Dallo sci estremo allo sci ripido
(evoluzione o involuzione?)
di Carlo Crovella, 26 ottobre 2018
Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(2)
Mettendo in ordine il mio archivio mi sono trovato fra le mani alcune diapositive risalenti agli anni a cavallo fra ‘80 e ’90.
In quel frangente avevo terminato poche stagioni prima il mio mandato da Direttore della Scuola di scialpinismo della SUCAI Torino, scuola che al tempo attraversava la fase (durata 15-20 anni) in cui annoverava i massimi storici dimensionali: quattro pullman da 50 posti nelle gite invernali – ovvero 200 persone, che diventavano 215-220 con l’aggiunta di qualche auto – e circa 150-170 partecipanti nelle uscite primaverili in rifugio, spesso su terreni glaciali e di alta montagna.
I numeri della Scuola si sono successivamente ridimensionati per la maggior offerta di possibilità di apprendimento (anche informali, attraverso amici e conoscenti), ma in compenso, rispetto ad allora, sono notevolmente aumentati gli obblighi burocratici previsti dal sistema (moduli da compilare, timbri, fax, etc). Di conseguenza, oggi come allora, gestire una Scuola, specie se di tali dimensioni e importanza, è decisamente impegnativo. Praticamente questo impegno assorbe l’intero tempo libero, annullando l’attività personale in montagna. Si giunge così a un punto di saturazione tale da scivolare facilmente in una specie di crisi di rigetto dei ruoli organizzativi. In parole semplici si oltrepassa un confine e, per esigenze di “libertà”, si desidera tornare a disporre in pieno del proprio tempo per l’attività personale in montagna.
Autoscatto in vetta al Pelvoux il 4 luglio 1987: Carlo Crovella (casco rosso) e Stefano “Ginger” Ferraris, due storici Direttori della Scuola SUCAI di Torino degli anni ’80-’90, in procinto di realizzare la (probabile) prima discesa italiana in sci del Couloir Coolidge (Arch. C. Crovella)
Almeno così è accaduto a me. In quel frangente storico (a cavallo fra anni ’80 e ’90) sono ritornato “padrone del mio tempo” in corrispondenza di un importante snodo storico che riguarda lo sci fuori dalle piste battute. In pratica lo sci estremo dei decenni precedenti, da attività riservata a pochi eletti, si stava aprendo ad un pubblico maggiore (trasformandosi progressivamente in quello che oggi conosciamo come “sci ripido”) e in questo trend mi sono inserito anche io, anche se ho occupato posizioni non certo di primissima fila. Le citate diapositive, scattate proprio in quegli anni, si rivelano uno spunto per elaborare alcune considerazioni sullo stato dell’arte dello sci ripido.
Occorre inserire immediatamente una piccola, ma sostanziale precisazione storica. In genere si fa risalire lo sci estremo agli anni ’60 e ’70, ma in realtà esistono dei precedenti anche lontani nel tempo.
Già negli anni ’20 il britannico Arnold Lunn si rivelò un vero precursore del settore, dedicandosi alle ascensioni sciistiche di prestigiose vette alpine (Dom de Mischabel, Eiger, etc.), finché le conseguenze di un grave incidente, occorsogli in gioventù, contribuirono a limitare progressivamente la propria attività in alta montagna. Tuttavia salire con l’attrezzatura dell’epoca su cime ancor oggi considerate molto prestigiose (si pensi al Dom de Mischabel!) può essere considerato il prologo dello sci impegnativo. In questo filone, da buon torinese non resisto alla tentazione di segnalare la prima invernale sciistica della Nordend (Monte Rosa) compiuta nel febbraio del 1932 da Giusto Gervasutti, Emanuele Andreis e Paolo Ceresa.
Un primo evento storico specifico per lo sci su pendii ripidi si registrò a cavallo del 1935, quando gli austriaci Peter Schindelmeister e Fritz Krügle realizzarono alcune imprese negli Alti Tauri, con discese di pareti ripide (45 gradi) anche di 1000 metri di dislivello. Il risvolto ideologicamente importante è che si trattò delle prime discese “ripide”, cioè realizzate come specifiche performance tecniche.
Trent’anni fa si sciava sul ripido con queste “putrelle”, pesanti, lunghe e diritte come fusi. Vetta del Pelvoux, sullo sfondo la Sud della Barre des Ecrins e, dietro ancora, la Sud della Meije (Arch. C. Crovella)
Nella fase successiva si distinse per blasone la discesa (1941) dell’Aiguille d’Argentiere per il Glacier du Milieu ad opera dei francesi Ėmile Allais, André Tournier e Maurice Lafforgue. Oggi è una gran classica dello scialpinismo primaverile su ghiacciaio. Allais (questa volta con Livacic) scese anche dal versante Nord del Dôme du Goûter.
L’interruzione per la guerra impose una pausa che, nel campo specifico, durò molto di più rispetto a quella dell’alpinismo. Si può segnalare l’unica eccezione costituita dalla discesa (1953) del versante nord del Monte Bianco direttamente dalla vetta, ad opera di Lionel Terray con il canadese Bill Dunaway. Occorre invece attendere la seconda metà degli anni ’60 per registrare nuove imprese sciistiche di punta, destinate successivamente a intensificarsi fino a costituire, specie nel corso del decennio dei ’70, un vero e proprio fenomeno mediatico antelitteram: lo sci estremo propriamente detto.
I protagonisti di queste performance diventarono in breve tempo delle vere e proprie star, note anche al di fuori dello stretto giro degli appassionati di montagna. I loro nomi ancor oggi ci dicono qualcosa. Il primo fu lo svizzero Sylvain Saudan, attivo appunto da metà anni ’60, capace di conquistarsi l’appellativo di sciatore dell’impossibile, anche se adottava prassi che appaiono, oggi, molto discutibili: per esempio spesso raggiungeva le vette in elicottero.
