Dalla conquista della notte alla sconfitta del giorno
di Carlo Alberto Pinelli
(dall’Annuario del CAAI 2014-2015, per gentile concessione)
Una provocatoria riflessione
Horace-Bénédict de Saussure nel Voyages dans les Alpes scrive che i suoi primi tentativi di raggiungere la vetta del Monte Bianco avrebbero avuto un esito migliore se le guide reclutate a Chamonix non avessero sempre preteso di risolvere l’ascensione nell’arco di una sola giornata, dalle prime luci dell’alba al tramonto. “La gente del posto” annota lo scienziato ginevrino “non crede che sia possibile tentare di trascorrere una notte intera sui ghiacci, allo scoperto, senza gravissime conseguenze”.
Carlo Alberto Pinelli al Mountain Wilderness Wakhi Project, 2014. Foto: Anna Sustersic
Quando cerchiamo di immaginare quali fossero le difficoltà, i timori, i blocchi psicologici che limitavano gli exploit dei padri fondatori del turismo verticale, spesso tendiamo a prendere in considerazione i materiali e il vestiario inadeguati, la paura dell’ignoto, le troppo elementari conoscenze delle tecniche alpinistiche necessarie per superare i ripidi pendii ghiacciati o i ponti di neve sui crepacci e così via. E sottovalutiamo quello che probabilmente rappresentò per lungo tempo uno dei più seri ostacoli con cui quei nostri predecessori dovettero fare i conti. Per calpestare vittoriosamente una vetta non bastava soltanto dimostrarsi all’altezza delle difficoltà tecniche e delle incognite che l’itinerario prescelto presentava. Era necessario anche affrontare una o più notti all’addiaccio, a quote e in luoghi inospitali, dove nessun uomo di buon senso fino ad allora aveva mai pensato di poter cadere addormentato senza risvegliarsi automaticamente nell’Aldilà. In altre parole: il successo dell’alpinismo dei primordi dipese in buona misura anche dalla conquista della notte. Una conquista che – al pari di molte altre – nascondeva in sé i germi di molte gravi future contraddizioni e degenerazioni.
È probabile che già in epoche precedenti a de Saussure alcuni ostinati cercatori di cristalli e cacciatori di stambecchi e camosci, sorpresi in quota dal maltempo o dalla nebbia, siano stati costretti a bivaccare sotto un sasso aggettante senza per questo lasciarci la pelle o impazzire. La storia però ha dimenticato le loro disavventure e ha assegnato il merito di aver infranto il tabù per primo al giovane e stravagante cacciatore Jaques Balmat di Chamonix. Costui, durante uno dei tentativi compiuti dalle guide della valle verso la vetta del Bianco, fu abbandonato dai compagni, smarrì la via del ritorno e venne arrestato all’imbrunire da un enorme crepaccio. In conclusione dovette trascorrere un’interminabile nottataccia nella bufera.
Un’esperienza di certo non piacevole, ma a quanto pare non abbastanza traumatica da indurlo ad abbandonare la “corsa alla vetta”. Anzi. Come è noto fu proprio lui, l’anno successivo e dopo un altro bivacco, a raggiungere per primo il culmine del Monte Bianco, insieme all’intrepido dottor Michel Paccard, quel fatidico 8 agosto del 1786 che oggi consideriamo – forse a torto – come la data ufficiale della nascita dell’alpinismo. Horace-Bénédict de Saussure, che aveva, come diremmo noi ora, “sponsorizzato” l’impresa, raggiunse anche lui la vetta, l’anno successivo, accompagnato da diciotto guide, da un domestico personale e da una cassa di bottiglie di Champagne. Per rendere meno disagevole l’avventura egli fece costruire in precedenza lungo il percorso due rudimentali ricoveri di pietra. Il secondo, posto sulle rocce dei Grands Mulets, resistette pochi inverni e nessuno ne conosce più l’esatta ubicazione. Esso tuttavia può essere considerato a ragione come il prototipo di tutti i rifugi d’alta quota delle Alpi. Ma i tempi, per quel genere di manufatti, non erano ancora maturi. Fu solo nel 1853, quando ormai l’ascensione al Monte Bianco era diventata quasi di moda tra i turisti più avventurosi, che le guide di Chamonix decisero di edificare di nuovo ai Grands Mulets una vera a propria capanna di legno e pietra. Si trattava, come è facile immaginare, di un tugurio puzzolente e privo di qualsivoglia sospetto di comfort. Niente cuccette e niente tavolato: i visitatori dovevano coricarsi alla meglio su mucchi di paglia ridotti a strame fetido. Anche se a noi oggi la cosa può sembrare inverosimile, abituati come siamo a ben altri scempi, quel primo modestissimo tentativo di antropizzazione della wilderness alpina causò notevoli dissensi e fu denunciato come una autentica profanazione.
