Il 14 marzo 2015 si è tenuta a Pergolese una bellissima festa, in onore di Arrigo Pisoni e Gianni Bassetti che il 10 giugno del lontano 1959, assieme all’amico Francesco Checco Petrolli, oggi scomparso, salirono la grande parete est del Monte Casale per una via diretta alla cima.
Alle commosse parole di Arrigo Pisoni, titolare dell’omonima e ben rinomata cantina vinicola nei cui locali si è tenuta la festa, è seguita la lettura dello scritto qui sotto riportato. Purtroppo non era presente Gianni Bassetti, trattenuto a letto da una forte influenza. Erano però presenti vecchie e nuove glorie dell’alpinismo trentino, nomi come Sergio Martini, Mauro Fronza, Giuliano Stenghel, Marco Furlani, Stefano Michelazzi: tutti a festeggiare un episodio che per tanti anni è rimasto sconosciuto. Della Via della Parrocchia infatti nulla si seppe negli ambiti ufficiali per decadi. In quest’occasione si è parlato di alpinismo popolare, una definizione assai corretta. I protagonisti di questa storia erano tutti nati ai piedi della montagna e quasi completamente all’oscuro della storia alpinistica che già la riguardava: la salita di Marcello Friederichsen e Luigi Miori era dell’1 e 2 ottobre 1933. I due avevano affrontato la parete nel settore destro, forse snobbando una salita diretta alla cima per ricercare invece una parete più elegante e verticale (ma di certo non terminante in vetta); nel 1934 (o 1935) lo stesso Bruno Detassis, con un giovane Marino Stenico e Rizieri Costazza avevano ripetuto con notevoli varianti dirette l’itinerario Friederichsen-Miori. Poi tutto si era fermato, fino a che appunto tre giovani locali non erano stati presi dalla passione più genuina, quella di scalare ciò ai cui piedi erano nati. Senza termini di paragone, al di fuori della storia.
Ed è proprio per questa loro non appartenenza alla comunità alpinistica di allora che oggi vengono festeggiati, con il rispetto che si deve a chi ha vissuto una grande avventura fuori del circuito competitivo.
La via della Parrocchia fu poi ripresa, probabilmente senza nulla saperne, dall’alpinista Giorgio Bombardelli, che privatamente o quasi agli inizi degli anni ’90 vi sovrappose un itinerario ferrato, tra molte polemiche proprio sulla proliferazione di questo genere di percorsi. La via ferrata fu intitolata al rivoluzionario cubano Ernesto Che Guevara (che pare comunque abbia avuto anche lui dei trascorsi alpinistici). Nel 1993 l’associazione ambientalista Mountain Wilderness, con un blitz rimosse 200 metri di cavi, ma la reazione di sdegno per questo gesto fu quasi unanime, perfino fra gli stessi soci dell’associazione. Il tratto fu poi ripristinato, ed oggi è normalmente percorribile.
L’itinerario supera il versante est della grandissima parete del Monte Casale nel suo margine meridionale. Il tracciato, a esclusione della prima parte con alcuni salti verticali, si snoda tra le placche levigate, i canali e le cenge percorse dalla via della Parrocchia. Questa via attrezzata, tecnicamente non molto impegnativa, richiede buoni doti alpinistiche, preparazione fisica e atletica. L’itinerario supera un dislivello totale di 1380 m, arrivando a quota 1630 m della cima del Monte Casale.
Francesco Checco Petrolli in alta quota con l’equipaggiamento del tempo
Daino, amore mio…
di Arrigo Pisoni
Grande, maestoso, imponente, è il gigante buono che spunta davanti a casa mia a guardia della Valle dei Laghi, ora promossa “Valle della luce” dal nostro nuovo concittadino Marco Furlani, enfant prodige, Accademico e Guida Alpina del CAI.
È un blocco di roccia, un’unica paretona, alta 1,5 e larga 2,5 Km. Da Pietramurata a Sarche.
“Daino” lo chiamiamo noi locali che, secondo Aldo Gorfer, in lingua celtica significa “grande roccia”; geograficamente è il “Monte Casale”.
Francesco Checco Petrolli e Gianni Bassetti sul Galletto vanno in montagna
Il gigante allarga le sue potenti braccia, fatte da una catena di altre montagne, rocce, spuntoni, pareti e falese. Quella di destra verso sud: la Bena, le Pareti Zebrate, il monte Brento e giù fino alla Cima d’Oro sopra Riva. Il braccio di sinistra verso nord: Dain Piccol, Monte Gazza, Paganella, per perdersi per i monti della Valle di Non.