Con i primi anni ’70 giunsero alla ribalta numerosi e “temibili” francesi: solo per citare i più rilevanti, si incontrano i nomi di Patrick Vallençant, Anselme Baude, Serge Cachat Rosset, Daniel Chauchefoin e Jean-Marc Boivin nel gruppo di Chamonix, mentre in area Grenoble-Briançon operarono in particolare Gérard Chantriaux, Thierry Clavel, Jean-Pierre Bonfort e Volodia Shahshahani. Quest’ultimo, il celebre Volo, è il fondatore della casa editrice Volopress, specializzata nelle Toponeige sciistiche, nonché l’inventore dell’omonima scala che oggi si sta affermando come il metro universale di valutazione degli itinerari sciistici.
In campo italiano vanno citati in particolare l’altoatesino Heini Holzer, il trentino Toni Valeruz e il genovese Stefano De Benedetti, che porterà lo sci estremo all’acmè, ma con ciò “chiuderà” storicamente il periodo d’oro dello sci estremo (nonostante qualche coda che citeremo fra poche riga).
Lo sci estremo, pur utilizzando gli sci, era un’esplicita derivazione dell’alpinismo, da un punto di vista tecnico, ma soprattutto ideologico e comportamentale. Numerose sono le conferme di tale affermazione. Innanzi tutto il terreno d’azione: si tratta di discese di importati pareti e di couloir glaciali in alta quota. Celebre è il trittico di Saudan degli anni ‘60: Couloir Spencer all’Aiguille de Blatiere (23/9/67), Couloir Whymper all’Aiguille Verte (10/6/68) e Couloir Gervasutti al Mont Blanc du Tacul (16/10/68). A queste lo sciatore svizzero aggiungerà in seguito molte altre imprese (tra cui Canalone Marinelli alla Est del Rosa, Ovest dell’Eiger, etc.) fino verso la metà dei ’70.
Alla base della Forcella Gialeo (Val Varaita di Bellino) dopo la nostra (probabile) prima discesa, il 21 febbraio 1988 (Arch. C. Crovella)
Troppo lungo sarebbe l’elenco delle imprese degli anni ‘70 ad opera dei chamouniardi (un piccolo assaggio: Cresta di Peuterey, Parete nord dell’Aiguille Blanche de Peuterey, Couloir Couturier alla Verte), mentre i loro “cugini” grenoblesi-brianconnesi (con l’aggiunta di Vallençant) si sono concentrati in particolare sul massiccio del Delfinato: spiccano le discese dei tre immensi couloir del gruppo Pelvoux-Pic San Nom-Coup de Sabre, sul lato nord della bastionata, ovvero verso il Glacier Noire.
L’altoatesino Holzer dalle montagne di casa ha spaziato anche sulle Alpi Centrali (Nord del Piz Palu), fino all’Oberland (Nord dell’Aletschhorn) e alle Occidentali (Sperone della Brenva e Nord del Gran Paradiso), prima di cadere dalla Nord del Piz Roseg (Bernina).
Anche Toni Valeruz spaziò da un capo all’altro delle Alpi: parete est del Cervino, Nord-est dell’Eiger, Nord-est del Monte Civetta e Nord-ovest del Gran Vernel.
Stefano De Benedetti, giunto alla ribalta con una serie di exploit che costituiscono un ulteriore salto di qualità (Via Major alla Brenva, Via dei Francesi alla Parete est della Punta Gnifetti, Cresta dell’Innominata al Bianco) successivamente porterà all’estremo lo sci estremo (scusate il gioco di parole), cioè si spingerà alla ricerca delle “pareti fantasma”, come la Parete est dell’Aiguille Blanche de Peuterey (18 giugno 1984), cioè pareti strutturalmente rocciose (e non glaciali come quelle delle performance precedenti) scese in sci prima che il leggero manto nevose evapori del tutto. Tracce che resistono l’espace du matin.
In parole semplici i protagonisti dello sci estremo, prima ancora che appassionati sciatori, erano (o erano stati) valenti alpinisti: si pensi a Boivin che è considerato da tutti uno dei divulgatori dell’allora nascente tecnica della piolet-traction per le vie di ghiaccio. Dal canto suo Heini Holzer era un arrampicatore di razza in Dolomiti. Lo stesso De Benedetti, giunto alle top performance sciistiche con maggior celerità rispetto ai suoi predecessori, faceva parte di un giro di celebri alpinisti (uno fra tutti: Gianni Comino), che spesso lo salivano insieme a lui la parete per poi ridiscenderla con picca e ramponi.
Salendo al Pelvoux, il 4 luglio 1987: abbiggliamento ed attrezzatura in perfetto stile “bonattiano” (Arch. C. Crovella)
De Benedetti ha rappresentato una delle punte di diamante della mediatisation del fenomeno: i suoi filmati erano ripetutamente in onda sulle TV. Con leggero anticipo cronologico e con un approccio più provocatorio, il francese Boivin si inserì perfettamente nel clima del periodo, caratterizzato (nel risvolto strettamente alpinistico) dai famosi enchainement (es: tre Pareti Nord – Jorasses, Cervino, Eiger – in 24 ore, etc.), di cui lo stesso Boivin fu uno dei protagonisti. Anni ’80: siamo in pieno edonismo reganiano come si diceva allora.
Successivamente le grandi discese tendono a rarefarsi, anche se si incontrano ancora dei personaggi di spicco, fra i quali si distinguono il francese Pierre Tardivel (che operò in zona Monte Bianco – Grand Pilier d’Angle, etc. – con una “scappata” fin sul versante sud dell’Everest) ed il triestino Mauro Rumez (attivo in particolare nelle Alpi Giulie).