Cartolina con un disegno di Samivel, L’heure de la soupe
“Simili edifici,” scrisse allora un alpinista inglese “grazie ai quali una curiosità banale può comodamente giungere ad ammirare scenari grandiosi, tradiscono il loro scopo. Sappiatelo! Se le comodità fanno due passi avanti verso il pittoresco, il pittoresco si ritira d’altrettanti passi!“.
Basterebbe sostituire l’antiquato temine “pittoresco” con il più moderno “paesaggio naturale” per ritrovare in questa breve frase una sorprendente modernità. Confesso che non mi dispiacerebbe poter stringere la mano a quell’inascoltato profeta. La sua sensibilità poteva e può apparire eccessiva; ma certo i suoi occhi interiori vedevano molto lontano.
Dalla metà del XIX secolo in poi i rifugi – sempre estremamente spartani – si moltiplicarono lungo l’arco delle Alpi. Al principio del XX secolo il solo Club Alpino Italiano ne possedeva già quasi cento. Quelle costruzioni, bisogna ricordarlo, erano ancora presenze discrete, rudimentali, spesso non prive di una sottile poesia. I loro profili, se da un lato inevitabilmente addolcivano un poco la selvaggia grandiosità degli ambienti che li circondavano, dall’altro lato contribuivano a donare a quella stessa grandiosità sovrumana un termine di paragone comprensibile; se preferiamo: ne permettevano per immediato contrasto una più intensa e struggente chiave di lettura. A mio avviso nessuno ha saputo descrivere con maggiore delicatezza di Samivel questo prezioso servizio di intermediazione culturale ed emotiva offerto agli alpinisti dalle sperdute capanne degli anni eroici.
Paul Gayet-Tancrède alias Samivel (Parigi, 11 luglio 1907 – Grenoble, 1 febbraio 1992)
“… E tutta quella sterminata notte carica d’abissi ruotava intorno alla minuscola conchiglia di latta dove riposavano gli uomini. Là dentro c’era uno spazio addomesticato, ancora fremente di gesti umani, pieno di oggetti familiari, rassicuranti e ben delimitati: il profilo rustico di una panca, il rosseggiare delle ceneri nella stufetta, il rumore rasposo delle coperte sul tavolato. Nient’altro che cuori amici. Una specie di particolare tenerezza delle cose fatte per essere usate dall’uomo, fedeli come cani, uscite per una volta dal torpore interminabile in cui erano condannate a vegetare i nove decimi dell’anno e felici di servire finalmente a qualcosa, di giocare il loro gioco, di essere tavolo, panca, casseruola, coperta e non più oggetti incomprensibili sperduti nel caos delle pietre (…) Perché la capanna navigava, come un’arca carica di tepore e di vita, tra le lunghe onde del silenzio e della morte“.
Se mettiamo a confronto il carattere della maggioranza dei rifugi attuali, trasformati in alberghetti tanto confortevoli quanto congestionati, con l’atmosfera magica descritta da Samivel, l’abisso appare impressionante.