Il suo elegante abito è un’enorme tavolozza di colori: uno sfondo cenerino azzurro decorato da strani disegni e dai colori più variegati.
Qualche macchia verde e nera testimoniano la presenza di una stentata vegetazione di erbe ed arbusti abbarbicati a quelle rocce. Delle strisce verticali biancastre sono i segni del passaggio di sassi e ghiaia trascinati a valle, formando, nei secoli, alla base del Dain enormi conoidi di ghiaia, che noi chiamiamo “Salagoni”, ora attaccate dagli escavatori per la preziosa ghiaia.
Placche lisce, nicchie, crepacci, canaloni, formano un favoloso gioco di luci e ombre che per i nostri vecchi contadini erano preziose meridiane, orologi che segnavano l’ora esatta delle loro fatiche.
Da bambino (ma anche oggi) mi incantavo a fantasticare su quelle figure surreali disegnate da Madrenatura, vedendo in esse fantastici personaggi.
Francesco Checco Petrolli e Gianni Bassetti nelle Pale di San Martino
In alto due enormi gambe divaricate di un gigante il cui corpo si perde sulle rocce sovrastanti. La colossale pipa, costituita da un’enorme placca gialla, liscia come il vetro, cuore del Daino, è lo sbarramento naturale della via diretta per la cima. Parete credo ancora inviolata (NdR: la percorre la via della Follia, 31 maggio 1983, Giuliano Stenghel, Franco Nicolini, Guido Gerola e Fabio Sertori).
Sulla destra l’enorme 9. La chiara figura di Icaro e suo padre che volano verso il sole. Nitidissime le aquile romane. Altri mostruosi animali riempivano la mia fervida fantasia. Uno spettacolo unico al mondo.
Un enorme dipinto picassiano di migliaia di ettari, colori cangianti di tonalità secondo il sole, se dell’aurora o del tramonto, se la roccia è bagnata o asciutta o decorata qua e là da candida neve.
Come uno spettacolo del genere non può accendere la fantasia e l’ammirazione di chi ci è nato e cresciuto ai piedi?
Così un giorno un gruppo di amici, appassionati di montagna, decisero che erano maturi i tempi per tentare la coraggiosa avventura. Bisognava salire sul Daino per la via più breve.
La via della Parrocchia sulla Est del Monte Casale
Una nuova carica di passione alpinistica aleggiava in valle, maturata con l’arrivo di un mitico personaggio: il giovane curato di Pietramurata Don Guido Ruele, dinamico ed esperto alpinista. Ben presto la sua passione ha contagiato anche noi. Erano i tempi del K2, dell’Ardito Desio, dei Walter Bonarii, dei Mauri, dei Compagnoni, ecc… qualcuno collega di naia dei nostri Gianni Bassetti e Francesco Checco Petrolli.
Il Gianni era il più motivato per l’avventura e il più esperto. Da tutti tacitamente riconosciuto leader, nostro “capo”. Noi gli avevamo appioppato l’appellativo “don Esperienza”. Era da mesi, forse da anni che ne studiava il percorso. Lui selezionò i componenti della spedizione dal nutrito gruppetto di appassionati.
Escluse subito il cognato Luciano Bagatoli, da poco sposato con prole.
Escluse il Gino Pisoni, chiamato affettuosamente il “Capitano” per la sua forte personalità, in realtà solo sergente della scuola sottufficiali di Aosta, responsabile delle salmerie (gli sconci) di quella caserma, affidate a lui anziché al tenente veterinario dagli alti ufficiali che avevano ravvisato in lui maggiore esperienza e competenza (aveva frequentato la scuola agraria di San Michele e quindi studiato zootecnia). Il suo servizio militare fu segnato dalla tremenda tragedia del Passo Gavia con la caduta in un burrone di un camion di suoi alpini e relativi muli. Tutti morti. Vicesindaco poco più che ventenne ricoprì importanti incarichi nel mondo agricolo, prima provinciali poi nazionali. Anche questo escluso perché alla vigilia delle nozze.
