Da un patto
di Michele Rivero
(pubblicato su Scandere 1949)
Da un patto concluso sulla soglia di questo secolo, una storia è nata e lambisce un dirupo della Valle Stretta.
Lettura: spessore-weight(1), impegno-effort(2), disimpegno-entertainment(2)
Agli occhi di coloro che, oltrepassato il bacino delle Sette Fontane, s’inoltrano nella Valle Stretta, la più occidentale – ormai solo geograficamente, purtroppo – tra le valli alpine d’Italia e, superato il pendio seguente, avanzano sul bel piano incorniciato, alla sinistra orografica, dagli enormi, interminabili ghiaioni che fasciano i fianchi sud-ovest dei Re Magi, s’impone, sul lato opposto, una vista singolarmente contrastante. “Per circa un chilometro” scrive Eugenio Ferreri nella sua Guida delle Alpi Cozie settentrionali, vol. III, pag. 6 “si spiega una liscia, altissima parete di nude rupi di calcare giallastro e rossastro, assolutamente a picco, sul cui ciglione superiore, a straordinaria altezza, appaiono alcuni pini sospesi ed inclinati sull’abisso quasi a sogguardare nel fondo della valle”.
Quella selvaggia e tetra bastionata aveva attratto il mio sguardo fin dal giorno assai lontano in cui mi ero iniziato, ragazzo, alla magia dell’alta montagna, raggiungendo all’aurora la vetta del Tabor con alcuni cacciatori valligiani. Nelle svariate, successive visite alla cara valle della mia iniziazione, il lungo percorso del piano aveva sempre sospinto il mio sguardo alla contemplazione di quella sfinge, nella ricerca fantasiosa e curiosa di un’ipotetica via che, lungo le rughe sottili e attraverso le placche levigate dell’imponente sua faccia, permettesse di raggiungerne le chiome di altissimi pini, inclinati sulla valle come in atto d’invito beffardo.
Parete dei Militi. Sulla sinistra, l’itinerario di Leo Dubosc; (1) via del Pilastro; (2) via della Gola; (3) via del Ramarro. Foto: Stefano Ceresa.
Avevo constatato, ogni volta, nei miei compagni, pur differenti per temperamento e tendenze, un’analoga suggestione che torceva loro il collo per lunghi tratti di strada, verso l’incombente dirupo ed imprimeva al loro andare un’astrattezza da sonnambuli. Gli spiriti non volgari sono sempre accomunati dalla sensibilità alla potenza del creato.
Un caro amico, ricco d’immaginazione, indicò la soluzione del problema arrampicatorio nell’impiego, quale capo-cordata, di un ramarro gigante, opportunamente addestrato. Così egli mi disse quando gli indicai l’itinerario che avrei prescelto, proprio nel tratto centrale e più alto del bastione… se me la fossi sentita.
Finalmente, nell’autunno del 1936, mi accordai con Alfonso Castelli per compiere una decisa esplorazione, sul mio “itinerario ideale”. Avevamo, nell’estate precedente, compiuto con Gabriele Boccalatte e Renzo Ronco, alcune ascensioni tra le più difficili nel gruppo dolomitico del Civetta, e speravamo di aver acquisito l’esperienza che ci pareva necessaria per affrontare le pendenze e le conformazioni di quella parete, in apparenza tanto simili alle più severe crode e tanto diverse dagli aspetti a noi famigliari dell’Alpe “occidentale”.
All’alberghetto del Mélézet passammo una notte agitata. La pendenza delle reti metalliche congiurò con l’indole dei sogni per farci ruzzolare più volte sul pavimento e così al mattino c’incamminammo in ritardo, insonnoliti e lenti, verso la meta, cioè il sommo del cono di deiezione più grande e più centrale sotto la bastionata. Il canalino di scarico dei sassi sfocia nel vuoto, a circa 15 metri dalla base, che è in netto strapiombo e così i margini laterali e il vertice del cono sono staccati di qualche metro dalla parete e tra l’uno e l’altra esiste un avvallamento a guisa di corridoio.
Il vertice, staccato dalla parete, del cono di deiezione. Alla destra, l’attacco alle vie 1-2-3. Foto: Michele Rivero.