La “fragile arca” è stata spazzata via quasi ovunque, per far posto a solidissimi “transatlantici“, all’interno dei quali gli ospiti ritrovano fin troppe delle comodità lasciate in pianura; tra queste ovviamente l’affollamento eccessivo. Però addossare ogni colpa all’aumento vertiginoso dei frequentatori della montagna è una spiegazione che non basta a soddisfarci. Perché tende a trasformare quanto è avvenuto in una fatalità ineluttabile e cancella ogni responsabilità per le politiche di incentivazione indiscriminata delle attività alpinistiche praticate dai vari club alpini, pro loco, agenzie di viaggio, associazioni di guide, ecc.
Certamente non è possibile identificare il momento preciso in cui, nella pianificazione dei ricoveri alpini, la via del rispetto ambientale, della discrezione, dell’essenzialità fu abbandonata per scelte che hanno portato al trionfo delle attuali offerte. Se c’è un rifugio che ha riassunto in sé molti degli aspetti più discutibili della conquista della notte in alta quota, quel rifugio è senza dubbio la capanna Regina Margherita al Monte Rosa.
Un rifugio commisurato all’ambiente: La Cabane des Dix, Vallese
Intanto perché l’edificio fu innalzato, per la prima volta nella storia, proprio sulla vetta di una grande montagna; poi perché per costruirlo fu minata e spianata la stessa vetta; infine perché la faraonica, indecente ristrutturazione compiuta una trentina di anni fa, ha rappresentato una penosa testimonianza del ritardo culturale di ampi settori del Club Alpino Italiano.
Non sono oggi l’unico alpinista “romantico” che reputa che per i rifugi sia giunto il momento della resa dei conti e che urga affrontare un riesame globale dell’intero problema. La conquista della notte, proliferando sempre di più, in assenza di ogni regola, è sul punto di causare la sconfitta del giorno. Vale a dire la degradazione delle esperienze autentiche che l’alta montagna può ancora offrire a chi le si avvicina direttamente, rinunciando ad ogni protesi superflua.
A tale proposito le Tesi di Biella, elaborate nel 1987, al termine del Convegno dal quale è nata l’associazione Mountain Wilderness, dicono: “Il desiderio – teoricamente comprensibile – di convertire il maggior numero di persone alla pratica della montagna, facilitandone l’avvicinamento, ha innescato spesso processi di deleteria antropizzazione. Per fronteggiare la crescente domanda si è fatto ricorso all’apertura di nuovi rifugi, all’ampliamento progressivo di quelli esistenti, alla messa in opera di vie ferrate e di altri incentivi al consumo. Ma questa politica contiene gravi errori di valutazione. Essa infatti trascura i valori della wilderness – e della solitudine che la caratterizza – come cardini irrinunciabili della qualità dell’alpinismo. Noi crediamo che la progettazione e la capienza dei rifugi non debbano inseguire la richiesta dei potenziali frequentatori, ma vadano calibrate sulla quantità di presenze che gli ambienti naturali, più facilmente fruibili grazie a tali ricoveri, possono sopportare senza perdere di significato“.
