Metadiario – 102 – Mezzogiorno di Pietra – 7 (AG 1981-008)
Capo Palinuro e Acquafredda
Capo Palinuro, fantasie di un ulisside post-turista.
«Voglia di sole, voglia di mare, di spiaggia e di divertimento si dice che una volta spingessero sulle coste di Capo Palinuro migliaia e migliaia di uomini, di donne e di bambini: pare che venissero anche da molto lontano, soprattutto dai paesi che non hanno il nostro sole e il nostro mare. Venivano nelle maniere più diverse, chi preferiva un viaggio a coppia, in treno o in autostop o con altri mezzi primitivi a quattro ruote, chi trasportava così l’intera famigliola; oppure raggiungevano quella località a gruppi, organizzati da apposite agenzie che preparavano tutto. Quei tempi erano famosi per la difficoltà che la gente aveva a divertirsi.
Siccome non c’erano gusti semplici, bisognava ricorrere a sofisticati sistemi per rendere godibile, ma soprattutto appetibile, il soggiorno. Pare che avessero installato una «discoteca» in uno dei grottoni sul mare, si dice che a gruppi venissero da ogni parte per imparare a pescare il pesce direttamente sott’acqua, immergendosi con speciali vestiti neri e allungandosi i piedi con incredibili aggeggi per simulare meglio gli esseri acquatici. Le rumorose compagnie di solito poi concludevano la giornata accendendo fuochi sulla spiaggia e consumando il pesce che si erano procurati, annaffiando con vino e risate il loro benessere duramente conquistato.
Negli ultimi tempi si erano addirittura visti degli strani giovinastri che, armati di strumenti incredibili, riuscivano a salire sulle precipiti rupi della scogliera, con ciò dando notevole fastidio agli uccelli che l’avevano eletta a loro sede naturale e apportando anche disturbo ai bagnanti che non capivano ciò che secondo loro era pura pazzia. Un’altra caratteristica di quei tempi era infatti l’assoluta divisione a compartimenti stagni di ogni forma di evasione: ciascuno era convinto della validità del suo svago e solo del suo. Così per qualcun altro era più facile fornire panem et circenses con la sfumatura dell’esclusività.
Ma ai giorni nostri, dopo il memorabile assedio di Troia e la nostra fuga per i mari alla ricerca di una nuova patria, tutto questo non c’è più. A questo pensando, un po’ triste reggevo il timone della nostra nave. Era una notte calma, le stelle brillavano vivide e una grande luna rischiarava queste pallide rupi, appena accarezzate dall’onda. Tutti i miei compagni dormivano e io ero solo con i miei pensieri, con i miei ricordi quand’ecco che il dio Sonno mi sussurrò suadente di reclinare un po’ il capo: lui stesso mi avrebbe sostituito al timone, non c’era nessun pericolo. Quando mi accorsi dell’inganno era ormai tardi, nella mia caduta in mare mi ero estinto e ora stavo nuotando leggero verso riva. L’acropoli di Molpa dominava dall’alto questo mio veloce andare, in quei momenti di transito tra la vita terrena e il definitivo passaggio al regno dei morti. Giunsi così sotto un arco naturale, un nuovo giorno la dea Aurora proiettava luminoso, al di sotto delle arcate di roccia. Sulla spiaggia giacevano abbandonate delle carcasse di imbarcazioni primitive a motore. Più all’interno camminai in mezzo a fitta vegetazione, qualche ulivo selvatico testimoniava la passata civiltà, assieme a relitti a quattro ruote. Giunsi alle rovine di Palinuro, al suo porto abbandonato, bar, negozi, agenzie di compra-vendita. In vita mia non avevo mai viaggiato così, con la sensazione di poter vedere ciò che fu, in forma vaga riuscivo a vedere una caotica vita, un affannarsi insensato, un’ansiosa spensieratezza, i monumenti al posteggiatore, medaglia d’oro al valor civile. In un angolo di una camera trovai dei ritagli colorati, tutti raffiguravano la stessa cosa, ed era la scogliera ai bei colori del tramonto. Ogni casa sporgeva un cartello arrugginito o danneggiato dal tempo, ricordo d’aver letto «Kodak», «Agip», «Farmacia», forse i nomi delle famiglie che abitavano colà. Per ogni dove spirava un’atmosfera strana, cose che forse un povero timoniere non può capire.
