’interesse anche in Italia per questo tema è dimostrato dal fatto che si stanno raccogliendo le firme, accanto alla richiesta di adesioni istituzionali, per la proposta di riconoscere una vetta del Gran Paradiso, la bellissima piramide del Monveso di Forzo 3319 m in una zona tra le più integre del parco, come montagna sacra, consacrata alla Natura e da cui escludere ogni salita. L’idea è nata in sintonia e con gli scopi di tutela di un’area protetta, ma anche per dare concretezza al centenario del Parco Nazionale del Gran Paradiso che si celebra nel 2022-2023 in concomitanza con il Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise (PNALM):
“Non ci sarà nessuna norma o divieto: si tratta di un progetto culturale, dell’accettazione libera di un principio e, soprattutto, dell’accettazione del concetto di limite. Lasciare uno spazio simbolico ma anche fisico in cui non si mette piede[14]“.
(…) Per il culto cattolico la santità in quanto tale delle montagne non esiste, ma la sacralità sopraggiunge allorquando su di esse avvengono rivelazioni divine determinanti ed eventi salvifici dal peccato. Quindi la montagna, punto di mediazione e di comunicazione tra Cielo e Terra, ha un significato evocativo come sintesi del Vangelo e come spazio metastorico[15]. Nell’Enciclica Laudato si’ di Papa Francesco alcuni passaggi chiave riguardano proprio i temi della responsabilità morale degli uomini per salvaguardare la «Casa comune» (la Terra con gli habitat e la biodiversità), dell’educazione ad una conversione ecologica dei loro comportamenti che influiscono sull’ambiente in modo peggiorativo, dell’energia motivante che dovrebbe muovere ognuno al cambiamento concreto, infine dello stretto rapporto tra ecologia integrale ed essenza dell’umanità. Tuttavia, riguardo alle montagne, l’Enciclica fa soltanto riferimento alla dimensione contemplativa di San Giovanni della Croce che ne ammirava la grandezza senza separare la loro bellezza da Dio[16].
Un fenomeno singolare di dispositivi di sacralità, in cui natura e cultura dell’epoca si fondono per stupire o per ravvivare il sentimento di fede e di pietà religiosa, sono rispettivamente i «Sacri boschi» e i «Sacri Monti»[17]. (…)
Breve storia di croci di vetta
Le croci di vetta dell’Ottocento erano apposte non solo per ringraziamento a Dio della felice riuscita dell’impresa senza conseguenze drammatiche per i salitori pionieri, ma anche per rimarcare la fede cristiana che accompagnava gli esploratori nelle loro prime scoperte scientifiche. Era consuetudine nelle religioni naturali più antiche omaggiare le divinità pagane con riti e sacrifici. Così, con la cristianizzazione delle Alpi, diventò impegno morale costruire materialmente un simbolo cristiano in vetta giustificandone la faticosa salita e per superare il senso di colpa di aver osato sfidare i «luoghi alti», quelli del mito e della trascendenza.
Ma già i segni dell’uomo per richiedere protezione figurativa anche nello spazio vissuto e transitato dalle comunità rurali e pastorali erano ormai penetrati ovunque, soprattutto nel XVII secolo e in Europa centrale soprattutto durante la Guerra dei Trent’anni. Sui passi e sulle colline, nelle valli alpine, lungo sentieri e mulattiere, come delimitazione di un confine comunale o nei crocevia degli alpeggi, oltre che dentro i paesi e i villaggi vi erano semplici croci e crocifissi di legno. Invero le cime, dimora di spiriti divini o diabolici, folletti o giganti mitici, erano state finora esenti dall’ospitare effigi o elementi simbolici poiché i rilievi più alti rappresentavano un tabù, una proibizione ancestrale. Segnale di queste superstizioni è la toponomastica che anima valli e montagne (ponte del diavolo, pizzo del diavolo, valle dell’Inferno, ecc.). Paure e credenze spaventose per l’ignoto, ma anche minaccia potenziale e reale di pericolo: distacchi, slavine e valanghe sui villaggi pedemontani a causa dell’allungamento delle lingue glaciali che avanzavano rapidamente a partire dal XV secolo, erano i motivi più rilevanti. Tanto che quelle masse di ghiaccio che si proiettavano verso la valle abitata erano rappresentate come personificazione di terrifici draghi[18]. Nelle leggende tradizionali e nei racconti immaginari di viaggiatori e alpinisti, i boschi dei monti erano rifugio di disertori, le grotte e le alte rupi piene di neve erano il regno dei fantasmi di dispersi o caduti in montagna. L’isolamento e la dimensione selvatica della vita alpina attraevano «il foresto, l’ostile, il primitivo». La montagna di «confino» dell’aggressività primitiva o criminale[19] calamitava i desideri più misteriosi e causava inquietudine esistenziale. I primi a capirlo erano i curati di montagna che avevano il ruolo di mediatori tra la comunità locale, i forestieri e i viaggiatori desiderosi di informazioni e ospitalità.