A questo punto ci imbattiamo in uno snodo storico di rilevante importanza. A metà circa degli anni ‘80 emerse e si rafforzò progressivamente un nuovo fenomeno, che possiamo considerare come la reazione allo sci estremo così esasperato. Inizialmente il nuovo filone non era ben codificato e rimase nel limbo per diverso tempo, ma col senno di poi esso costituì il preludio di quello che oggi chiamiamo “sci ripido” per differenziarlo rispetto al precedente “sci estremo”. Mentre quest’ultimo era limitato a un manipolo di supereroi che realizzavano performance “estreme” sulle grandi pareti in alta quota, il nuovo trend si esprimeva attraverso l’attività di “comuni” appassionati di scialpinismo, però attirati verso terreni più ripidi e impegnativi rispetto alle classiche gite in sci.
Sicuramente tale evoluzione è stata registrata un po’ dappertutto nell’arco alpino e non solo sul versante italiano. Da buon torinese mi fa piacere ricordare i conterranei Ugo Pognante e Federico Negri, nonché il monregalese Igor Napoli. Il connubio Pognante-Negri impresse un netto salto di qualità nell’ambiente dello sci subalpino: divisi da un certo arco anagrafico, i due si incontrarono proprio per il comune amore verso le discese “ripide”, facendo convergere le rispettive attività che, separatamente, avevano già iniziato in precedenza. In particolare è opportuno ricordare le imprese che Federico Negri aveva precedentemente realizzato, spesso in solitaria, nella conca di Bardonecchia, con discese che ancora oggi incutono timore e rispetto: Punto Zero (Punta Melchiorre) e La legge della Elle (Punta Baldassarre), entrambe nel gruppo dei Re Magi, proprio sopra l’abitato bardonecchiese.
L’impresa che io giudico storicamente più rilevante della loro attività comune è la discesa (1986), insieme a Marco Pitet, del versante Ovest del Roc del Boucher (alta Val Susa, ramo di Cesana-Bousson): probabilmente non è stata la loro discesa tecnicamente più difficile, ma esprime chiaramente la loro ricerca di terreni ripidi di media montagna e va considerata una pietra miliare, specie nell’ambiente torinese, per l’evoluzione del movimento che sfocerà poi nello sci ripido. Nelle nostre valli si creerà negli anni successivi un nutrito gruppo di appassionati fra cui spicca senza dubbio il nome di Enzo Cardonatti, che si affiancò a Negri quando quest’ultimo riprese l’attività a cavallo del 2000 (nel frattempo Pognante era scomparso al Couloir Gervasutti del Tacul nei primi anni ’90, mentre Negri ci lasciò nel 2009 in Val Pellice).
Prime curve lasciando la vetta del Pelvoux il 4 liglio 1987 (Arch. C. Crovella)
Igor Napoli ha invece dato vita ad una significativa attività nelle Alpi cuneesi, innescando una “colonizzazione” sciistica degli infiniti canali e versanti innevati, “colonizzazione” che si è protratta per anni e spesso dura ancora oggi, grazie allo stesso Napoli, ma anche a molti altri esponenti che qui sarebbe troppo lungo ricordare uno per uno.
Un’altra annotazione storicamente rilevante è la seguente: così come facevano gli “eroi” dello sci estremo negli anni precedenti, anche i pionieri dello sci ripido utilizzavano attrezzatura di stampo classico, in particolare sci lunghi (2 metri e qualche volte anche di più) e decisamente poco sciancrati. Erano gli sci da Coppa del Mondo: allora si sciava con quelli. Se aggiungiamo scarponi, attacchi, abbigliamento e magari piccozza e ramponi di impostazione tradizionale, si giunge alla conclusione che i pionieri dello sci ripido hanno davvero “oltrepassato” un confine ideologico, senza alcun ausilio specifico da parte delle tecnologia. I ripetitori odierni delle loro discese sono esplicitamente facilitati da sci e altro materiale nettamente più evoluto (sia nelle performance tecniche che nel peso), per cui le stesse discese si sono (purtroppo, aggiungo io) sgradate nel corso del tempo.
Perché il movimento dello sci ripido potesse partire e diffondersi era necessario che i pionieri dessero vita ad un’intensa attività di divulgazione del nuovo “verbo”. E così avvenne, con diversi scritti e numerose conferenze corredate da proiezioni di diapositive. Il tutto confluirà nell’elaborazione, seppur in epoca un po’ successiva, di alcuni libri che diventeranno dei veri e propri best seller: Voglia di ripido di Igor Napoli (2002), Ripido! di Negri-Cardonatti (2005) e il successivo Ripido! di Cardonatti (2012).
Torniamo alla mia esperienza citata in apertura. Che c’entro io con lo sci ripido? Io sono sostanzialmente uno scialpinista classico, seppur con uno spiccato gusto esplorativo, e mi sono sempre dedicato a pendenze “normali”, magari condite con il pizzicorìo delle alte quote glaciali o con il gusto transumante dei raid di più giorni. Però, come ho accennato in apertura, la riconquista del mio tempo libero, a cavallo fra anni ’80 e ’90, ha creato le condizioni perché nelle mie intense stagioni sciistiche (con più di 50 uscite) andassi oltre i confini tradizionali, fino a realizzare anche delle discese ripide. Per lo più ci impegnavamo in importanti ripetizioni, tra cui il Couloir Davin in Delfinato (allora degno di particolare rispetto, oggi considerato una discesa entry-level del ripido). Ma ogni tanto è scappata anche qualche discesa che probabilmente non era ancora stata effettuata, solo che (di fronte ai blasonati personaggi che stavano conquistando la scena) in quel frangente raramente io ho pubblicato degli scritti sul tema.
Il Couloir Coolidge del Pelvoux è ormai alle spalle (Arch. C. Crovella).