Il nuovo rifugio Gonella al Miage (Monte Bianco)
Oggi stiamo assistendo a un ulteriore, insidioso passo in direzione del declassamento dell’esperienza interiore dell’alta montagna. Insidioso proprio perché apparentemente positivo. Mi sono chiesto più di una volta cosa mi metta a disagio quando vedo le foto di rifugi e bivacchi ricostruiti su progetti all’avanguardia, firmati da veri e propri architetti. Sto pensando al nuovo rifugio Gonella al Miage, al bivacco “spaziale” dedicato a Gervasutti ai piedi della Est delle Grandes Jorasses, al nuovissimo e scintillante “colosseo” del Goûter, sulla via normale francese al Monte Bianco. In questi casi non sono solo le accresciute dimensioni a rendermi perplesso (anche se continuo a restare fedele alla convinzione, utopica quanto si voglia, secondo la quale quando un rifugio si rivela insufficiente a ospitare il crescente flusso dei visitatori, la soluzione non dovrebbe essere quella di ampliarlo, ma semmai di chiuderlo, per salvaguardare la qualità dell’ambiente montano circostante). Ciò che mi rende perplesso è anche la qualità dell’intervento architettonico. Quei rifugi, frutto di un design raffinato, mi disturbano perché li trovo “belli”. Belli però di una bellezza aggressiva e autocompiaciuta, riflesso del gusto estetico di un preciso momento storico. Una bellezza “databile” che, in quanto tale – precisamente in quanto tale – stride con il fascino primordiale dell’ambiente selvaggio circostante. Non rinnego quanto ho appena scritto commentando il toccante paragrafo di Samivel. Ma le modeste e disadorne capanne di un tempo traevano il loro significato di “ponte” tra gli esseri umani, figli del loro tempo, e la grandiosità atemporale dell’alta montagna proprio dall’essere solo umili zattere di salvataggio, architettonicamente insignificanti: tane di emergenza, sprovviste di indizi visivi capaci di collocarne la costruzione in una fase stilistica precisa. Le soluzioni architettoniche che caratterizzano i rifugi e i bivacchi di cui sto parlando ci trasmettono invece un doppio messaggio, mistificatorio e arrogante (anche se ancora fortunatamente marginale): primo, gli esseri umani sono in grado di “abbellire” la wilderness montana e, secondo, di conseguenza hanno il diritto di imporre su di essa la firma indelebile della propria storia, figlia del mondo della pianura. All’addomesticamento dello spazio, causato dalle eccessive dimensioni dei rifugi, si sovrappone così un parallelo e forse non meno deleterio addomesticamento dell’ultima superstite dimensione “fuori dal tempo” che avevamo la fortuna di poter sperimentare.
Il nuovo refuge du Goûter, Monte Bianco
Quelle che erano mie sensazioni dalla causa non ben definita l’ho ritrovate esposte e spiegate con chiarezza e superiore competenza, penso che ogni vero amante della montagna e della natura in generale vi si ritroverà, articolo davvero ammirevole.
Mi spiace per MW e per simpatizzanti vari, ma qui ci sono valori mooolto importanti in gioco. Non si tratta di essere d’accordo o meno con opinioni “personali” (aiee se ricorre…, per me il mondo è bello perché vario…), si tratta dei valori di base degli essere umani come la libertà di andare in natura in modo consapevole e compatibile (!) e in montagna (non solo nei rifugi!!!! non so se si riesce a comprendere la differenza…) o il diritto di esistere per coloro che non sono parte della cosi detta “casta”. E poi si tratta di amministrare la “Cosa Pubblica” secondo Legge e non secondo parametri definiti … appunto personalistici, per non dire di molto peggio….
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Chi non conosce bene i valori di cui stiamo parlando e le lapidarie sentenze di MW è pregato di rileggere gli articoli su questo blog.
Altrimenti non ha senso rispondere a commenti poco pertinenti, da cui mi asterrò.
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PS
Pinelli può liberamente continuare a scrivere quello che vuole esattamente come chiunque può evitare di dare considerazione alcuna ai suoi scritti o a quelli di MW, perfino postando commenti molto più che civili, al contrario invece di chi lapida per poi nascondere la mano…
Pinelli ha diritto di comunicarci le sue riflessioni, poi ognuno può farci sopra le proprie, e comunicarcele commentando il post. Se invece qualcuno fa lo sciopero della lettura perché rimprovera a Pinelli di non pensarla come lui, o di essere un ambientalista non abbastanza “puro” (sempre perché non la pensa come lui) su un determinato tema, è solo lui a perderci.: questa è una novità assoluta, il commento che non commenta, ma solo vuole fare atto di presenza, ostile. Sarebbe consigliabile mantenere alla discussione un tono civile, se non altro perché ciò avrebbe invogliato chi ignora i motivi del contendere ad approfondire.