Al porticciolo vidi un’imbarcazione a remi e così volli recarmi alla scogliera, sapevo che il mio viaggio non avrebbe potuto durare a lungo, tra poco avrei sentito il richiamo di Caronte. Remando penetrai in una meravigliosa grotta azzurra, poi in altre riccamente adorne di splendidi colori naturali. Mi spinsi a una cala che recava uno strano odore. In fondo a essa nereggiava l’entrata di un’altra grotta e anche lì mi recai. Fu così che, subito dopo il mio ingresso, vidi addossato a una roccia uno scheletro. Attorno aveva degli strumenti metallici, arrugginiti, di forma appena ovale: ma alcuni avevano la forma di chiodi con un anello. Al suo lato giaceva aperto un libro, che avidamente, come spinto da necessità, mi misi a sfogliare. L’aveva scritto un certo Publio Virgilio Marone e recava un titolo stupefacente: Eneide, forse quindi la stessa storia di Enea, il comandante. Lessi che stranamente i popoli mi avrebbero costruito un monumento proprio lì, forse per dimenticare prima un dovere incompiuto…».
Il 20 settembre con il Gigante e Nella ci facemmo trasportare in barca lungo tutta la costa rocciosa di Capo Palinuro per individuare possibili obiettivi. Il più evidente però era un diedro che si ergeva proprio dalla spiaggia più frequentata.
Solo due giorni dopo sapemmo che Solebong era già stato tentato l’anno prima da Giuseppe Miotti e Jacopo Merizzi, una bellissima via di 100 m in diedro e fessura.
Il giorno dopo ci rivolgemmo alla Punta di Cala Fetente, ci calammo dall’alto su uno splendido arco naturale e da lì fino al mare. Poi risalimmo un affilato spigolo di 100 m che, considerato l’odore e l’esilità della struttura, chiamammo Bilico solfidrico.
La sera stessa arrivò Giuseppe Popi Miotti con sua moglie Rosanna. Nato a Sondrio il 29 aprile 1953, Popi ci mise poco a diventare un bravissimo alpinista. Guida alpina dal 1977, è ancora oggi un professionista della montagna a 360°: questa è la miglior definizione per Popi Miotti, che ha coniugato tale e tanta attività alpinistica e arrampicatoria ad attività professionali ed editoriali, da poterlo definire un vero e proprio “monumento vivente”.
Dotato di penna agile e graffiante, Don Miotti ha prodotto una gran quantità di scritti. Particolarmente rivoluzionarie furono le guide Scalate in frigorifero, la prima in Italia sulle cascate di ghiaccio, e Sul Granito della Val Masino, selezione di scalate che gli fece ottenere anche una bella lettera poco amichevole da parte degli estensori della guida Masino-Bregaglia-Disgrazia del CAI. Sua anche la guida CAI-TCI Bernina. È un navigato web-master di un grande portale sui rifugi dell’arco alpino e creatore-disegnatore di mappe e panoramiche digitali di tutti i tipi. Recentemente ha scritto una sua autobiografia, Gli archivi ritrovati.
Quella notte il Gigante, che di solito dormiva fuori raggomitolato nel sacco piuma, si scoprì per il caldo e fu divorato dalle zanzare. Eravamo al Faro di Punta Spartivento. Evidentemente il suo afrore, guadagnato con molta attenzione a non lavarsi, le eccitava in modo particolare. Al mattino non se la sentiva di venire con noi a Punta Spartivento, dove avevamo adocchiato un’altra bella possibilità. Dopo una discesa in arrampicata, Popi e io arrivammo al mare con due lunghe corde doppie. Risalimmo una fessura strapiombante, ma non fu gradevole perché la roccia era ricoperta da un sottile strato di polvere che rendeva infido qualunque movimento. E dato che la difficoltà non era proprio banale, quella divenne Spiaggia in Fessura. Ci rimase l’amaro in bocca perché la bellissima linea e l’eccezionale ambiente non avevano corrispondenza con la qualità della roccia.
La Basilicata si affaccia sul Mar Tirreno con un breve tratto di costa, universalmente noto come marina di Maratea: scogliere tormentate, mare azzurro, promontori precipiti e nudi. Un magnifico calcare fa l’ossatura di questo meraviglioso complesso geografico così poco distante da Sapri e sulla via per la Calabria. Già dalla Costa S. Carlo vicino a S. Giovanni a Piro avevo potuto osservare che dalla parte opposta del Golfo di Policastro figuravano lunghe falesie non proprio a strapiombo sul mare ma sospese a mezzaaltezza tra l’azzurro dell’acqua e certe cime nude e selvagge che sembravano voler rinserrare la costa ancor più delle stesse rocce. Sulla destra, in alto, si scorgeva l’abitato di Maratea.