Ricordo però alcune giornate di particolare pregnanza, almeno per me. Come ho detto mi piaceva già allora l’ambiente glaciale dell’alta quota e ho cercato di trascinare i miei compagni di avventura in alcune discese con tali caratteristiche, anche se non potevamo certo competere con le performance dello sci estremo né con quelle dello sci ripido di punta. Le diapositive che mi sono tornate in mano riguardano la discesa del Couloir Coolidge al Pelvoux (Delfinato), una vetta che sfiora i 4000 metri. Il canale non è eccessivamente ripido, ma è già “ripido” e in più è certamente insidioso, perché la sua esposizione in pieno Ovest fa trovare neve normalmente ghiacciata, mentre il resto del ghiacciaio è già ampiamente rammollito. In pratica si tratta di un “gitone d’alta quota” con un lungo portage (1400 metri solo per giungere al rifugio), cui segue un articolato itinerario glaciale inframezzato da un canale ripido: era da qualche anno che lo curavo con particolare attenzione, per cogliere le condizioni ottimali. Al tempo della nostra avventura (1987) il canale era già stato disceso in sci da alcune équipes francesi, mentre non risultavano precedenti realizzazioni italiane.
La mia attività di ripido si è estesa per una decina di stagioni circa. In seguito tale mia attività si è via via rarefatta per varie cause: maggiori impegni professionali, il matrimonio, la paternità, acciacchi diffusi o, forse, semplicemente il riemergere della mia natura di scialpinista “classico”. Tutti elementi che mi hanno riconvertito verso un’attività tradizionale, ma con un netto gusto esplorativo. Alla mera difficoltà tecnica collegata al ripido, oggi mi intriga maggiormente scoprire cosa c’è dietro l’angolo, se si riesce a “passare” da quel vallone al successivo, se si può fare un anello intorno ad una montagna e così via: per me questo è il modo più profondo per vivere la montagna con gli sci. Tuttavia non ho abbandonato l’interesse culturale verso lo sci ripido e credo che, avendolo praticato per un discreto arco temporale, posso parlarne con cognizione di causa.
Negli ultimi decenni ho assistito alla diffusione a macchia d’olio dello sci ripido. Una domanda che spesso mi pongo è se l’attuale sci ripido possa costituire una degna democratizzazione dello sci estremo di circa 50 anni fa. In altre termini: è un bene o un male che il fenomeno sia oggi così diffuso? Vi sono considerazioni che depongono verso conclusioni affermative, altre (magari strettamente personali) che spingono verso tesi opposte.
Prima di tutto mi fa piacere riprendere l’analisi che, dello sci ripido (in particolare della sua fase iniziale) ha dipinto il mio amico Marco Faccenda (Direttore della Scuola SUCAI a cavallo del 2000) nel corso di una serata organizzata dalla SUCAI stessa presso il Sermig di Torino nel dicembre 2014. In tale occasione (il cui tema generale era incentrato sullo scialpinismo e le sue evoluzioni) oltre a Faccenda i relatori erano Lorenzo Bersezio (anche lui sucaino) e il sottoscritto.
Il triangolare versante ovest del Roc del Boucher (alta Valle di Susa), qui in versione invernale, teatro della celebre discesa (1986) di Pognante-Negri-Pitet, vera pietra miliare dello sci ripido subalpino (Arc. C. Crovella)
Faccenda ha tracciato un parallelo fra lo sci ripido e il freeclimbing, che, per noi torinesi tende a coincidere con il cosiddetto Nuovo Mattino. In parole semplici Faccenda sostiene che lo sci ripido si è staccato dallo sci estremo come il freeclimbing fece (anni ’70) dall’alpinismo classico. A sostegno della sua tesi Faccenda porta diversi elementi, a cominciare dal diffondersi di soprannomi dei personaggi di spicco (Kanalin, Kowalski, Il Guru…) come accadde anche con il Nuovo Mattino (Il Principe, Il Mago, Il Maestro…).
Ma l’argomentazione più rilevante della tesi di Faccenda coinvolge il terreno di azione: il freeclimbing, mettendo in disparte le alte vette, si concentrò sulle rocce di media montagna (si pensi alla Valle dell’Orco) e altrettanto fa lo sci ripido, che rinuncia alle pareti di alta quota e va a scandagliare versanti e canali che, data la minor quota, sono sciabili nell’intero periodo innevato e non solo in tarda primavera come le pareti d’alta quota.
Da tutto ciò derivano alcune importantissime conseguenze ideologiche: per lo sci ripido non è più importante raggiungere una vetta ben definita e blasonata, ma il problema tecnico esiste in quanto tale, magari si scia in un couloir che parte da una selletta innominata posta su una crestina secondaria (si pensi all’analogia con le arrampicate che culminano su un altipiano, per dirla alla Andrea Gobetti). Ancora: spesso queste discese vengono battezzate con nomi di fantasia, a volte anche irriverenti e provocatori, come accade per le vie di arrampicata che più nulla hanno a che fare con la vetta specifica o con i loro primi salitori. Infine: mentre lo sci estremo era esclusivo di un ridottissimo drappello di top performer, lo sci ripido ha avuto una maggior diffusione fra gli appassionati. Questo fenomeno ha subìto una accelerazione quasi senza controllo negli ultimi 20 anni, grazie all’evoluzione tecnica e tecnologica dei materiali (in particolare con l’affermazione degli sci sciancrati che, inutile negarlo, rendono più facile la sciata), per cui possiamo oggi considerare lo sci ripido un fenomeno di massa, almeno relativamente ai frequentatori della montagna innevata.
Ed è questo il punto che, personalmente, mi lascia perplesso: l’eccesso di persone coinvolte già di per sé è un elemento poco positivo per le montagne, se poi queste persone non hanno una precedente “educazione” alla montagna, spesso si creano le condizioni per situazioni poco simpatiche o addirittura drammatiche.