Personalmente credo che davvero i rifugi stiano cambiando natura, e non ci sia nulla di male a riconoscerlo, e a convenire sul fatto che oltre certi livelli, portare le comodità della vita “civile” attenui il fascino dell’ambiente alpino, in certi casi addirittura annullandolo. D’altronde, stiamo consumandola tutta, la Terra, questo è solo un aspetto, particolarmente caro agli alpinisti. Siamo in un’era in cui chi progetta un rifugio vuol lasciare il proprio marchio sulla “sua” opera: riflesso del nostro tempo, che di se stesso vuol lasciare imperitura testimonianza. Si può auspicare un ritorno a quando i rifugi erano davvero tali, ma forse è troppo difficile farlo e bisogna accontentarsi di frenare il fenomeno. Quel che è inaccettabile è vietare a chi voglia di dormirci vicino: quanto vicino va considerato “troppo vicino”? Affideremo la tutela della privativa del rifugio alle guardie comunali? Certo che la tenda sulla porta del rifugio non sarebbe tanto gradevole. Come sempre nella vita, il buon senso aiuterebbe.
Anche io non ho interesse per l’articolo, che logicamente non ho letto, ma invece l’ho avuto per i commenti e credo anche di aver ben compreso le motivazioni che stanno dietro all “erudito” commento del Sig. Quadraroli…
Personalmente, per quanto riguarda l’essere umano, credo nell’esistenza di alcuni limiti e, allo stesso tempo, nel fatto che l’uomo può e dovrebbe avere l’aspirazione al miglioramento. Quindi, se sbagliare è umano, perseverare … diabolicum. Siamo in una civiltà al tramonto in cui spesso l’ideale del saggio soggiace alle nevrosi che, si sa, registrano un aumento costante. C’è solo un modo per sanare gli errori commessi, mi riferisco soprattutto a quando si sono superati i limiti del buon senso e di ciò che è giusto: rimboccarsi le maniche e rimediare riparando gli errori stessi.
Cioè, se non si rispettano determinati limiti, intendo dei limiti importanti, se non si rimedia agli errori commessi e neanche si ha il coraggio di confrontarsi, per quanto mi riguarda, le persone che perseverano in essi non esistono più, nel senso che non attribuisco alcun valore a ciò che enunciano. Il pensiero espresso dalla “famosa” lettera della Signorina umbra di MW è apparso purtroppo corrispondere, per grandi linee e a tutti gli effetti, al pensiero unico espresso per lapidarie sentenze e senza repliche da Betto Pinelli. Ne deduco che i differenti soggetti di MW sono perfettamente in linea tra loro e in sintonia con i “signori” che gestiscono la cosa pubblica in maniera diciamo….. personalistica, per utilizzare le stesse parole del Presidente del CAI Umberto Martini.
Pertanto, a questo punto, non ho alcun interesse a leggere quanto possono scrivere suddetti signori, non ho più neanche interesse a leggere eventuali loro risposte ai quesiti posti negli altri articoli a più voci: ormai sembrerebbero evidenti le reali motivazioni che muovono le penne di lor signori. Ne consegue che, essendo dei rappresentanti di un’Associazione, qualsiasi pensiero espresso dalla stessa Associazione diventa per me privo di qualsiasi tipo di interesse.
Effettivamente questo divieto di poter bivaccare liberamente è un vero atto di arroganza e di limitazione della libertà personale dei frequentatori della montagna.
Non riesco a capire se questo divieto è frutto di una presunta “salvaguardia” ambientale oppure se nasconde una protezione economica degli incassi dei rifugi. Vietando il libero bivacco si è costretti a usare il rifugio e quindi a spendere.