Nell’Ottocento la spinta a salire le cime nasceva dal desiderio di rilevamento scientifico delle altezze, non per esperire la trascendenza, come accadde a Mosè che sul Monte Sinai ricevette da Dio le tavole della legge cristiana, o nella vita di Gesù, in cui la montagna per tre volte è stata il «luogo di manifestazione e di solenne proclamazione» (il Discorso delle Beatitudini, la Trasfigurazione, l’Ascensione)[20]. Accantonata la teologia e le catastrofi bibliche, i geologi e i naturalisti salirono sulle montagne per studiare e affrontare con osservazioni empiriche rigorose i diversi interrogativi sulla creazione e trasformazione della Terra.
Come si è scritto nel precedente capitolo, la prima croce di legno fu apposta nel 1800 sulla cima del Groβglockner 3798 m, la montagna più alta dell’Austria, oggi meta degli alpinisti nel cuore del Parco Nazionale Alti Tauri. La prima spedizione scientifica sul Groβglockner era stata organizzata e finanziata dal vicario generale e da un principe-vescovo, i quali avevano messo insieme una squadra di botanici e alpinisti selezionati per gli incarichi scientifici. (…)
Erette, distrutte dai fulmini e abbattute dai venti, rinnovate e riparate, oppure sostituite, le croci di vetta – alcune collocate sulle Alpi con la funzione di segnale di confine tra due stati – nel corso del XIX secolo non furono oggetto di discussioni o descrizioni nei documenti. Al più, le fonti riportano brevi cenni su celebrazioni inaugurali. Tuttavia un primo tentativo di documentazione e approfondimento con un approccio storico e progressivamente più laico si trova a partire dalla metà del XX secolo. Nel 1957 Wilhelm Eppacher[21] fu il primo a scrivere un libro sulle croci di montagna e di vetta in Tirolo editato dalla libreria universitaria di Innsbruck. Nel testo si dà conto dell’usanza ottocentesca di crocifissi domestici legati ai pali ed eretti sulle colline sia per raccogliere in preghiera i contadini che non potevano scendere nelle chiese rurali dei villaggi, sia a protezione dall’alto dei paesi pedemontani ben visibili alle comunità che vi facevano pellegrinaggi. Inoltre si riferisce delle cosiddette «Wetterberge» (montagne del meteo) su cui per antiche convinzioni romantiche si apponevano croci a doppia traversa (più rara con tre traverse di diversa lunghezza), probabilmente con una qualche funzione di parafulmine. Le «croci Scheyern» (dal nome dell’omonimo monastero bavarese) sono simili alla croce di Lorena o croce patriarcale e sono descritte nel 2002 da Claudia Mathiz[22] nel suo libro ricco di informazioni sulle croci di vetta austriache e nel quale sono riportati oltre duecento pensieri tra sacro e profano trascritti dai libri di vetta. L’usanza del libro di vetta, custodito nell’epoca moderna in una cassetta metallica legata alla croce, pare debba risalire intorno al 1860, quando gli intraprendenti alpinisti ed esploratori anglosassoni, i pionieri di queste discipline, presero l’abitudine di ricordare la prova del loro passaggio lasciando un biglietto con i loro nomi dentro una bottiglia vuota di vino, infilata a testa in giù nella neve o custodita sotto una piramide di pietre.
Con la tragica affermazione di Hitler, le croci di vetta dei territori di lingua tedesca avrebbero dovute essere sostituite da spade secondo il misticismo nazista, ma il piano fu impedito dallo scoppio della guerra e dalla ferma opposizione delle popolazioni locali. Tuttavia nel 1933 e nel 1945 alcune croci vennero abbattute da fanatici nazisti che avrebbero voluto sostituirle con il simbolo della svastica[23].