Il triangolare versante Ovest del Roc del Boucher (alta Valle di Susa), qui in versione tardo primaverile, teatro della celebre discesa (1986) di Pognante-Negri-Pitet, vera pietra miliare dello sci ripido subalpino (Arc. C. Crovella)
Oggi, anche grazie ai già citati sci sciancrati, molto spesso gli sciatori passano direttamente dalla pista (impianti) al ripido, senza transitare per una fase più o meno lunga di scialpinismo classico. In tale fase intermedia si impara (o, meglio, si dovrebbe imparare) come muoversi sulle montagne innevate, incorporando le tematiche che vanno dalla valangologia all’etica del comportamento. Chi viene “sparato” direttamente sul ripido (magari perché trascinato da amici entusiasti) difficilmente riesce ad acquisire il modo di ragionare richiesto dalla montagna. In parole povere si concepisce lo sci ripido come un semplice sport, come se fosse un’alternativa alla corsa al parco o all’immersione subacquea. Da qui derivano comportamenti anomali. Capita di vedere persone salire o scendere versanti ripidi a tutte le ore del giorno (compreso il tardo pomeriggio con neve mollissima), altri che si infilano nei canali subito dopo una copiosa nevicata (alla ricerca dell’inebriante poudreuse), altri infine che durante una discesa ripida telefonano o postano sui social come se fossero nel salotto di casa (allentando così l’attenzione richiesta dal contesto circostante).
Non parliamo poi di situazioni che a me fanno letteralmente rizzare i capelli: canali che riecheggiano di urla smodate (“batti cinque!”, “che figata!” “facciamo un selfie!”…); sciatori che vanno a curvare (sul ripido) proprio a un palmo dagli estranei, telecamerine posizionate sul casco, davanti e dietro, per filmare ogni attimo e commentarlo (magari in diretta su qualche social…).
Insomma un vero luna park. Per uno come me, cresciuto nell’insegnamento che le montagne sono il tempio di una “religione laica” e come tali vanno rispettate con il proprio silenzio e con atteggiamenti controllati, questo approccio (peraltro esteso a tutte le discipline della montagna) proprio non appare accettabile. Ovviamente mi affretto a precisare che esistono anche numerose eccezioni (sia fra gli odierni ripidisti di punta che fra i normali ripetitori di discese del settore), ma il problema è che il becerume è talmente diffuso che oscura chi scia “con eleganza di modi e cognizione di causa”.
Un grintoso Carlo Crovella in vetta al Pelvoux il 4 luglio 1987, prima di affrontare la discesa del Couloir Coolidge. Sullo sfondo la Sud della Barre des Ecrins (Arch. C. Crovella)
A parte le situazioni che sconfinano in incidenti più o meno drammatici, proprio non digerisco questo ridurre lo sci ripido ad un Circo Barnum. Tale problema ha una radice ben precisa: un conto è se uno scialpinista classico (con un certo bagaglio di conoscenze assodate ed un certo approccio etico alla montagna) “cresce” fino a cimentarsi in discese ripide, come accadeva nella fase pionieristica del ripido; un altro paio di maniche è se la gente fa “solo” ripido, come oggi capita sempre più spesso. Questo risvolto sta diffondendosi in maniera irreversibile: molto gettonata è l’accoppiata fra sci ripido quando c’è neve e MTB dall’estate alle nevicate successive. Non c’è bagaglio esperienziale derivante da una frequentazione generale della montagna, non si sa affrontare situazioni critiche, e si esprime una complessiva “maleducazione” verso la montagna e gli altri. Naturalmente faccio di tutt’un’erba un fascio e quindi so che non rendo giustizia ai ripidisti più nobili, ma qui mi sto concentrando solo sulla parte “brutta” dell’attuale sci ripido.
Inoltre: è chiaro che non è solo lo sci ripido a creare questi effetti distorti, perché purtroppo tutte le discipline collegate alla montagna sono oggi inquinate da problemi analoghi. Il guaio dello sci ripido è che (rispetto all’alpinismo estivo) permette l’inquinamento della montagna anche nei mesi invernali e (rispetto allo sci alpinismo tradizionale) coinvolge terreni molto particolari (couloir, versanti ripidi, etc.) che un tempo non vedevano anima viva.
In conclusione: lo sci estremo era un’attività d’élite ristretta ad una compagine estremamente selezionata di protagonisti: terminate le grandi discese questo fenomeno non avrebbe potuto estendersi oltre. La fase iniziale dello sci ripido sdoganò le discese ripide (ma non estreme) di media montagna, aprendo nuovi spazi di attività a disposizione di sciatori “normali”, anche se rimaneva l’impronta classica nell’approccio ideologico di base. La più recente massificazione del fenomeno, pur rendendolo più “democratico” (cioè a disposizione di tutti), ha comportato un netto peggioramento nel modo di rapportarsi con la montagna innevata.
Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza!
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Mi sembra che tu non abbia letto con attenzione l’articolo. Il contenuto del testo non è assolutamente incentrato sul confronto scialpinismo-sci ripido (chi meglio, chi peggio), né su quale disciplina annoveri il maggior numero di DSF che purtroppo hanno invaso tutti gli ambiti della montagna (compreso l’alpinismo estivo, vedi articolo sul Corriere della Sera di fine agosto).
Il contenuto di questo mio articolo è incentrato sullo sci ripido, con i suoi pregi e i suoi difetti, con le sue eredità del passato e le sue novità, molte delle quali sono positive su tutti i fronti. Ovviamente il tutto suscettibile di una mia valutazione personale.
Caro Carlo,
il senso del mio intervento non era mettere in discussione la veridicità delle tue affermazioni o l’esistenza dei DSF , semplicemente non ritengo corretto, opinione personale, indicare come unico ambito di attività per comportamenti scorretti o incoscienti lo sci “ripido”.
Gli atteggiamenti di cui sopra sono ahimè patrimonio di tutte le categorie di persone che frequentano la montagna: sci alpinisti, ripidisti, garisti, ciaspolatori, freerider, eliski ecc…(tanto per citare categorie ben definite).
Personalmente ne ho riscontrati in molte occasioni e in ogni ambito e il fatto che non siano finiti sui giornali o che non abbiano avuto un seguito di dibattito, non li rendono meno preoccupanti.