Percorrendo la strada tra Sapri e Acquafredda ci trovammo sotto alle pareti, molto più estese di quanto potesse sembrare, perché movimentate da quinte e facce rientranti. Sapere che con certezza lì non era mai stato nessuno ad arrampicare ci riempiva di gioia e poi quella volta non eravamo in due, bensì in tre: tutto era quindi più divertente, anche perché avremmo dovuto discutere di più su cosa andare a tentare. Capire subito cosa è più opportuno andare a vedere, senza perdere tempo in tentativi assurdi, non è facile, anche perché ogni luogo è costituito di una roccia diversa, ciascuna con i suoi segreti che ti saranno rivelati solo al momento buono. Come si può capire a intuito che quel diedro è falso, che le fessure possono essere cieche? E soprattutto come si fa in breve tempo a mettersi d’accordo se si è in tre?
Arrampicare è probabilmente bello anche per questa ragione: a volte non si sa fino all’ultimo momento cosa si andrà a fare. In alpinismo classico invece si sa magari un anno prima quale sarà l’ostacolo e quali lotte si dovranno affrontare. In questi posti così belli e distanti dal solito mondo dell’arrampicata, dove nessuno aveva mai veramente messo mano, nasce quella che si può chiamare arrampicata esplorativa, due termini apparentemente contraddittori se per arrampicata si assume il significato moderno e cioè di scalata privata della vetta e del raggiungimento di una meta. Nell’esplorazione la meta c’è ed è la progressiva conoscenza di un luogo. Arrampicata esplorativa può essere una contraddizione da non considerare troppo importante: in realtà ognuno dà alla propria azione il significato, contraddittorio o no, che in quel momento sta vivendo.
Dalla cima della Falesia di Acquafredda (Parete di Pietra Calda), raggiunta dopo una sudata ascesa, Popi, il Gigante e io potemmo sederci un attimo su un calcare estremamente lavorato e vedere il mare ai nostri piedi: però volevamo bere anche una bottiglia di vino bianco, che sapevamo essere in un certo bar, fresco, dissetante. E così i Figli di Superciuck si avviarono lungo uno stupendo sentierino, costruito da generazioni precedenti, che ci fece scendere rapidamente, incontrando volpi e carrubi. Era il 23 settembre.
C’era quasi da rimanere lì, con bella roccia e divertimento sicuro, tipo ozi di Capua: ma io avevo un programma rigido.
Il 24 ci avvicinammo al Monte Alpi di Latrònico. La prima ragione per la quale fui attirato da questa montagna era certamente il nome: Latrònico. Difficilmente ho sentito un nome più selvaggio, più severo: immerso in chissà quali leggende sanguinose, mischiava i rapaci ai ladroni con la benedizione di qualche vescovo medioevale. Un secondo motivo d’interesse mi era stato suggerito dai libri che avevo letto: si accennava a uno strano albero, il pino loricato (e già, chissà perché «loricato» è una parola che mi piace e che fa ancora più simpatica una pianta già gradevole come è il pino). Questa conifera è un residuo di antiche colonie ancora floride nei Balcani. Pare che viva solo a precipizio sugli strapiombi, che disdegni le basse quote e i terreni umidi, che, insomma, faccia la parte del ginepro, ma più sviluppata e caratteristica. Ero quindi impaziente di fare la conoscenza con questo albero, anche se sapevo che sul Monte Pollino avrei trovato esemplari più belli, in maggior numero e più facilmente accessibili. Ero incuriosito anche dall’agrifoglio, che qui cresce in dimensioni arboree, fino a 10 metri di altezza.
Seguendo le strade carrozzabili per individuare una comoda via d’accesso alla montagna arrivammo al rifugio Favino. Da lì col Gigante salimmo fino alla vetta orientale della montagna, ma non proseguimmo alla occidentale e quindi al versante ovest per il brutto tempo. Ci accontentammo così di guardare il mitico pino loricato dal basso, con i binocoli. Su rocce erbose e grigiastre, attraverso un’atmosfera umida e diafana, spiccavano delle macchie scure che si agitavano appena: sembravano dei ricci isolati su uno scoglio marino.
In discesa, nel bosco di faggi, raccogliemmo almeno un chilo di funghi. Sembravano porcini, ma al momento di cucinarli ci accorgemmo del colore violaceo che assumevano quando tagliati. Buttammo i boletus satanas a malincuore.
Monte Pollino
Con i 2266 m della Serra Dolcedorme e con le altre quattro cime superiori ai 2000 metri, siamo di fronte al più alto complesso montuoso di tutto l’Appennino Meridionale, una catena che si estende per 30 km e che, soprattutto a nord, vanta una grande estensione di territorio montano e silvestre. Nel parco Nazionale del Pollino ci si deve muovere con calma, con tempo. Noi purtroppo ne avevamo poco. E il parco non c’era ancora.
Ho parlato con il dr. Benedetto Cannata, il veterinario di Cerchiara che ci dette un passaggio con la sua Fiat 500. Di origini napoletane, era lì da 36 anni. Nel paese c’era una grande miseria: non si conoscevano la pasta e neppure lo zucchero, più sporchi e puzzolenti erano i contadini più erano ricchi, cioè avevano più animali con cui vivere in promiscuità.