E in Italia? Nel passaggio tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento si intensifica l’opera di evangelizzazione delle vette. Nel 1896 sul Monviso – il «Re di pietra» visibile da Torino e oltre – venne montata la prima grande croce di ferro e apposta un’immagine in bronzo della Madonna per iniziativa del parroco cuneese di Crissolo; nel 1925, al posto della croce precedente ormai deteriorata, fu collocata sulla cima una nuova croce metallica per celebrare la famiglia reale dei Savoia. Al Giubileo cattolico si aggiunge così il giubileo monarchico sotto il pontificato di Pio XI, il papa alpinista. Il simbolo del fascio littorio apposto nel 1936 sul culmine della croce, segno del nuovo potere fascista, restò per pochi giorni, giusto il tempo per fare foto celebrative delle nuove cartoline del Monviso, e poi sparì. Nel 1896, anno della prima croce sul Monviso, il XIV Congresso cattolico italiano riunito a Fiesole annunciava su impulso di Papa Leone XIII un «piano di voto», un progetto per rendere omaggio a Cristo Redentore e per celebrare degnamente il Giubileo del 1900 nell’Italia cattolica e postunitaria. Il costoso piano prevedeva di erigere un monumento sulla «vetta più visibile e insieme di possibile accesso», anche per promuovere un fattibile pellegrinaggio. Il programma prevedeva di individuare diciannove monti a differenti quote e di raccogliere offerte nelle diverse diocesi italiane. Gran parte dei monumenti previsti dal «piano di voto» fu inaugurata nel 1901. Anche la cima del Monviso si arricchì di un bassorilievo in bronzo del Cristo Redentore. Seguirono così negli stessi anni iniziative identiche nel significato e parallele nell’uso di simboli (croci, figure di Madonna e di Gesù) su impulso di diversi proponenti locali, sia in montagna sia in pianura. La lista è lunga ed è stata restituita con dovizia di dati da Oscar Gaspari[24], autore di uno studio sull’argomento da un punto di vista sociale, politico e giuridico. Fuori da questo elenco resta da citare tra tutte la famosa croce di vetta del 1902 sul Cervino, per iniziativa della guida alpina, e poi vicario di Châtillon, Antoine Carrel. Secondo lo storico Marco Cuaz si trattava di una lotta di simboli tra croci e bandiere (cristianizzazione/nazionalizzazione) per il controllo del territorio, anche in rapporto alla diffusione delle sezioni del Club alpino italiano, portatrici di valori laici ed elitari dell’alpinismo e della conoscenza positivistica delle montagne. I soci di allora appartenevano per lo più alle classi aristocratiche e altoborghesi, erano inizialmente anticlericali e alcuni pure socialisti:
“Ma un vero e proprio piano per marcare con le croci i monti d’Italia indica non solo un mutato atteggiamento della Chiesa verso la montagna, ma anche la decisione di contrastare l’alpinismo «laico e massonico» e di usare le montagne come strumento di formazione del buon cristiano. Mentre sulle vette alpine si incominciava a piantare le bandiere nazionali, i cattolici iniziarono a celebrarvi messe, a issarvi statue di Cristo e della Madonna (…), a simbolo di una rinnovata alleanza. La lotta tra Stato e Chiesa non risparmiò le vette d’Italia, ma le trasformò in un campo di battaglia[25]“.
Per Gaspari l’operazione del Giubileo del XX secolo era più complessa e faceva parte di un programma politico di sviluppo delle montagne nell’ambito dello spirito religioso cattolico, una potente occasione di dare visibilità e protagonismo alle comunità valligiane altrimenti relegate a un ruolo di marginalità rispetto alla città. Quindi un piano di evidenza simbolica condivisa mediante la fede e di coinvolgimento educativo di massa grazie alla forza propagandistica del Giubileo, nel solco del programma politico del movimento cattolico. In definitiva, era la «ricerca di un riscatto da una condizione di minorità» che durava da molti secoli:
“Il Giubileo del 1900 dava la possibilità ai fedeli delle montagne di esprimere la propria fede e di farsi comunità e, contemporaneamente, al movimento cattolico, di coinvolgere le genti delle terre alte in una «politicizzazione delle cime» molto diversa da quella nazionalista[26]“.
Di lì a poco più di un decennio, la Grande Guerra avrebbe unito tutti sotto lo stesso destino, montagne comprese, perché proprio in montagna, lungo l’intero arco alpino e prealpino, si consumò il più grande Calvario della storia. In memoria di quella tragedia, alcune croci di vetta sono costituite dall’incrocio di pali di legno, residui di baracche degli alpini, tenuti assieme dal filo spinato, come è la precaria croce sulla Tofana di Dentro 3238 m, nelle Dolomiti. (…) La croce di vetta, come dimostrano alcune croci di valenza artistica site-specific, pensate proprio per inserirsi esteticamente e con rispetto nel paesaggio montano, assume una rinnovata valenza simbolica in cui tutti si possono riconoscere.