Anche Gino Pedrotti, forte alpinista, allievo prediletto di Don Guido, “principe ereditario” di un’importante famiglia, non era prudente coinvolgerlo in avventure pericolose.
Il sottoscritto non aveva particolari doti, ma nemmeno contro indicazioni. Statura medio-bassa, ma buona resistenza e tenacia. Ero chiamato lo “speziale” per la mia passione per le erbe, i fiori alpini, piante medicinali e le erbe foraggere, studiate alla scuola agraria di San Michele, di cui talvolta ne citavo il nome latino. Ero l’unico dotato di discreta macchina fotografica fornitami dall’immancabile grande esperto e maestro anche in questo campo, Don Guido Ruele. Anche dal punto di vista “coniugale” risultavo libero. Del romantico ricciolino nero di una fanciulla dell’Alto Adige nascosta nella mia macchina fotografica nessuno sapeva nulla. Fui quindi assunto senza difficoltà.
10 giugno 1959: Gianni Bassetti, Checco Petrolli e Arrigo Pisoni sono appena giunti in vetta al Monte Casale
Il terzo uomo non poteva che essere il Francesco Petrolli (Checco). Coscritto e amico fraterno del Gianni, compagno di naia e di alpinismo. Una roccia ambulante, uno zaino tipo spedizione in Russia sempre munito di fornello, scatolame e birre, cassetta pronto soccorso, cordini, moschettoni, ecc… che lui si portava come una piuma su e giù per i monti. Anche lui discepolo prediletto di Don Guido, che se lo portava appresso, con la sua potente motocicletta inglese, una Jes750, ammirazione e invidia di tutti noi a quei tempi.
Nelle scorribande sulle montagne dell’Arco Alpino, un giorno in una loro trasferta in Val d’Aosta, furono sorpresi da una pioggia torrenziale. Ai due non passò minimamente per la mente l’ipotesi di fermarsi. Si sistemarono sulla potente moto con giacche a vento e teli impermeabili e via … il Checco abbarbicato dietro sull’enorme sellone sistemò inconsciamente il telo impermeabile in modo che l’acqua scrosciante era convogliata da opportuna piega direttamente nella tasca posteriore dei pantaloni di Don Guido .
Riempiti gli scarponi il livello dell’acqua salì fino all’ombelico e fu allora che Don Guido si accorse e bloccato il motorone, scese urlando: “Tambur de en tambur, varda come te m’hai concià”\
Comunque la spedizione sul Cervino o sul Monte Bianco finì felicemente e il Checco continuò ad essere il suo accompagnatore preferito, anche perché lo zio Arturo Borlanda, santo uomo, titolare di una ben avviata impresa di costruzioni dove il Checco lavorava da apprendista muratore, concedeva volentieri al nipote, peraltro molto bravo e sveglio sul lavoro, il permesso di andare con Don Guido di cui il Berlanda aveva, come tutti a Pietramurata, grande venerazione.
Giunse finalmente quella prima domenica del giugno ’59. Zaini colmi di tutto il necessario, una bella cordona di canapa, tre elmetti da minatore per i sassi volanti su quelle rocce, chiodi, moschettoni, martelli, ognuno la propria lampada tascabile, i faretti frontalini allora ancora non li conoscevamo. Indumenti adeguati al cambiamento repentino del tempo, il pericolo più temuto. Panini e bevande in quantità. Tutto accuratamente verificato dal nostro “Desio”.
Alle tre del mattino si comincia a salire per il Salagone di ghiaia che porta al canalone centrale levigato e pulito dalle scariche dei temporali. Si procede lentamente nella notte.
Mi ricordo come il Checco, ad un certo punto, sbottò, come seccato: “Ensoma, quando l’è not l’è ströf.
Arrigo Pisoni e Gianni Bassetti nelle Pale di San Martino
Il cammino procedeva bene. Gli scarponi dalle suole “vibram” attaccavano come ventose su quella roccia pulita. Per noi che abbiamo conosciuto gli scarponi chiodati era una manna.
Finalmente giunse l’alba e fu l’inizio di grandi emozioni. Le case sotto di noi si svegliavano lentamente. Il nostro sguardo si allargava a compasso. Sempre più case, Pietramurata, Pergolese, Sarche, il lago di Cavedine, di Toblino con il suo castello, poi il lago di Garda. Man mano che ci si alzava l’orizzonte si allargava. Una novità assoluta, per noi un’emozione unica mai provata.
