Dagli al “caiano”

Dagli al “caiano”
(pubblicato su Lo Zaino n. 18 e su lozaino.it)

E’ fuori di dubbio che in questi due ultimi decenni la considerazione che i giovani hanno del Club Alpino Italiano sia assai diminuita rispetto al secolo scorso, nel migliore dei casi rarefatta in un indifferente distacco. Ciò a dispetto dell’accresciuto numero dei soci, giusto vanto del Sodalizio. Sarebbe però interessante avere una statistica sull’età media del socio del CAI: io credo che si scoprirebbe che è aumentata di parecchio.

Si è cominciato con le critiche  per nulla velate che apparivano sui forum più in vista: è lì che è stato affibbiato, con evidente significato dispregiativo, il nomignolo di “caiano” a quel socio CAI che acriticamente segue le direttive e soprattutto le vetuste mode di un attempato modo di intendere associazionismo e modo di andare in montagna. Se ci si prende la briga di visitare un po’ di profili facebook, con annessi e connessi post e commenti, si vede che la parola “caiano” è ormai diventata d’uso comune: a certuni sembra che l’essere iscritto al CAI sia una nota di demerito. E non è più uno scherzo.

Tutto questo può apparire assai impietoso e inaccettabile a chi ha creduto e crede nel CAI, un’associazione alla quale ha dato e dalla quale spesso anche ricevuto. In questi individui, la conseguenza più immediata è l’allontanamento da ogni tentativo di comprendere almeno qualche perché.

Eppure gli esempi storici che c’insegnano che questo genere di processi è del tutto normale non mancano di certo: ne cito, per brevità, solo due.

1) All’inizio del secolo XX, specialmente subito prima del primo conflitto mondiale, nacquero parecchie associazioni che, a vario titolo, si distaccavano radicalmente del Club Alpino Italiano, rivendicando altri scopi e altri modi di andare in montagna: che diventava quindi anche “operaia” e non soltanto appannaggio di nobiltà e borghesia.

2) Posteriormente ai moti del 1968, le acque dello stagno furono assai agitate dal Nuovo Mattino, che abbatteva il mito della vetta e della conquista ad ogni costo, ma anche dall’articolo di Reinhold Messner L’assassinio dell’impossibile, che rivendicava senza mezzi termini la necessità di un ritorno immediato all’arrampicata libera e quindi l’abbandono, da parte dell’istituzione CAI, del modo di celebrare le imprese, fino a quel momento impostato sulla conquista (senza badare al come si conquistava).

E’ un dato di fatto che il CAI, da almeno una quarantina d’anni, ha dato ben poca importanza nelle sue pubblicazioni e nella sua attività culturale all’alpinismo nuovo, ai giovani. Se si escludono le serate organizzate dalle Sezioni del CAI in onore di nomi nuovi, accanto a quelli vecchi, non rimane nulla. La mia opinione è che se si trascura l’alpinismo dei giovani, ci sarà (come in effetti è stato) un generale loro allontanamento (anche di coloro che non scalano ma sono appassionati di montagna) da un’associazione che mai potrebbero sentire consona ai loro bisogni.

Aggiungiamo la frammentazione dell’alpinismo che si è verificata, con una serie di discipline assai diverse che non sto neppure a elencare. Nessuno, a livello generale, ha seguito con attenzione l’evoluzione di questo fenomeno, neppure il Club Alpino Accademico, che più di tutti avrebbe dovuto farlo. Tanto è vero che oggi il CAAI è tra le associazioni a più alta età media dei soci.

Non sostengo che il CAI avrebbe dovuto inseguire tutte queste singole discipline: al contrario avrebbe dovuto (come ha fatto, in qualche caso controvoglia) scortare e favorire il passaggio a organizzazioni più dedicate, intavolando però con loro una seria collaborazione.

Ricordo i Festival di Trento degli anni Settanta, ma anche degli Ottanta: erano pieni zeppi di vita, pochi eventi ma tanti invitati, il fior fiore degli alpinisti da tutto il mondo. Si facevano due convegni, non di più, accanto alla regolare proiezione dei film in concorso. Ma quelle riunioni sono risultate memorabili in più occasioni, con lo scontro appassionato di persone che ci credevano. Oggi un normale Festival di Trento ha anche fino a cento eventi, piccoli e grandi: ma in nessuno si verifica l’accensione di quella scintilla che nel passato portava i protagonisti, dopo essersi massacrati nelle discussioni pubbliche, a fare vere amicizie a suon di birre fino alle tre del mattino e a programmare imprese e scalate assieme. Nessuno di questi eventi ci fa battere le mani fino a spellarcele, tutti in piedi. Altro che “social”! Oggi si preferisce invitare il grande personaggio, quello che fa rumore sui giornali e presso il grande pubblico: e ci si dimentica della base (costituita guarda caso dai giovani): e senza la base che soffia sul fuoco non c’è fiamma, non c’è passione.

Non escludo affatto che il CAI possa recuperare il terreno perduto: si tratta di comprendere i perché, fare autocritica e ascoltare con pazienza. Si tratta di capire che il futuro è in mano ai giovani e che, se vogliamo aiutarli, non è accettabile l’arroccamento su posizioni prestabilite e ufficiali, considerate le uniche possibili.

Non deve cadere nell’errore che basti dotarsi di strumenti social alla moda (LinkedIn, Instagram, Twitter) per mettersi al passo con i tempi. Il cambiamento dovrà essere radicale, al posto di qualche piccola battaglia ego-riferita dovrà essere soffio vitale nelle pieghe di qualunque riunione del CdC, nelle assemblee, nei consigli di Presidenza, nella rivista del CAI, nei comunicati, nei rapporti con le associazioni ambientaliste, ecc.

Nessun giovane ha mai contestato il Bidecalogo ma, guarda caso, questo prezioso strumento è tra i più disattesi nella pratica quotidiana di CAI e Sezioni!

Sarà una via molto difficile e parecchio esposta a errori e fallimenti. Però l’alternativa è la fine del CAI: prima si verificherebbe la progressiva dispersione dell’autorevolezza culturale fino all’annullamento, in seguito la frammentazione totale in un arcipelago di Sezioni, e infine il crollo delle adesioni.

Dagli al “caiano” ultima modifica: 2022-12-22T05:34:00+01:00 da GognaBlog

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