La mia opinione personale è che l’evoluzione della tecnologia e dei materiali non producano di per se effetti negativi, a monte c’è sempre l’uomo con la sua educazione e con il suo approccio alla natura.
Ciao
Ciao Enzo, innanzi tutto ti ringrazio per il contributo che arricchisce il dibattito, gia’ frizzante. Sul contenuto, ognuno riporta le sue esperienze, che non possono essere totalizzanti. Le mie esperienze sono incomplete come saranno le tue. Che nell’attuale mondo del ripido esistano i DSF (come li ha definiti Cominetti) è confermato, tra gli altri, dallo stesso Cominetti. Che tali DSF a me non piacciano proprio è altrettanto assodato: puo’ essere una posizione condivisibile o meno, ma ciascuno esprime il suo punto di vista, non quello degli altri. Che le “grandi” scuole (in senso dimensionale) siano un elemento di “inquinamento” e di fastidio (per gli altri) è una verità incontestabile, con la precisazione che in tali strutture c’è sempre un notevole controllo sui comportamenti. In tanti anni di attività da istruttore non mi è mai capitato di assistere, durante le uscite ufficiali, a scene tipo quelle che ho visto di recente in comitive private su terreni ripidi (tra l’altro se un mio allievo si fosse mai permesso una cosa del genere gli avrei fatto una strigliata tale che non ci provava una seconda volta…). I fenomeni che ho descritto in altri miei scritti (es con riferimento all’estate 2018) sono stati riportati anche in articoli di primari quotidiani (es Corriere della Sera), per cui si tratta di fenomeni assodati. In conclusione, sono molto felice che tu abbia vissuto splendide giornate di sci ripido. Anche a me è accaduto, seppur in misura minore rispetto alla tua esperienza complessiva di ripido. Ma da sempre sono un osservatore molto attento dei fenomeni comportamentali in montagna (lo aveva gia’ capito Andrea Gobetti 30 anni fa): ho sempre descritto quello che mi è capitato di vedere.
Ciao!
Caro Carlo,
mi tocca fare la voce fuori dal coro rispetto ad alcune tue considerazioni che non condivido, considerazioni che ho già ritrovato in altri tuo scritti, per altro sempre molto puntuali ed interessanti.
Partiamo da un concetto generale e partiamo dall’oggi: dobbiamo superare le definizioni , esiste un solo sci alpinismo che si basa su due concetti: etica della salita ed estetica della discesa.
Etica della salita è data dall’obbligo di salire con le proprie gambe, trovare l’itinerario migliore, il più sicuro; l’estetica è un fatto soggettivo e quindi ognuno di noi ricerca la propria migliore linea di salita e nella sua discesa esprime ciò che meglio soddisfa il suo personale concetto di estetica . La variabile che interviene è la difficoltà della salita/discesa, le premesse sono comuni, da Cima del Bosco alla nord del Viso.
In questo, la scala di difficoltà Volopress ci da una mano, come a suo tempo fece la scala francese di arrampicata.
Io parlerei più di una naturale evoluzione dello sci alpinismo e degli sciatori alpinisti che non di un processo di democratizzazione ed onestamente nella mia esperienza non ho una visione così critica nei confronti di chi pratica “il ripido” (per capirci).
Situazioni come quelle che tu citi in questo ed in altri articoli, non le ho mai riscontrate. La mia esperienza, per quel che vale, mi ha sempre portato a conoscere persone preparate sia alpinisticamente che sciisticamente che praticano discese più o meno impegnative e , per fortuna, molte di queste giovani. Non si tratta di eccezioni, ma di maggioranza. I DSF nella nostra porzione di Alpi (Liguri/Graie meridionali) li trovi a fare freeride nelle stazioni, ma anche qui, non sul “ripido”, perché a parte poche eccezioni non abbiamo stazioni con canali facilmente raggiungibili. Sul ripido li trovi grazie all’eliski, ma meglio fermarci qui.
Quindi Carlo non condivido il tuo pessimismo storico, l’evoluzione non ci ha portato su un altopiano, ma alla ricerca degli spazi liberi, di linee esteticamente belle che le nostre valli ci offrivano, non è vero che non è importante raggiungere la vetta blasonata quando ci sono le condizioni per poterlo fare (vedi discese sul Monviso). Il nuovo mattino nasce “contro” un concetto di alpinismo eroico e rigido dl quel periodo storico, il nuovo mattino del ripido non è altro che la presa di coscienza di un nuovo terreno su cui sciare.
Certo i materiali aiutano, la maggior conoscenza della nivologia aiuta, la maggiore capacità tecnica degli sciatori aiuta, ma se noi 35 anni fa avevamo un approccio di un certo tipo alla montagna invernale, allo sci, ecc…oggi l’approccio è cambiato e io per certi versi dico “per fortuna”. Oggi, se restiamo nel campo dello sci alpinismo così come in premessa, ci sono molti meno “dilettanti allo sbaraglio” di 35 anni fa, credimi.
Poi scusa, ma se mi parli di “inquinamento invernale” della montagna a causa dello sci ripido…(rispetto allo sci alpinismo tradizionale….) devo metaforicamente tirarti le orecchie, perchè tu scrivi:
In quel frangente avevo terminato poche stagioni prima il mio mandato da Direttore della Scuola di scialpinismo della SUCAI Torino, scuola che al tempo attraversava la fase (durata 15-20 anni) in cui annoverava i massimi storici dimensionali: quattro pullman da 50 posti nelle gite invernali – ovvero 200 persone, che diventavano 215-220 con l’aggiunta di qualche auto – e circa 150-170 partecipanti nelle uscite primaverili in rifugio, spesso su terreni glaciali e di alta montagna.
Tu questo come lo chiami? 220 persone su un itinerario? Lo sappiamo bene noi torinesi, quante volte abbiamo girato l’auto quando al parcheggio trovavamo i pullman della SUCAI.