Personalmente non sono contrario ai rifugi. Certi rifugi secondo me fanno parte della storia dell’alpinismo , le loro pareti trasudano di storia e sono incastonati nell’ambiente che li circonda. Ne fanno parte.
Altri invece sono delle vere schifezze, sono solo macchine per fare soldi e di rifugio non hanno nulla!
Con la loro mole e visibilità rappresentano solo l’aggressione dell’uomo nei confronti della natura selvaggia e della maestosità della montagna, con l’evidente volontà di dominarla. Quindi andrebbero demoliti.
Rimango sempre un po’ stupito quando leggo le considerazioni di un “vecchio montanaro” di quelli cioè che sono talmente veri o che si sentono tali, da averne perfino l’aspetto ieratico del saggio, depositario di verità antiche e immarcescibili, custode di segreti miti animistici, dispensatore di consigli su ciò che si ritiene doveroso in nome di una appartenenza ad un ordine superiore di eletti. Praticanti di una tracimazione di principi teologici e filosofici su ciò che ritenuto “elevato” è anche per definizione “inaccessibile” ad opera di una sacrale volontà che soltanto a “determinate condizioni” concederebbe agli umani di accedervi. Per esempio lo zen del rapimento mistico “..oltre la vetta che ti è stato concesso salire, sali ancora da essa…” i versi romantici sulle notti adamantine compagne del gelo delle rupi, l’aria sottile che respirerà il tuo spirito liberato dagli affanni terrestri e pedestri, il muto parlare del “genius loci” che ammalia il tuo sonno…custode vigile e premuroso nel giaciglio improvvisato del tuo bivacco perchè un buon sonno possa ritemprarti per il cimento dei tuoi prossimi passi… Tutto questo sarebbe finito solo perchè le montagne si sono arricchite di un progresso che da la possibilità ai molti amanti dei monti, una volta severi e inaccessibili, di starsene tranquilli al caldo in socievolezza con gli altri, per goderseli poi finendo anch’essi, come nei tempi passati e ispirati dei primi “salitori” , nell’apoteosi delle vertigine dei dirupi, e nello scintillio delle vette? Basterebbe parlare con qualcuno che pratica la “montagna attrezzata” dei tempi attuali per sentire ancora quanta ammirazione hanno dei luoghi visitati e quanta gioia hanno incamerato tra quelle più belle della loro vita per essere stati su una vetta a …”grattare le terga degli dei” che bonariamente hanno concesso loro di solleticarli con le loro effimere sicumere tecnologiche. Eh si! perchè non ci sono solo le architetture iper-funzionali dei moderni rifugi serviti da ardite funivie la cui tensi-struttura è spesso una scommessa con la dinamica dei materiali, c’è anche tutto il resto che è stato prodotto per rendere più agevole quello che dopotutto è rimasto un sport faticoso ed impegnativo secondo l’osservanza del “saper andare” in montagna! Allora via a tutti gli orpelli di un arsenale tecnologico sempre più affidabile per rendere “l’ascesa” più sicura per quanto la si possa utilizzare al meglio delle prestazioni ; leghe superleggere al titanio per piccozze, martelli, ramponi, moschettoni, chiodi, knut, e sopratutto il gore-tex (o suo simile) signore incontrastato dei tessuti tecnici e quant’altro possa rendere l’amore della montagne certamente meno pioneristico ma di gran lunga più fruibile in termini sia emozionali , sia estetici. Certo oggi “l’attrezzo” indispensabile per chi pratica la montagna a vari gradi di difficoltà turistico-sportiva, è la carta di credito per accedere ai servizi offerti dai rifugi, compresi l’equipaggiamento adatto nel caso che uno volesse arrivarci in giacca e cravatta magari uscendo dal proprio ufficio a valle (capita anche