Queste parole non facevano che confermarmi l’impressione che ebbi subito, quando fui a S. Lorenzo di Bellizzi e dintorni: in tutto il nostro viaggio in Meridione non trovammo altrove una tale miseria fisica e morale, forse soltanto in altri paesini calabri. Anche il Cannata mi parlò della «montagna», e così pure un pastore: entrambi mi ricordarono il pastore degli Alburni. Lessi nei loro occhi quell’ammirazione che il pescatore ha per il mare, che il tuareg ha per l’acqua. Il Pollino infatti, assieme al massiccio degli Alburni, è uno dei pochi luoghi dove la montagna è ancora mito vivente.
Nel Pollino girovagammo per giorni alla ricerca di un coordinamento geografico, nell’estatica ammirazione di un patrimonio del tutto inusuale, come mai, certamente, sulle Alpi avevo visto. La vastità della zona, l’assoluta mancanza di una qualsiasi informazione, mi costrinsero a perdere tempo da una parte, ma a vivere una grande avventura dall’altra. Mai come qui ho avuto tanta paura di non essere all’altezza, di non avere la necessaria documentazione, di aver così misere conoscenze di fauna, di flora, di geologia e di storia.
Per prima cosa, il 25 settembre salimmo tutti e tre sulla cima del Monte Pollino dal Colle di Gaudolino, una gita indimenticabile. In serata eravamo ad ammirare la catena da sud, a capire come erano fatte le gole del Raganello e a individuare una bella via per il giorno dopo. Sulla Pietra del Demanio, e precisamente sulla Falesia del Raganello, sopra alla Gola inferiore, la mattina dopo ci affannavamo a scendere in corda doppia, affidandoci solo ai ricordi dell’ispezione da lontano della sera precedente. La via del Peperoncino fu soprattutto una lotta per riguadagnare l’altopiano, un corpo a corpo con una montagna che avrebbe voluto ci calassimo e ritornassimo in alto per dove eravamo scesi. Idea alla quale massimamente ci ribellavamo. L’assenza nel nostro materiale di un perforatore fu determinante per creare due lunghezze di corda (sulle cinque totali) stressanti e davvero difficili, su una roccia spesso infida.
Il 27 risalimmo la Gola del Barile (o superiore del Raganello) con due scopi: quello di percorrerla e quello di cercare una via possibile sulla spaventosa parete che avevamo sulla testa, i 700 metri della parete sud-ovest della Timpa di San Lorenzo. Cercammo affannosamente un attacco, ma ci sembrò tutto così repulsivo da abbandonare il progetto. Per fare quella parete occorreva un assedio di più giorni. Quel luogo è estremo. Dopo un percorso del fondo della gola che richiese guadi e corde doppie, ne uscimmo. Su una piana del greto c’erano decine di vipere, non sapevamo dove mettere i piedi. Finalmente vedemmo una casa, la Masseria Sciga: c’era un pastore che, come ricorda il Gigante, si esprimeva con il linguaggio dei tacchini. Comunque si fece capire e c’indicò come raggiungere il Colle di Conca. Giunti lì stavamo ormai in cammino sulla sterrata, quando ci prese su il sopra citato gentilissimo veterinario.
Decaduto il progetto della Timpa di San Lorenzo ci sentivamo un po’ orfani. Rimandai la discesa della Gola inferiore (c’era troppa acqua, mi era bastata quella del Barile) e ci rivolgemmo alla salita di ripiego sul Monte Sellaro, dove salimmo lo Sperone del Naufragio fino al cengione del versante sud-ovest. Qui io continuai per la cresta est da solo, mentre il Gigante che ne aveva abbastanza si fermò ad aspettarmi.
Con questo 28 settembre si chiuse l’esperienza con Andrea, che doveva assolutamente tornare a casa. Il suo gilet con le borchie era ridotto a una crosta puzzolente.