L’attacco apparente corrisponde al margine destro di un’alta caverna aperta al piede del salto strapiombante su cui si apre l’aereo sbocco del canalino, al quale volevamo giungere, innalzandoci fin oltre il margine superiore della caverna, poi traversando obliquamente a sinistra sotto la sporgenza di un lungo tetto, interrotto precisamente dal canalino. Mentre stavamo per raggiungere l’attacco, avvertimmo un precipitoso scalpiccio vicinissimo, dileguantesi man mano verso la nostra sinistra. Quale strana fauna di grossa taglia popolava quello squallore? Poco dopo, dal sommo del cono, identificammo un gruppetto di robusti quadrumani della nostra specie (homo rampicans) che si allontanava alla chetichella lungo il piede della parete per raggiungere, sotto un settore laterale di questa, a valle, l’attacco di un altro canalino meno ribelle. Essi, come sapemmo poi, avevano tentato il nostro passaggio nel pomeriggio precedente, lasciando sul posto del materiale, al cui ricupero avevano provveduto mentre Castelli e io stavamo giungendo. La nostra comparsa alla scoperta di un angolino ancor vergine della Terra aveva già stimolato il bacillo dell’emulazione, forza e debolezza del genere umano. Soltanto un errore d’intuizione del preciso punto d’attacco aveva impedito ai competitori di precederci. Rimanemmo sorpresi, perché i nostri pensieri , stavano aliando in altra sfera, quella, nientemeno, delle finalità sociali del Club Alpino Accademico Italiano.
Com’è possibile, mi osserverete, illudersi di agire su un piano così elevato, nell’atto di aggrapparsi a un anonimo e sporco burrone a bassa quota, separante un placido fondo di valle dalle soprastanti praterie disseminate di rifiuti vaccherecci?
Potrei senz’altro riferirmi al chiaro scritto programmatico-storico di Ettore Canzio, intitolato al CAAI e pubblicato sull’annuario sociale 1922-1923 e proseguire nel racconto, con viva soddisfazione dell’ipotetico lettore e sollievo dell’amico Ernesto Lavini, che ha tanto cortesemente voluto convincermi a scrivere per questo Bollettino. Temo però che la maggior parte dei giovani destinatari di queste note ignori quell’egregia trattazione del Canzio e ardisco farne breve cenno. Il CAAI sorse in Torino nel 1904 col concorso di un gruppetto ligure, facente capo a Lorenzo Bozano, e del nucleo valsesiano dei fratelli Giuseppe Francesco e Giovanni Battista Gugliermina. Il ceppo torinese, allora il più cospicuo d’Italia, traeva i suoi natali dai due valorosi iniziatori dell’alpinismo italiano senza guide, Cesare Fiorio e Carlo Ratti, maestri di altre memorabili figure di alpinisti, quali Canzio, Nicola Vigna e Felice Mondini.
Fu tuttavia la comparsa dello sci a chiamare, verso il 1900, uno sciame di giovani alla montagna, al seguito di Adolfo Kind che, essendo anzitutto alpinista, li iniziò alla vita dei monti, nel modo più mite, oggi si direbbe escursionistico, quello che era consentito dalle circostanze. Ben presto si provò il bisogno di organizzare valide cordate, mediante addestramento metodico, e “… si presentò evidente, imperativa, la necessità di creare una vera Scuola di Alpinismo la quale mentre dall’un canto ponesse in valore il programma dell’alpinismo senza guida, dall’altro procedesse con vigore e con passione all’insegnamento metodico e razionale dell’alpinismo nelle sue varie manifestazioni. Così nacque il Club Alpino Accademico Italiano”. Lo Statuto del CAAI ha fissato queste direttive e scuola si fece davvero, anche collettiva, sui “campi d’istruzione” nelle vicinanze di Torino, ma specialmente individuale, ad iniziativa di soci o gruppetti di soci del CAAI, inteso quale albo di liberi maestri in reciproco e fecondo contatto, piuttosto che quale organizzazione rigida con programma e gerarchia collegiali. Così fino alla vigilia della guerra del 1915.