Ancora oggi le scuole invadono gli itinerari classici con pullman pieni di gente e per dirla tutta, a volte, con comportamenti non molto corretti nei confronti degli altri skialp presenti.
Il problema va visto nel suo complesso, se noi eliminiamo le categorie, i buoni e i cattivi, il giusto e lo sbagliato (quello lo insegna direttamente la montagna, se hai fortuna di sopravvivere alla formazione sull’esperienza) , ci concentriamo in primis su di un problema culturale che riguarda tutti coloro che praticano la montagna in inverno, nessuno escluso.
Lo sci estremo lo consegniamo alla storia, lo sci ripido alla evoluzione tecnica/mentale dello sci alpinismo, resta lo sci, con quei due principi che citavo in premessa.
I temi sono molteplici e si rischia una sintesi affrettata per questioni di spazio, sarebbe tempo di un bel dibattito pubblico, così…per quel che serve, ma almeno ci si confronta di persona, ci si vede. Per me, in esilio volontario da ogni social, resta il modo migliore.
E comunque io il cinque quando arrivo all’auto lo batto (non prima, per scaramanzia). In fondo sostituisce quella stretta di mano tra compagni che dovrebbe suggellare la condivisione di un’esperienza.
Bellissimo articolo, completo, bravo Carlo. Bellissimo anche l’intervento di Marcello. Leggendovi ho imparato un sacco di cose che non sapevo. I tempi sono maturi per scrivere un libro sulla storia dello sci estremo e ripido…qualche editore ci sta pensando!
Anch’io ho avuto la gran fortuna di sciare con Stefano De Benedetti, con Patrick Vallençant, con Boubou e con Eric DeCamp ma su difficoltà modeste, tipo Poubelle e gole della Mer de Glace tanto per intenderci. Con gli sci da telemark stretti di allora, però. Ricordo la disinvoltura di Stefano a tirar fuori da un crepaccio uno di noi che ci era finito mezzo dentro e di Patrick lanciato a bloccare un cliente che aveva perso il controllo degli sci sui 40 gradi del Rectiligne ghiacciato. Probabilmente mi è andata bene, allora non mi sembrava di rischiare più di tanto.
Quello che credo vada ancora effettuato è uno studio sulla differenza (quando c’è) fra sci ripido/estremo e freeride estremo, con linee di discesa velocissime, curve appena accennate, salti di roccia spaventosi, ecc…Tipico dei filmati marchiati The North Face. Opera di sciatori alla ricerca dell’adrenalina pura, aspiranti suicidi (ricordo il film “In to the mind” che si conclude con la lista dei morti) ma senza dubbio sciatori molto bravi, anche se fuori di testa e aiutati da materiali ad hoc. Pessimi esempi in ogni caso per gli apprendisti senza esperienza, quindi da bandire o da vietare ai minori di 6O anni.
Un bel film che permette di riflettere sulle differenze fra lo sci estremo di ieri e di oggi l’ho visto all’ultimo Film Festival di Trento. Si tratta di “Auf den Spuren der Ersten”: un confronto fra la prima della nord del Gran Pilastro degli anni Ottanta (in luglio) e la ripetizione del 2017 (in maggio).
Bel resoconto…di SCI estremo , il mio idolo rimane Tone Valeruz ” e Heini Holzer , grazie..! Saluti..G.C.
Bellissimo leggervi!!! Grazie.
Davvero molto, molto interessanti le considerazioni espresse da Marcello Cominetti: completano a dovere le riflessioni dell’articolo, con l’aggiunta del pensiero (e dell’esperienza di vita vissuta) di chi ha professionalmente accompagnato altre persone sul ripido…
Ho trovato l’articolo molto interessante e sono contento che ogni tanto si parli anche di sci su questo blog. Concordo pure con il fastidio del becerume dammilcinque, sefie, figata, che potremo usare per catalogare (si, proprio catalogare!) quel tipo di sciatore che affronta un pendio ripido come una corsa nel parco. Per semplicità e praticità, costoro possono diventare i… DSF.
Stabilito ciò, non nego che molti DSF mi danno da mangiare perché faccio la guida e quindi li conosco assai, credo che l’estinzione dello sci estremo sia perlopiù dovuta al fatto che a un certo punto ci si è accorti che tanti pendii potevano essere sciati con neve fredda anziché primaverile.
Premetto che io i DFS cerco sempre di redimerli, spiegargli qualcosa anche quando vogliono correre alla successiva scarica adrenalinica da postare nel mare di merda del web e cose così.
I rischi ci sono sempre. Con neve trasformata (qui a oriente si chiama Firn) sciare risulta più facile perché il manto non cede e curvare assomiglia al farlo su una pista ben battuta. In caso di caduta le possibilità di arresto anche su pendenze di 35° sono molto remote, figuriamoci oltre.
Su nevi fredde, polverose e/o comunque dal manto cedevole (lo sci risulta spesso muoversi all’interno del manto nevoso, ricoperto da quest’ultimo), curvare risulta più faticoso ed esige maggiore tecnica, ma in caso di caduta arrestarsi è più probabile. Il rischio di valanga è certamente maggiore, anche se di solito (sottolineo “di solito” cioè escludendo il “sempre”) oltre i 45° la neve si accumula al suolo in misura minore rispetto a pendenze inferiori e il pendio “scarica” durante la nevicata stessa. E’ pura teoria, perché la valutazione va fatta al momento, ovviamente, ma volevo così arrivare a chiederci quale situazione risulta più rischiosa?
E’ anche vero che gli sci sciancrati di oggi facilitano la curva su nevi cedevoli ma sul ripido con neve dura (quella che si cercava nello sci estremo perché si saliva pure a piedi coi ramponi aspettando poi che mollasse quel tantino da poterci sciare più agevolmente), quando toccano solo in punta e in coda lasciando sotto al piede un vuoto preoccupante, fanno paura e si sente immediatamente il bisogno di volere appoggiare quella parte di sci a qualcosa. Per questo anche si ricerca la neve più fredda e cedevole. Sto andando a ruota libera, lo so.