Dopo la Seconda guerra mondiale un gran numero di croci furono donate per costituire memoriali contro l’odio, la violenza e le guerre. Nel corso degli anni Cinquanta (soprattutto in occasione dell’Anno Santo 1950) e Sessanta, si assiste a una proliferazione di questi simboli sulle vette, anche di scarsa qualità, soprattutto da parte di gruppi pubblici e associazioni confessionali, seguita dalle contestazioni degli anni Settanta e dalla richiesta di un maggiore rispetto laico per la montagna. Iniziano ad essere pubblicati articoli a riguardo e comincia a prefigurarsi la contrapposizione di due visioni della montagna, quella segnata da simboli religiosi e quella laica, priva di qualsiasi simbolo considerato orpello. Si cerca anche di liberare da esplicite connotazioni identitarie le croci di vetta apposte sul limite dei confini. Quando è entrato in vigore il nuovo statuto dell’autonomia dell’Alto Adige (1972), ci fu una clamorosa polemica, nata da un errore di confini, tra veterani sudtirolesi e alpini lombardi in merito alla croce del Monte Scorluzzo 3095 m, nel Gruppo dell’Ortles. Da allora è opportuno riflettere e distinguere tra «mentalità» e «territorio», tra la perdita di specificità simboliche, tradizionali e culturali, e i rischi della folklorizzazione, dell’esasperazione localistica ed etnica[27]. Con il «rampantismo» degli anni Ottanta tornano gli interventi di «monumentalizzazione» delle montagne soprattutto da parte di privati, con croci di vetta di un certo impatto, e seguono in alcuni casi i primi atti vandalici.
In Italia Marco Fraschia[28] ha compiuto nel 1997 una circoscritta mappatura dei simboli di vetta (croci, campane, figure di Madonna, volti di Cristo) perlustrando le terre alte valdesi, Valli Pellice e Germanasca legate alla tradizione cristiana-protestante, e realizzando una pionieristica monografia piuttosto che un vero e proprio censimento. (…) Un recente quadro illustrativo sul tema delle croci di vetta è il volume con molte foto scritto dal giornalista e scrittore Hans–Joachim Löwer[29]. Per la prima volta è stata ricostruita, anche in modo brillante e colorito, una densa cronaca di sogni, trionfi e tragedie legate alle più importanti cento croci di vetta che insistono sull’arco transalpino e in quattro nazioni. Le croci selezionate sono state 43 in Austria, 34 in Italia (di cui 19 nella Provincia autonoma di Bolzano-Alto Adige), 17 in Svizzera e 6 in Germania (del gruppo, ben dieci ricadono su due Stati confinanti). Il corposo catalogo si conclude con la storia della grande croce di vetta dell’Alberfeld-Kogel 1709 m, in Austria, issata nel 2017. (…) Infine si segnalano due clamorosi casi per iniziativa privata, tendenzialmente giudicati come «immagini lunapark» in contrasto con la tradizione: il grande ferro di cavallo sulla vetta dell’Hoher Rosshuf (Pié di Cavallo in italiano 3199 m), nel gruppo del Venenediger, al confine tra il Tirolo orientale e l’Alto Adige, e la mezza luna installata sulla vetta del Berg Freiheit (Libertà in italiano 2140 m) nel Massiccio dell’Alpstein, nelle Prealpi di Appenzello. Entrambi sono stati asportati in breve tempo. (…)
Note
(le note con il nome di un autore sono in relazione con la bibliografia che pubblicheremo alla fine della seconda puntata)
[1] Negli ultimi anni si sta assistendo a un limitato incremento di erezioni di croci sulle cime slovene a confine con l’Italia; fino ad ora ne erano rimaste immuni, la vetta era segnata da un palo, o da un omino di pietre o dallo stolp, cioè una torretta metallica che funge da riparo come si vede sulla cima del Monte Triglav (Tricorno 2864 m), dove dal 1895 torreggia l’Aljažev stolp. Jakob Aljaž era il parroco di Dovje, piccolo paese alla base della montagna, che prima acquistò il terreno della cima e poi nel 1895 eresse la torretta che in origine aveva sulla cupola conica la bandierina metallica, alla fine degli anni ‘60 la stella rossa del periodo socialista, e dopo il 1991, con l’indipendenza slovena, di nuovo la bandierina originale. Altro fenomeno recente: in formato miniatura (cm 30 ca.), lo stolp «colonizza» le cime ancora vergini dalle croci e, a volte, le affianca.