Andrea Gigante Savonitto è nato a Milano il 25 luglio 1958. Studi non terminati di agraria, quando partì con me lavorava in un avviato laboratorio di riparazione accendini (tra l’altro assieme a Marco Della Noce, il futuro comico di Zelig, quello del personaggio del ferrarista). Disse che doveva partire per militare e invece salì sul mio pullmino per un viaggio che lui oggi definisce “indimenticabile”. Aspirante guida nel 1982 e guida nel 1986, nel 1983 crea assieme a Giuseppe Miotti il Gigiat, una delle prime associazioni di guide. Forte dell’esperienza fatta sui monti Terminio e Accellica, uno dei lavori che fecero fu proprio la creazione dell’Alta Via dei Picentini. Direttore per conto del TCI delle attività sportive dell’albergo Sciliar all’Alpe di Siusi, se ne va per andare a custodire il rifugio Albani in Presolana. Era il 1985, e da allora il suo mestiere è stato soprattutto quello. Lo vediamo quindi, mollato l’Albani, dal 1989 al 1997 al rifugio Motta in Val Malenco (memorabile una mia visita a inizio stagione invernale con mia figlia Petra di un anno: erano fuori uso tutti gli impianti elettrici, nella notte eravamo sottozero e con uno strato di 10 cm di vetrato sul pavimento); dal 1995 al 2008 al rifugio Casera di Trona Soliva (Alpi Orobie); poi al rifugio Croce di Campo in val Cavargna e altri. Sue sono le guide Scalate scelte nel Bergamasco (Edizioni Melograno, 1986) e La Chiusa della Valsàssina (due edizioni, la prima nel 1999). Ha avuto Giacomo (26 anni) dalla prima moglie Giuliana Giolitti, poi altri due figli, Anna (18) e Francesco (12) dalla seconda, Elena Iato.
Cànolo e Aspromonte
Màmmola, Gretteria, Gioiosa, Ciminà, Antonimina: villaggi arroccati sul costone della montagna, possibilmente sopra la confluenza di due corsi d’acqua, villaggi arroccati ma sperduti che guardavano il sorgere di nuove cittadine sul mare, Siderno, Locri, Bovalino. Sulla costa, qualche argine alla furia devastatrice delle fiumare è stato costruito. Su tutti quegli abitati, non silenziosi, non deserti ma che tramandavano una strana sensazione di condanna, si distingueva Gerace, roccaforte a strapiombo, da ogni lato inaccessibile, ricca di arte medioevale, segnalata su ogni guida turistica. In pochi chilometri quindi, su questo entroterra della costa jonica, s’incontrano un borgo famosissimo, dei paesi in piena decadenza e dei corsi d’acqua estremamente pericolosi quando piove.
Andar per fiumare era una nuova proposta che intendevo fare. Non si trattava di fare grandi imprese, ma quei percorsi non si potevano neppure confondere con le semplici passeggiate. Si trattava di risalire il corso di un torrente, dove questo fosse stretto e attraente, nei canyon rocciosi. Nella Fiumara Grottella, il 30 settembre, Nella e io (soli, perché Andrea era tornato a casa in treno) trovammo angoli insospettatamente graziosi accanto a scorci del tutto selvaggi, in una terra che non finiva mai di stupire, la Calabria. Una terra che si sviluppava anche in profondità, si può dire, tanto le comunicazioni orizzontali erano difficili. Penso che accanto all’architettura medioevale di Gerace si possano prima o poi accostare interessi naturalistici e le fiumare sono un ambiente estremamente suggestivo e ricco di spunti per un escursionista attento, soprattutto per i bambini, che possono finalmente sguazzare con i piedi in acqua, giocando all’avventura.
Qualche anno prima Fabrizio Antonioli aveva scoperto che sopra uno di quei paesi in abbandono, Cànolo, erano delle belle formazioni rocciose, torri e guglie cui diede il nome di Dolomiti Calabro-Saudite. Il gioco di parole che accosta Calabria ad Arabia non è nuovo e forse può suonare un po’ offensivo se si vuol vedere in ogni pensiero altrui lo scherno o il dileggio. Di certo il nome è appropriato, perché come sappiamo la Calabria è forse la regione più povera d’Italia ed è proprio a contatto con la gente di questi paesi che si ha la reale misura di come stiano le cose.
E certo non sarà l’orribile cava selvaggia alle falde delle Torri a migliorare sensibilmente le condizioni della gente. Anzi contribuisce solo a degradare ulteriormente un ambiente già dilavato ed estremamente esposto ai disastri di qualche giorno di pioggia torrenziale. E neppure il villaggio turistico costruito sullo spartiacque a sud del Passo del Mercante sarà servito a molto se non a qualche costruttore locale.
Sulle Torri di Cànolo il 1° ottobre salimmo per una fessura-camino evidente che battezzammo Gollum.
Nella stessa giornata sempre noi due soli salimmo in vetta al Montalto, in una giornata nebbiosa che però si aprì in cima. Eravamo sul rilievo più alto dell’Aspromonte. E il giorno dopo decisi di scendere a piedi su Polsi.