questo!). Cosa cambia? Tutto certo ma “La Montagna” è sempre li che aspetta ( Albert Mummery diceva che si scalano le montagne solamente perchè stanno li!) e se mai le girasse “il chiccherone” ti sbatte giù allo stesso modo che faceva coi temerari valligiani cercatori di cristalli alla Balmat! . Occorre umiltà naturalmente e tanto amore per quanta bellezza ancora racchiude e che al giorno d’oggi è concesso a moltitudini di persone di ammirarla dalla ringhiera di un rifugio d’alta quota che assomma al calore di una stufa e di un letto pulito, quello umano sodale alla stessa ammirazione. Eh si caro compagno montanaro, io me lo ricordo il tempo quando andavo solitario per monti e i miei erano di quelli ai quali per salirvici bisognava fare la preparazione della “veglia del guerriero”, mettendo nei 20-25kg di zaino praticamente tutto l’occorrente per sopravvivere ad una campagna di guerra!I Te li ricordi i ramponi a 10 punte calzati con le fascette che si ingarbugliavano nel leva e metti sul misto? I chiodi e i moschettoni di ferro dolce che se non li recuperavi andavi fallito ogni volta avessi avuto voglia di farti una paretina? I teli incerati da bivacco che ci sudavi dentro inzuppandoti di più che se fossi stato all’addiaccio magari dentro una buca di neve e intonso da tutti i “peduncoli” metallici che ti portavi addosso per paura di finire arrostito dai fulmini in caso ti fossi fermato per un sopraggiunto maltempo? Il fornelletto a meta che a mala pena di riscaldava l’acqua per un thè o un provvidenziale brodo coi dadi che costituivano tra l’altro l’unica garanzia alimentare da succhiare nel caso finivi ancora intero in un crepaccio in attesa dei soccorsi? La mia inseparabile Cassin molata a mano con su scritto il nome della bella di turno che ancor dopo si pavoneggiava come una fiera signora suscitando rispetto e ammirazione quando, fino a qualche annetto fa e prima che il cuore desse forfait, si confrontava con le Stubai o le Camp ergonomiche in lega leggera…mi accompagnò fedele per la Cresta del Signal, presa da Macugnaga, per la Gnifetti con un bivacco in parete e, con le stelle che più brillanti non potevano essere, festeggiai i miei 21 anni che al tempo costituivano l’ingresso alla maggiore età e con essa il mio battesimo alle “solitarie” spesso in notturna sotto il tetto delle stelle. Quando arrivai alla sognata Capanna Margherita trovai il calore comune a tutti i montanari della terra, gratificato dagli elogi di quei pochi frequentatori, per lo più ricercatori scientifici, per la mia solitaria notoriamente lunga e difficile, pieno di una gioia infinita per quell’imprimatur che Il Monte Rosa ” Mia Sublime Regina” mi aveva generosamente conferito. Oggi so che moltitudini di persone raggiungono la Punta Gnifetti e stazionano alla Capanna Margherita che pur non essendo un bell’esempio di architettura montana, è stata rinnovata con tutti gli accorgimenti tecnico-funzionali per il confort degli amanti della montagna equipaggiatissimi di tuttii i ritrovati tecologici per raggiungere le vette limitrofe in quel paradiso dei “4 mila” che diventeranno per loro i soggetti indelebili di un’esperienza unica e indimenticabile. Nella mia fantasia visionaria da “vecchio scarpone” immagino che i miei nipoti, ai quali ho consegnato tutta la mia passione montanara, salgano alla Capanna Margherita e prima di coricarsi nei suoi comodi letti vadano al tramonto sulla ringhiera del belvedere del rifugio e guardando di sotto per la cresta affilata del Signal che si perde nella Valle Anzasca dicano; nostro nonno se l’è fatta tutta da solo bivaccando in parete…sai che sballo deve essere stato!