Dopo il conflitto, che aveva spezzato la continuità dell’opera, si avvertì un certo invecchiamento dell’organismo sociale. I giovani soci e allievi di prima erano ormai maturi o anziani e per lo più pressati da altre cure, i giovanissimi dell’ultima generazione, mancato o diradato il contatto col CAAI, si orientavano bene o male da soli, fuori dall’influenza diretta degli antichi maestri, spinti tuttavia dal loro esempio lontano.
Così si formarono Gabriele Boccalatte e, con lui, alcune altre figure notevoli di quel periodo come Amilcare Crétier; così raggiunse pienezza la personalità di Giusto Gervasutti. La loro ammissione nel languente CAAI ebbe funzione di inserirli stabilmente nella direttiva fissata dai fondatori: diffuso ormai l’alpinismo senza guide, essi si adoprarono veramente, oltre che a praticarlo, a “… formare la sicura coscienza e l’abilità indispensabile” ai giovani che rispondevano al loro appello, unendo le rispettive cognizioni, esperienze e consigli, come indicava lo statuto dell’Accademico.
L’alpinismo torinese difettava ormai, per l’addestramento e l’allenamento adeguati al più alto livello tecnico raggiunto in altri centri, sotto gli esempi dapprima di Hans Dülfer e Paul Preuss, poi di Emil Solleder, di Emilio Comici, Celso Gilberti, Attilio Tissi e qualche altro, di vicine palestre naturali, accessibili ai più per ragioni di tempo e di spesa. Così furono aperti, dai giovani accademici di Torino, nuovi percorsi di “scuola”, sulla piramide del Monte Plu, sui Denti di Cumiana, sulla Rocca Sbarua del Freidour, ecc. Ma anche questi «campi d’istruzione» erano troppo modesti per fungere da trampolini diretti verso le più severe salite di roccia d’alta montagna.
Uscita del passaggio d’attacco comune alle vie 1-2-3. Foto: Michele Rivero.
In quell’anno 1936 stava per esprimersi, dalla matrice del CAAI cittadino, quella “Scuola d’alpinismo” con direzione e indirizzo accademici, che fu poi amministrativamente sottoposta all’egida della sezione di Torino del CAI e s’intitolò al nome di Gabriele Boccalatte dopo ch’Egli scomparve.
Fu il proposito di creare nuove, più impegnative vie di palestra nell’ambito della sorgente scuola, per uso dei maestri e dei più promettenti allievi, a farci accantonare l’idea del ramarro gigante buttata giovialmente (come a esaurire il pensiero di presuntuose velleità) dal buon Ervedo Zanotti.
Con questo spirito attaccammo il passaggio iniziale, legati a doppia corda, calzando pedule di manchon poco aderenti a quella roccia stranamente scivolosa, sfavorevolmente stratificata. Appigli friabili, chiodi malsicuri, inceppamenti di corde nei moschettoni, cautela nel procedere verso l’ignoto, ci occuparono parecchio tempo. Infine sostammo al termine del passaggio (una ventina di metri) in un sicuro cavo del canalino che pochi metri più in su è sbarrato da uno strapiombo. Usciti a sinistra, ci trovammo all’inizio di una zona di terrazze che si estende a scalinata verso l’alto e verso la destra, mentre a sinistra la parete séguita a innalzarsi a picco formando, con la rientranza corrispondente alla scalinata di centro-destra, un potente pilastro la cui linea di saldatura colla parete di sfondo forma una gola selvaggia tormentata da caverne e strapiombi.