La prima volta che lessi di Polsi e del suo Santuario venni a sapere che era la meta preferita per i convegni della malavita calabrese: un luogo sperduto tra le montagne, protetto da strade infide, sorvegliato facilmente da pochi uomini fidati. Mi domandavo cosa avesse di particolare un luogo che poteva ospitare simili associazioni a delinquere, quando sarebbe bastato un buon albergo in qualche paesino fuori mano. Immaginate un santuario, senza le consuete bancarelle di ricordini od oggetti di religione, che forse fanno la loro comparsa solo in alcune feste dell’anno. Un santuario in fondo a un buco di valle, circondato da una decina di casupole in rovina. Con la cassetta per le lettere arrugginita, con la sua discarica e i propri orticelli. Senza campi, senza stalle, senza alcun negozio. Abitato da qualche famiglia che mi vide arrivare (dall’alto, a piedi e da solo!) e curiosare in giro. Gente che non sorrideva perché non credo avesse nulla di piacevole da comunicarmi né io trovavo il coraggio, ammutolito, di comunicare qualcosa a loro. A Polsi la gente viveva in costruzioni così avvilenti da non trovare riscontro neppure nelle contrade asiatiche più tristemente famose. Non parlo di miseria, che più o meno è uguale, radio o televisione magari ci sono anche, e non credo si possa parlare di fame. Parlo di abbandono, di miseria morale, di isolamento atavico, di rinuncia alla condizione umana.
Ci fu un solo gesto che mi fece pensare a una certa vitalità. Stavo fotografando una donna che raccoglieva legna e comparve un uomo, abbrutito, che in dialetto assolutamente incomprensibile mi disse alcune cose, non arrabbiato, né infastidito. Con la mano destra protesa verso di me, le dita unite al pollice, il solito gesto italiano: «Ma tu che vuoi?». Un misto di demolizione del mio operato e di gelosia, senza minacce. Me ne andai in fretta, perché non sopportavo un minuto di più quella gente che mi aveva squassato e riempito del loro dolore. Giurai che avrei detto tutto ciò. Perché non si può passare sotto silenzio il destino di uomini condannati a vivere come le bestie dall’incuria dei loro simili. Io non so se servano più le scuole, piuttosto che gli ospedali o le fabbriche. So solo che chiunque scenderà come me da Montalto su Polsi, riceverà un’impressione indelebile, forse inesprimibile e si sentirà coinvolto in questa specie di delitto. Ricordiamocelo: Polsi, un santuario che rimanda non solo per le sue origini ai bizantini e ai normanni, in un paese dove si abbatteva il falco pecchiaiolo (che qui chiamano Adorno) perché altrimenti «la moglie ti fa le corna», in una regione che dal resto d’Italia è tenuta isolata come un’escrescenza.
Maréttimo
A Villa San Giovanni ci aspettava alla stazione Marco Marantonio. Nato a Savona il 29 ottobre 1960, Marco era già stato mio compagno in decine di salite effettuate per la redazione del mio Cento Nuovi Mattini. Tra Genova e Savona storicamente non è corso mai quel buon sangue, così trovai in lui un personaggio gradevole e dall’intelligenza fuori dal comune che riusciva a dialogare con me prendendomi per il culo come solo un savonese arguto può fare. Ovviamente gli rendevo pan per focaccia, ma in qualche modo senza far mai pesare la mia superiore età e l’autorità che invece tutti mi riconoscevano.
La destinazione immediata era Palermo, dove già avevo qualche contatto tra gli arrampicatori locali. La sera avevamo già fatto grande amicizia con Marco Bonamini, Giuseppe Maurici, Maurizio Lo Dico, Roberto Manfrè. Ci portarono in pieno centro storico a mangiare il pesce, era un buco piccolissimo, pieno di gente e di casino, dove però mangiammo pesce a sazietà, con qualità eccelsa e prezzi modestissimi. Quella sera, in mezzo al fritto, la storia dell’arrampicata in Sicilia subì una forte accelerazione e tutti noi ne eravamo gli inconsapevoli artefici.
A suggellare il patto di amicizia il 3 ottobre andammo in sei alla Diretta allo Schiavo: a Bonamini e Manfrè (che si è legato con Marantonio) si erano aggiunti gli amici romani Fabrizio Antonioli e Giorgio Mallucci.
Avevo letto tutto sul Monte Pellegrino, per esempio che per tre anni il cartaginese Amilcare Barca durante la prima guerra punica aveva ostacolato i romani padroni di Palermo: si era arroccato in cima al Pellegrino e da lì riusciva a disturbare notevolmente le truppe romane.
Oggi questa montagna è meta di escursioni e di gite domenicali. Fino a quando non era stata costruita la strada carrozzabile, che sale sul versante meridionale, l’unico privo di rocce a picco, le comitive salivano a piedi da Palermo lungo bella mulattiera, specialmente ogni 4 settembre, data del pellegrinaggio popolare alla Grotta e quindi al Santuario di S. Rosalia, la patrona della città.