Sì, c’è anche questo rischio segnalato da Pinelli con profondità e chiarezza soprattutto nell’ultima parte del suo intervento, perché anch’io le trovo architettonicamente affascinanti e belle ma, per la natura selvaggia, prepotenti e invasive, queste nuove realizzazioni.
Tuttavia, a proposito dei rifugi, io trovo che il pericolo maggiore sia attualmente dato da una gestione che somiglia sempre più a quella degli stabilimenti balneari, con sempre meno libertà per gli alpinisti e gli escursionisti in cerca di una “spiaggia libera”: nel senso dell’accesso, della possibilità di dormire fuori, di vivere autonomamente l’avventura insomma.
Un esempio? Si vieta il bivacco all’aperto, a meno che non si sia accidentati, feriti o morti, però si consente di allestire i cantieri sulle pareti.
Negli ultimi anni delle mie esplorazioni in Dolomiti, da solo o con gli amici, non sopportavo più di dormire dentro un rifugio. Avevo bisogno di respirare. Non montavo tende ma, con un semplice telo da imbianchino di m 4 x 4, una stuoia e un sacco a pelo che rimuovevo all’alba, mi piaceva dormire all’aperto, a debita distanza dai rifugi stessi. Beh, il rifugista veniva ugualmente a braccarci e ci ammoniva.
Da custode appunto di un possibile rifugio per quanti in alta quota abbisognassero, sta diventando padrone del territorio.
Caro Alessandro,
purtroppo ha perfettamente ragione Giorgio Robino, i modi usati dal Sig. Pinelli sembrano molto somiglianti a quelli che hanno portato al non confronto ed alle imposizioni su scelte che noi ambientalisti ci troviamo a subire…quindi lo “Sciopero” indetto da Robino trova la mia piena approvazione ed adesione!
Gli ambientalisti veri si riconoscono dall’esempio che danno …diverso da quello che invece dovrebbe essere tipico solo di chi sta dall’altra parte della barricata …
non mi piace l’idea di leggere ancora l’espressione di suo pensiero personale, già abbiamo dovuto farlo sui nostri articoli con commenti sopra le righe e tra l’altro “toccata e fuga”!
Bella idea “democratica” Giorgio!
No, Giorgio, qui non sono d’accordo con te. Se Pinelli vorrà rispondere alle domande di chiarimento che da più parti gli sono state poste, risponderà. Non è certo uno che si spaventa del confronto dialettico.
Invece ci azzecca poco fare “sciopero” e non leggere altri suoi contenuti.
Non so che dire. Da una parte non mi dispiace vedere degli edifici “belli”… dall’altra io, personalmente, nei rifugi ci vado il meno possibile. Preferisco frequentare montagne dimenticate, non so se da dio, ma certamente dagli uomini. Ci sono rifugi che magari 50 anni, quando la gente si spostava meno, un po’ erano frequentati… ma che ora sono chiusi e non ci va più nessuno. Tipo la Capanna Volta in alta Val dei Ratti. Mi fa piacere che non ci vada nessuno che così ci vado più volentieri io. A dire il vero non mi dispiace che esistano montagne alla moda, dove si concentra la folla, perchè più grandi rimangono gli spazi dove vive la solitudine.
Pan per focaccia. Come forma di protesta non leggo l’articolo.
Dato che, Carlo Alberto Pinelli, non hai risposto in ragionevole tempo a Paolo Caruso e tutte le persone che chiedevano un confronto su questione dei Monti Sibillini (ma è solo un casus-belli).
Ecchediamine. Siamo sempre in attesa di comunicazione con qualcuno di Mountain Wilderness.
Il timeout però sta per scadere (lo darei per scaduto) e do per totalmente assente l’organizzazione da una comunicazione sociale benchèminima.
Perchè se non parla qui su questo blog quantomeno “amico”, figurati fuori.
No problem. Perchè l’ambientalismo non è proprietà intellettuale di nessuno.
Siamo spiriti liberi e camminiamo da soli.