L’andare in montagna comporta il susseguirsi di stupendi panorami, ma in questo caso lo stesso panorama continuava ad allargarsi a 360°. Il nostro sguardo attirato sempre dalle nostre case natie.
Fu a questo punto che godemmo lo spettacolo sottostante. Con lo squillo a stormo delle campane, lo strombazzare dei clacson, vedemmo la lunga processione che accoglieva il nostro mentore Don Guido Ruele che da Curato era promosso Parroco. La Curazia diventava Parrocchia. “La chiameremo Via della Parrocchia questa nostra spedizione”, sentenziò il nostro capo.
Non ho mai saputo se quel titolo era già nella mente e nel cuore del Gianni o frutto di un’improvvisa intuizione. Ho saputo però presto di quanto sia restato deluso dell’indifferenza del nuovo parroco alla notizia che il Gianni gli ha portato tanto trionfalmente. Il Gianni forse non sapeva come ai “grandi” generalmente interessa poco le imprese dei “mediocri”.
Continuammo la nostra salita per il comodo e pulito canalone di scarico fino alla grande macchia gialla formata dall’enorme pipa. Qui abbiamo avuto la prima grande difficoltà. La grande placca gialla si era parata davanti a noi con la sua parete strapiombante e liscia come uno specchio. L’ing. Luigi Miori di Padergnone, che sapevamo aver scalato il Daino prima della guerra, ritenevamo fosse uscito a destra dove si intravedevano una serie di roccette, corti camini, ma non si vedeva dove si poteva sboccare. Girammo a sinistra, come del resto era previsto dal capo cordata. Delle roccette con qualche magro arbusto e qualche ciuffo d’erba abbarbicato sulla roccia e arrivammo al grande canalone di scarico di sinistra. Solo su questo tratto usammo, poche volte, per prudenza, la corda di canapa.
Poi fu tutto una interessante sorpresa per la varietà dei passaggi e facilità della via.
Con nostro grande stupore il canalone finiva in un ripidissimo prato. Salendo, salendo, arrivammo ai grandi prati delle “Quadre” e alla cima del Dain. Ci aspettava la croce di legno, danneggiata dai fulmini, già portata colà da noi stessi con molti altri amici qualche anno prima, sempre trascinati dall’entusiasmo dell’immancabile Don Guido. Immaginabile l’emozione e la gioia con cui abbiamo depositato ai suoi piedi zaini, elmetti, cordame e ferraglie per l’immancabile foto ricordo. II bacillo dell’alpinismo e dell’amore di montagna di Don Guido ci ha completamente conquistati.
Da quella prima sistemazione della croce è nato il tradizionale incontro della prima domenica di giugno, chiamato “Festa del Dain”, che continua tutt’ora, affollata da gente proveniente da ogni dove.
Nel 1965 si è proceduto alla costruzione di una prima piccola casetta di legno, poi di un rifugio vero e proprio, costruito a totale carico di volontari del sabato e della domenica, inaugurato nel 1972, nel centesimo anno di fondazione dello Stato Italiano. Il rifugio è stato poi donato alla SAT centrale.
E’ stato chiamato “Rifugio Don Zio” per ricordare un altro grande personaggio originario da queste parti, professore catechista al liceo classico Prati di Trento, che tanto amava la montagna e i suoi ragazzi che ve li portava spesso. Furono loro che gratificarono con questo affettuoso appellativo il loro Maestro. Si può dire che fu il primo a scoprire questa montagna e di averla scarpinata in lungo e in largo.
Un tratto della via ferrata Che Guevara
“Pochi conoscono la bellezza di questo luogo” soleva dire “Tutti credono che la cima, “la più bella del Trentino”, sia la Paganella (come dice la nota canzone) e non sanno quanto invece sia più bello il Daino”.
Il nome “Rifugio Don Zio” è stato suggerito da Luciano Bagatoli, allora presidente della Sezione Sat Toblino e già studente allievo di Don Zio.
Credo che anche Don Guido, come il nostro amico Checco, meriterebbero un ricordo di riconoscenza da noi alpinisti cirenei della domenica per aver fatto sbocciare nel nostro cuore “l’amore di montagna”.
Arrigo Pisoni
Pergolese, 14 marzo 2015
Il tracciato della via ferrata Che Guevara al Monte Casale (Daino grande)
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