L’antico Heirkte, il Pellegrino, che Goethe definì il più bel promontorio del mondo, si trova oggi al centro di una nuova invasione, pacifica ma massiccia. La qualità della roccia, la vicinanza a una grande città, le buone condizioni atmosferiche pressoché permanenti ne hanno fatto uno dei più meritatamente frequentati centri di arrampicata. In posizione un po’… decentrata rispetto alle altre regioni d’Italia, il Pellegrino non ha visto negli anni ’80 e ’90 una grande invasione dal Nord. Ma è bastato che Rolando Larcher vi aprisse qualche itinerario difficilissimo ed ecco scatenato l’afflusso con francesi, inglesi, svizzeri, americani e tedeschi.
Per noi la visita arrampicatoria al Pellegrino si rivelò inferiore all’interesse che ci destava la città. Palermo è da vedere con calma, anche se è caotica. Meglio girare a piedi, o in autobus, nelle vie più eleganti o nelle viuzze del mercato, tra montagne di pesce, pile di olive e di dolcini, tra i mille odori di una città orientale. Si possono visitare le vestigia degli arabi e dei normanni, soprattutto si può fare un salto a Monreale e al famoso Chiostro, i cui archi, colonnine, giardino e la fontana decentrata ricordano la pace dei giardini zen. Per la colazione di mezzogiorno non c’è problema: si può consumare un piatto di pesce al bazar, come pure una «panella». La sera c’era il locale di pesce di cui purtroppo non ricordo il nome.
Dovevamo fare attenzione a non urtare la suscettibilità di qualcuno. Al mercato di Ballarò per esempio, si vede che non erano abituati ai “turisti”. Un giorno a Marco, curiosando tra i pesce spada, venne naturale mettersi le mani dietro la testa, così per stirarsi in una specie di esercizio stretching. Dietro al banco si sentì un urlo, “’a cruci, ‘a cruci”, era il venditore che stava facendo il giro della bancarella e stava con violenza verbale ordinando a Marco di smetterla con quella specie di “fattura”. Ci volle del buono a convincerlo che Marco si stava solo stiracchiando…
In qualche modo io avevo fretta di andare prima di tutto all’isola di Maréttimo, la più lontana delle isole Egadi: il turismo, anche per questione di “mafie” locali, si arrestava a Levanzo e Favignana. Quando dal mare arrivammo all’unico centro abitato, dallo stesso nome dell’isola, vedemmo un agglomerato di case di un solo colore, squadrate tra mare e gariga. Questa s’alzava sulla montagna sovrastante, che però spariva a una certa quota in un fitto ammasso di nuvole, così l’isola sembrava sospesa tra nubi e mare. Un effetto irreale.
Se sul versante orientale Maréttimo è nuda e spoglia di vegetazione, sul versante occidentale l’isola è addirittura inabitabile: profondi valloni la solcano, paralleli e incollegabili, grandi pareti dolomitiche sbarrano l’accesso anche dal mare. Solo qualche cacciatore ogni tanto si avventura in questi valloni, non con l’intento di fare una traversata o un collegamento, ma solo per stanare i pochi animali che vi vivono. Su tutte le guide turistiche è detto che l’unica esplorazione che si può fare della parte occidentale dell’isola è quella dal mare. Oggi però, grazie all’iniziativa dei miei amici bolognesi della Cooperativa La Carovana, è possibile un percorso della costa occidentale. Non è adatto a tutti, certamente. Le segnalazioni sono rade, proprio per non snaturare la caratteristica selvaggia di questo percorso, per lasciare anche agli altri il gusto della scoperta progressiva e dell’avventura. Ne è nato un trekking con passaggi di natura alpinistica, da non affrontare con leggerezza o inesperienza. Una specie di Selvaggio Blu siciliano. Anche se oggettivamente l’isola può essere considerata piccola, ci si può accorgere in fretta di quanto relativo sia questo giudizio.
E le arrampicate? Beh, lì è gran parte del futuro.
Dopo una visitina a Punta Troia, tanto per vedere le rocce sul mare, tornammo al villaggio e da lì ci avviammo in direzione opposta, verso il Faro di Punta Libeccio. Eravamo in cinque, Nella, Fabrizio, Giorgio, Marco e io. Dotati di ogni genere di comfort per dormire all’aperto. Eravamo soli con il mare e il vecchio faro. Facemmo anche una ricognizione verso Punta Pegna.
Di sera parlammo assai, Giorgio Mallucci mi confidò che era stato lui a tentare per primo l’Aguglia di Goloritzé, sei anni prima di noi, nel maggio 1975. Arrivato alla piana del Golgo con intenti bellicosi, assieme a Gianni Battimelli, Loretta Pasqualotto e al giovane polacco Rys Zaremba), scese a Goloritzé per una vaga traccia (non c’era ancora il comodo tracciato che c’è adesso).