Salimmo verso destra, traversando sotto l’alta parete terminale, compatta, minacciosa, solcata in mezzo da un camino nerastro che pare si perda sotto il ciglione, fra tetti giganteschi (per questo camino si svolse in seguito un deciso tentativo condotto da un valente accademico torinese). Si trattava di raggiungere in obliquo lo spigolo che definisce con ardita linea verticale il lato superiore destro di questa zona centrale della bastieonata e di provare un’esile traccia di camino che corre vicinissima allo spigolo: ma per raggiungere l’inizio di quella ruga occorreva superare un salto grigio compatto di notevole altezza, al di sopra di un pino solitario erto, come una sentinella, alla base del costolone. Una cinquantina di metri di arrampicata facile ci separava dal pino, ma era ormai tardi per proseguire, dovendo uno di noi rientrare a Torino di prima sera.. Iniziammo così la discesa che si concluse con un bell’atterraggio a corda doppia. Prima di raggiungere il fondo valle vedemmo il gruppo dei… competitori a un centinaio di metri sopra l’attacco del loro canalino, impegnati a calare uno dei componenti. Si trattava del capo-cordata, caduto nel tentativo di forzare la parte iniziale di una forra dall’orrido aspetto. Egli, come fu poi accertato, si era fratturato un femore e tuttavia con le braccia e la gamba sana si adoprava coraggiosamente nella discesa, sostenuto e sorretto dai compagni, con un complicato sistema di corde. La partita, per loro, non si chiuse così: ritornarono con un altro compagno, Leo Dubosc, e sotto la sua guida riuscirono a proseguire, aprendo la prima via, irta di passaggi vari e impegnativi, sulla grande bastionata. La parte centrale, la più alta, difese più a lungo la sua verginità.
(Neg. M. Rivero)
“Un’aerea corda doppia ci ricondusse alla base”. Foto: Michele Rivero.
Nel frattempo la scuola del CAAI apriva nuove palestre naturali; tra esse merita cenno lo spigolo sud-ovest e la parete sud della Torre Germana, sulle pendici della punta Gasparre, di fronte alla nostra parete. Infine nel 1941, Giusto Gervasutti, allora direttore della scuola e Guido De Rege di Donato aprivano la prima via centrale, per il passaggio che avevo percorso con Castelli, la soprastante rientranza a terrazze e il pilastrone di sinistra, attaccato poco prima dell’angolo ch’esso forma colla parete di sfondo e seguendo, in alto, un canalino obliquo con uscita in Dülfer oltremodo atletica e difficile. Nello stesso anno accompagnai Gervasutti nel percorso della gola con caverne e strapiombi, ricalcando per un tratto la via del pilastro, poi traversando a destra per una cengia fino al canalone che oppose ostacoli apprezzabili. Nella seconda ascensione, che ne feci con due ottimi elementi della Scuola Boccalatte, Paolo Galeazzi e un istruttore, mentre stavo superando in Dülfer il tratto tra la prima e la seconda caverna, il piede destro mi sfuggì lateralmente di sorpresa e il sinistro, che stavo innalzando per compiere il passo, lo sostituì automaticamente, con assoluta precisione. Non ebbi il tempo di spaventarmi e proseguii, mentre i compagni, dentro la prima caverna, a 10 metri da me, ribattevano premurosamente il solo chiodo che ci assicurava. Meraviglie dei moti riflessi!
Il 5 settembre 1943 ritornai sulla parete con Giuseppe Gagliardone per portare a compimento la via del Ramarro. Oltre il pino solitario, due buone lunghezze di corda, fraternamente ripartite nella guida, c’impegnarono a dovere per friabilità e difficoltà. In questo tratto, il buon Giusto era stato in precedenza vittima del cedimento di un masso, che l’aveva trascinato in un volo assai lungo, a giudicare da una coppia di chiodi torti che trovammo infissi all’inizio delle difficoltà. Più in basso avevamo ricuperato due chiodi con moschettoni, testimonianze di una discesa resa penosa dalle conseguenze della caduta.
Raggiunta la foce del canalino parallelo allo spigolo, lo percorremmo con ginnastica d’appoggio e spaccata fino al termine della parete. Gagliardone era, come me, soddisfatto e si concesse perfino una deroga all’abituale riservatezza. Ci pareva di aver scoperto un “campo di allenamento” degno del livello tecnico raggiunto dall’alpinismo. Non pensavamo però, come non credo ora, che si tratti di pane per i denti dei puri e semplici virtuosi delle palestre prealpine. Ne fecero recente esperimento due baldi arrampicatori, usi a ben volteggiare sulle vie della Sbarua et similia, che vollero lanciarsi sulla via della Gola, malgrado la presenza di alcune altre cordate di esperti alpinisti in procinto di attaccare le tre vie centrali.