[2] La rassegna di croci in Svizzera scritta da Daniel Anker è stata pubblicata nel 2012 sul sito del Club Alpino Svizzero https://www.sac-cas.ch/it/le-alpi/storie-di-croci-31505/
[3] Si veda https://cadenaser.com/emisora/2014/10/12/radio_san_sebastian/1413072076_850215.html. In Spagna, grazie all’Osservatorio sulla laicità, nel 2022 è stato pubblicato sulla rete internet un database a cui tutti possono contribuire per monitorare il numero (attualmente 495) e la collocazione di croci e simboli religiosi su cime e spazi pubblici: https://laicismo.org/datos-sobre-cruces-y-simbolos-religiosos-en-las-cumbres/74043/
[4] MESSNER, Reinhold 1997, p.25.
[5] DE ROSSI, Antonio 2014, 2016.
[6] Vedi Il rapporto Uomo-Natura descritto da Enrico Camanni in MOTTI 2013, pp. 34-45.
[7] DE ROSSI, Antonio 2014, p. XXII.
[8] CASANOVA, Luigi 2020.
[9] SALSA, Annibale 2019.
[10] Sull’ambiente naturale e paesaggio culturale, sulla capacità di trasformazione e senso del limite, SALSA 2019, pp.18-19.
[11] POLIA, Mario 2016, pp.169-198. Si veda anche il saggio di Mariangiola GALLINGANI, Topografie della fede: la montagna, il sacro, la violenza, https://www.cittametropolitana.bo.it/statistica/Engine/RAServeFile.php/f/05gallinganix.pdf; sul tema «I segni del Sacro sulle montagne» si è tenuto un convegno nel 2006 a Sondrio, organizzato dalla Fondazione Luigi Bombardier, cfr. https://www.fondazionebombardieri.it/node/44
[12] ELIADE, Mircea 1984, pp. 384 sgg.
[13] MESSNER, Reinhold e MÄRTIN, Ralf-Peter 2022 p. 23.
[14] https://aostasera.it/notizie/montagna/la-montagna-sacra-su-cui-non-salire-un-progetto-nel-parco-gran-paradiso; si veda inoltre https://torino.corriere.it/piemonte/21_dicembre_09/gran-paradiso-monveso-forzo-sia-montagna-sacra-inaccessibile-contemplare-bcb2525e-58cb-11ec-95ed-0f7dcc6ae2dd.shtml
[15] RAVASI, Gianfranco 2001.
[16] PAPA FRANCESCO 2015, paragrafo234, p.176.
[17] BARBERO, Amilcare 2001.
[18] DALL’Ò, Elisabetta 2019, pp. 197-222.
[19] ARNOLDI, Christian 2007.
[20] RIES, Julien 2009, p. 21. Si veda anche RAVASI 2001.
[21] EPPACHER, Wilhelm 1957.
[22] MATHIS, Claudia 2002, pp.12 sgg.
[23] LŐWER, Hans-Joachim 2019, pp. 95-99.
[24] GASPARI, Oscar 2021, p.51; Id. 2022.
[25] CUAZ, Marco 2005, pp. 74-75.
[26] GASPARI, Oscar 2021, p. 14.
[27] SALSA, Annibale 2009.
[28] FRASCHIA, Marco 1997.
[29] Id. 2019.
(continua in https://gognablog.sherpa-gate.com/croci-e-simboli-nella-montagna-2/)
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Per tutti gli interessati, segnalo che domani MARTEDI’ 14 marzo alle ore 21 il CAI Lazio organizza l’evento di presentazione con slides del volume Croci di vetta in Appennino. Invito tutti voi a partecipare in piattaforma facendo domande o una riflessione. Ecco il link GOOGLE MEET ztd-fctp-wyb
11) Grazie! Per ulteriori info PER TUTTI, compreso l’eventuale acquisto del volume per chi è interessato, basta scrivere a ines.millesimi@unitus.it
R. 9)- mi scuso con la redazione che l’errore andava segnalato in altra modalità…ho visto che è stato già corretto, grazie. E con Ines perché non ho approfondito di cosa realmente tratta la sua ricerca. E visto che probabilmente abbiamo amicizie comuni appena riesco ti invio un paio di foto di croci over 2000 in zone meridionali dell’ Appennino. Ciao !