L’impatto con l’Aguglia – che fino allora avevano visto solo in fotografia – non lo avrebbero dimenticato facilmente; per buona parte della giornata restarono sdraiati alla base, fantasticando su una via possibile. Nel pomeriggio Giorgio e Rys attaccarono comunque, Rys salì quello che ora è il primo tiro corto comune a Sinfonia dei Mulini a vento e a Sole incantatore, poi partì verso sinistra Giorgio che, dopo una ventina di metri, si aggrappò a un masso che venne via d’improvviso. Giorgio riuscì a evitare il contatto diretto con il masso, che volò a parte, ma non riuscì a non cadere. La sosta cedette, il malloppo dei cordini, moschettoni e con l’allegato Rys si ritrovò a fermarsi sull’unico chiodo che per fortuna tenne, con il contrappeso di Giorgio molto più in basso, quasi a terra. Il volo da lui fatto non era stato da poco, lo spavento di entrambi grandissimo. Decisero che per quella volta aveva vinto l’Aguglia…
Il mattino del 5 ottobre decisi che non era il caso d’impegnarsi in una vera e propria ripetizione completa della via dell’Urlo. Mi bastava andare a ripetere con la corda dall’alto almeno i tiri più impegnativi. La sera avevamo il traghetto e non volevo rischiare. Fu così che con Giorgio e Fabrizio, dopo il lunghissimo avvicinamento su una costa aspra e selvaggia, ci buttammo in una serie di manovre che ci avrebbero permesso di fare una relazione, ma non di dire che avevamo salito la via.
Capo Còfano
Con le mani sui fianchi osserviamo dalla costa irta di piatti scogli a Cala Buguto la mole massiccia e ormai velata di qualche vapore di umidità del Monte Còfano, un promontorio che si spinge nel mare a dividere il golfo del Còfano e il golfo di Bonagia. Prima di partire ancora un tuffo nelle calde acque ottobrine del mare vicino a Trapani. Davanti a noi si rizza una cresta di calcare mesozoico: vagamente assomiglia alla cresta sud dell’Aiguille Noire de Peutérey: specialmente una torre è simile alla Punta Welzenbach. Vicino alle auto sono alcune agavi in fiore, quindi stanno per morire. La calura delle undici-dodici di mattina vela la parete esposta a mezzogiorno, s’intravede appena quanto sia irta di creste e torrioni, dalla ben complessa geografia.
Questa notte abbiamo dormito sulla spiaggia del porticciolo di Maréttimo e non è stata una buona nottata: il vento ci spingeva addosso una sabbia finissima che entrava nel sacco piuma e s’appiccicava ovunque, sciroccosa e spiacevole. La traversata in aliscafo ha peggiorato le cose, il mare era grosso, al limite delle possibilità del mezzo e noi cominciavamo a rimpiangere d’esserci riempiti di focaccia dal panettiere di Maréttimo. Insomma questo Capo Còfano non ci entusiasmava ed eravamo riluttanti alla quotidiana avventura. La scelta del materiale sull’asfalto durò più del solito, perfino Marco non ne aveva voglia e non venne.
Il risultato di tutta l’operazione fu una bellissima via interrotta e conclusa di notte, a rischio di bivaccare. A tarda ora capimmo che non avremmo mai potuto proseguire oltre la Torre Welzenbach e che anzi avremmo avuto difficoltà a scendere di lato. La Cresta Vistammare per noi finisce qui. Oltre la torre ci attendono una calata in doppia a un intaglio e la risalita di una parete a pilastri gialli e rossi che s’alzano verso la cima in grosso disordine: in esso avremmo potuto sperare di salire con poche difficoltà, anche se sapevamo che la bellezza di un itinerario dipende dalla sua verticalità, cercando nel labirinto di canaloni e di fessure la via più facile fino alla vetta. Ebbene, questo lo farà in seguito Roby Manfrè, senz’altro più mattiniero di noi.
Durante la discesa a tal punto non distinguevamo più i contorni che ci trovammo a effettuare una calata in doppia dove due mesi dopo un corso di alpinismo sarebbe sceso più o meno camminando.
Marco cominciava a chiedersi in che cavolo di avventura era finito e quali ritmi infernali avrebbe dovuto ancora affrontare, visto che eravamo solo all’inizio.
– Belin, avete una tempistica da pazzi! Dopo il culo che ci siamo fatti ieri a Maréttimo, oggi siete arrivati a quest’ora di sera e adesso vuoi andare a San Vito Lo Capo a fare domani una via di 400 metri?
– Sì. Il tempo di mangiare qualcosa e poi andiamo – fu la mia perentoria risposta.
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