I due respinsero gli amichevoli consigli degli anziani, sostenendo che in 4-5 ore avrebbero compiuto l’arrampicata, in modo da lasciare per il pomeriggio il terreno libero dal pericolo, che è grave, della caduta di sassi staccati arrampicando. Tribolarono per oltre una decina di ore (mentre la prima ascensione ne aveva richieste quattro), impedendo le salite altrui e suscitando vive ansietà. La presunzione giovanile è peccato veniale ma ho voluto ricordare l’episodio per doveroso ammonimento. La qualità infida e la conformazione complessa della roccia, e la scarsa sicurezza delle chiodature, esigono maturità alpinistica e quindi sconsigliano l’avventura ai puri e semplici “passaggisti” che potrebbero magari ben figurare in Grigna.
Non abbiamo saputo scoprire una severa palestra vicina più sicura e accogliente, noi della Scuola Boccalatte. Confido che i nostri bravi successori andranno oltre e riusciranno meglio, indulgendo alle nostre pecche e apprezzando i nostri propositi che abbiamo rivelato a loro, molto meno ornatamente ma con lo stesso cuore che Ettore Canzio pose nel tramandare alla nostra generazione di alpinisti gli insegnamenti dei suoi maestri, dei suoi compagni e suoi.
Oggi si sta verificando infatti lo stesso fenomeno dell’altro dopoguerra. Morti o dispersi o invecchiati in gran parte i maestri accademici, rimane ai giovani solo il seme del loro ricordo, che non sarà sterile. Il languente CAAI inserirà ancora una volta, nella limpida corrente della sua tradizione, uomini degni di continuarla.
Degli amici che furono a me direttamente associati in qualche modo nella storia della bastionata centrale, uno solo rimane. Gli altri sono tutti caduti, in piedi. Zanotti sull’Appennino ligure, insegnando alpinismo ai giovani genovesi; Gervasutti e Gagliardone sul Monte Bianco, Galeazzi nell’ansa del Don, Castelli nella professione di un suo credo terreno ch’è consegnato al giudizio della storia. Tutti diversi, ma tutti accomunati dalla coscienza di una verità trascendente, che in essi traeva luce dai monti attraverso l’alpinismo.
Uno spirito pratico denominò il burrone, del quale ho detto finora, Parete dei Militi, riferendosi al posto fisso della milizia fascista confinaria che esisteva al suo margine sinistro orografico. Gli sgherri mercenari furono spazzati da un turbine, il cui vuoto sì è riempito di altre casacche.
Il nome è rimasto, ma deve ricordare ormai soltanto gli scomparsi militi di una grande fede alimentata dalla montagna. Nella comunanza del vincolo accademico, essi riconobbero il sasso informe di fondovalle quale strumento del Creato per preparare i corpi all’ascesa; per spingerli verso le vette che invitano a colloquio coll’infinito. È giusto che quel sasso ricordi la loro milizia.
Michele Rivero
Michele Rivero nasce a Pinerolo il 22 settembre 1906. Uomo di legge, raggiunge i più alti gradi della Magistratura (Presidente di Sezione di Corte d’Appello). Cavaliere della Repubblica, membro del CAAI dal 1945, dà un notevole contributo per la sua esperienza di alpinista e di magistrato alla stesura del regolamento interno del CAAI.
Ha ricoperto numerosi incarichi nel CAI: presidente del Comitato P.L.T. del Consorzio Guide e Portaori dal 1940 al 1943, presidente per molti anni della Commissione tecnica centrale del CAAI, vice-presidente per vari anni della Sezione di Torino, apportandovi il senso acuto della sua esperienza di alpinista e di magistrato.
Per ciò che riguarda la sua attività alpinistica ricordiamo la prima italiana e prima arrampicata libera della fessura Dunod al Grépon (con Gabriele Boccalatte, Guido Derege di Donato e Paolo Fava, 1926); la prima ascensione dell’elegante spigolo sud delle Petites Jorassses (con Alfredo Castelli, 18 agosto 1935); la prima alla parete est-nord-est della Torre di Sant’Orso (con Aldo Bonacossa, 2 settembre 1936). In generale tutta la sua attività è improntata alla predilezione dell’arrampicata libera, come ben dimostra anche l’itinerario che apre il 5 settembre 1943 con Giuseppe Gagliardone sulla Parete dei Militi (Valle Stretta). Muore a Torino, il 10 dicembre 1971.
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