5) non c’era, sennò, se in legno, avremo bruciato anche quella.
In risposta al pensiero di Giampiero 8). Le foto e le didascalie sono della Redazione Gogna. Non le mie. Sono vincolata con l’editore e con i crediti. Le mie sono molto diverse, seguono un certo tipo di stile, omogeneo e classico, senza persone. Quanto alla storia della Croce di Monte Bove ho citato la storia nella scheda di un’altra croce di vetta dei Sibillini che ha una struttura a traliccio molto simile a quella del Bove. Ricordo che la mia schedatura tratta le croci di vetta in Appennino OVER 2000 m, ed esistenti fino ad agosto 2022.
Due parole solo per precisare che sulla terza foto la croce fotografata è stata scalzata o meglio abbattuta dal forte vento dopo che la potenza delle scosse sismiche dell’ottobre 2016 aveva completamente rivoltato sottosopra le rocce in cui era infissa, e non è un modo di dire… stessa fine ha fatto la più piccola croce con il Cristo che era installata dagli anni cinquanta sul pilastro del secondo tiro della cresta sud alla Quinta piccola, qualche centinaio di metri più sotto, qui oltre alla croce è venuto giù l’intero pilastro…circa un tiro di corda… La popolazione della valle di Ussita si sta organizzando per rimettere una croce simile sulla punta, che ha come toponimo appunto “Croce di Monte Bove”, da quanti anni era lì non saprei dirlo, il paese di Ussita è il paese di origine del Cardinal Gasparri, se qualcuno conosce i Patti Lateranensi forse ne ha sentito parlare… io posso solo dire che, avendo abitato lì sotto, la croce era una presenza abituale…che non mi ha mai creato nessuno scompenso…
Ringrazio Carlo Barbolino, ringrazio tutti che avete la pazienza e la curiosità di leggere questa breve analisi, estratto dal mio volume. Grazie Alessandro Gogna che hai voluto leggere il testo, molto utile!
Sacralizzare le montagne e sradicare i simboli del sacro.
Pensare in una tradizione millenaria e al contempo negarla. Insomma, come il barone di Munchausen, tirarsi fuori da un pantano sollevandosi per la collettiva.
La Madonna non c’era???
Gesubambino e il sottoscritto bivaccarono una quarantina d’anni fa su una cima dolomitica riscaldandosi al fuoco fatto con una croce di legno neppure tanto piccola.
Venne, ahimé, sostituita velocemente con una in metallo zincato che è ancora lì.
Complimenti all’autrice per lo studio veramente approfondito sulla questione. Per quanto mi riguarda le croci (quelle basse) possono risultare comode per asciugare le pelli o altro sfruttando i due bracci. In apuane passi la croce sulla Pania della Croce, per le altre tutte bocciate. Più di una volta ho asportato personalmente delle improvvisate e orrende croci sulla cima del Pizzo d’Uccello. Che dire poi della spada nella roccia, fortunatamente bassa, sul monte Cella in Appennino, cosa c’entra la spada nella roccia, questo rimane almeno per me un mistero. Spero che qualcuno pensi a toglierla.
Lasciateci i “nostri” simboli. Quelli che ci sono sono testimoni della nostra cultura. Invece sul proliferare di croci e Madonne in vetta e sull’opportunità di NON metterne di nuove (specie se alte 15-20-30 metri(, rinvio al mio commento n. 1 in calce all’articolo de4lla stessa autrice pubblicato sul Blog in data 11 febbraio.
https://gognablog.sherpa-gate.com/croci-di-vetta-in-appenino/
Non amo oggetti, tantomeno croci, sulle cime ma vorrei citare due casi emblematici.
1) Sul Monte Pittaine nel Comune di Baunei in Sardegna, è stata eretta una croce da relativamente pochi anni. Da quel momento molti degli abitanti del luogo hanno iniziato a camminare per raggiungerla.
2) Sulla cima del Piz Boé, massima elevazione del gruppo di Sella, c’è un pannello metallico riflettente alto una dozzina di m e largo una quindicina (a occhio). Trattasi di installazione militare oggi soppiantata dall’uso dei satelliti. Cosa mai staranno aspettando a levarla?
Ci sarebbe da insorgere ancor più che verso la costruzione di nuovi impianti di risalita, eppure…