Nelle Dolomiti, dove i couloirs ripidi abbondano, ci sono discese di pendenza compresa tra i 50° e i quasi 60° che non appena nevica vengono scesi da frotte di DSF e raramente ci sono incidenti. Ma ogni tanto ci sono. Come quello di un’amica maestra di sci che precipitò dal canale Joèl al Pordoi (per fortuna senza accopparsi) pensando che fosse come una pista nera (!), mentre suddetto canale è rivolto a sud e presenta spesso condizioni di neve tutt’altro che facili, con tratti ghiacciati dovuti ad un andamento sinuoso… Ebbene, vista la facile raggiungibilità favorita da una funivia e 10 min. a piedi (non servono neppure le pelli), questo canale a volte è affollatissimo e se cadi è facile morire, ma tant’è.
A nord dello stesso meraviglioso Sass Pordoi troviamo il celeberrimo canale Holzer che ha raggiungibilità ancor più comoda. Una paretina mista di rocce e ghiaccio di cascata obbliga a una calata a metà canale-spit in loco-. Raramente la neve ricopre questo salto in modo da poterlo sciare, ma ogni tanto accade. Negli anni ’80 ricordo che veniva sceso da pochi “assi” locali come Mauro Bernardi, Tone Valeruz, Bruno Pederiva, Tita Weiss, Hermann Comploi e A.K (poi vi dirò quasi chi è), mentre oggi devi stare attento a non scontrarti mentre curvi con DSF vari, guide con clienti, e pistaioli che hanno sbagliato strada credendo che il Dolomiti Superski ricopra ogni luogo innevato delle Dolomiti, appunto. Incidenti? Pochissimi se si considera l’affollamento. Neve spesso polverosa e a gobbe dopo le 11! Pendenza fino a 50°.
Tanto per “tirare un po’ d’acqua” a oriente (anche se posso vantare nel mio palmarés varie discese del Lourusa, Nord del Monviso, Monte Granero, Enchastraie, Tour Ronde, Gervasutti, Aig. du Midi, Pubelle, Les Courtes, alcune delle quali con l’allora mio mentore e soprattutto amico Stefano De Benedetti, lo dico per sentirmi anch’io un po’ occidentale, che caspiterina), vi dirò che negli anni 70-80 c’era un ragazzo di Corvara di nome A.K che ripeteva subito le discese di Holzer aggiungendocene qualcuna di sua. La sua riluttanza per la popolarità mi impedisce di citarne il nome completo ma sono orgoglioso di averci sciato assieme moltissimo e di avere imparato da lui tante cose. Oggi, alla soglia dei 60 anni -siamo coetanei- mi chiede se ogni tanto gli faccio da guida, io accetto ovviamente e rido. La discesa la sceglie sempre lui e non di rado si tratta ancora di una prima. La studia in elicottero perché è anche un provetto pilota. Mi dice di portare la corda e qualche chiodo che poi non usiamo mai e… va avanti sempre lui e io lo seguo come un cane. Ci divertiamo anche quando rischiamo quasi di ammazzarci. Indimenticabile una discesa dal Piz Boè con A.K e De Benedetti primi anni ’80. Ero stupidamente fiero di aver congiunto anche se per poco l’occidente con le Dolomiti, come un Carlo Magno sciante de noiantri. E mi perdoni il Prof. Daidola, che adoro.
Negli anni ’80 lavorai un po’ per gli Stage Vallencant accompagnando nelle Dolomiti dei loro clienti con anche qualche loro guida. Un giorno con Frederick Bourbousson detto Bubù e Eric Decamp guidammo 9 sciatori (dei DSF in erba) giù dal canale Nord di Forcella Staunies al Cristallo con una neve crostosa che ci sarebbe voluta una motosega per aprirci un varco. Confesso che mi cagai sotto dalla paura che qualcuno ci volasse giù ma sembravano tutti tranquilli e la discesa risultò persino una bella gita. Il giorno prima eravamo saliti e scesi dal Sassongher per fare la Val Scura con gli stessi clienti e gli scarponi da pista ai piedi (avete presente le suole di plastica?!) e fu lì che mi convinsi, da giovane aspirante guida, che qualcosa stava cambiando.
Io avevo ai piedi i S.Marco Condor 101 che il buon Crovella vedo che sfoggia pure lui con anche gli ottimi Dynastar Vertical. Che ricordi!
Lo stesso tipo di discese con Stefano qualche stagione prima le affrontavamo con religiosità e poco dopo, grazie a quei francesi scavezzacollo vestiti di rosa-viola e giallo, sembrava che tutto fosse cambiato e sdoganato. Fu un flash (per dirla in slang argentino) e da allora ho guidato decine di cercatori di ripido, ma anche se potrebbe sembrare il contrario, mi sono sempre mosso coi piedi di piombo rischiando solo il giusto e mai oltre. Sarà pure andata di culo, lo ammetto, ma per fare la guida sul ripido oggi la cosa più difficile è scoraggiare dei DSF dal voler fare certe cose ridimensionandoli a più miti pendenze e condizioni. Infatti, la guida serve a questo.
Forse ho fatto un po’ di casino (non sono un “ricercatore” alla Crovella anche se per quel tipo di personaggi ho sempre avuto grande ammirazione), ma concludo con un aneddoto che sembrerà superficiale solo a chi non saprà leggere oltre.
Visto che i francesi che venivano in Dolomiti sfoggiavano le prime giacche Degré7 e Francital molto variopinte, al Cristallo quella volta mi presentai con una giacca da cowboy con tanto di frange in pelle. I Dynastar Omeglass da 203 cm già li avevo. Per la stagione successiva dotarono pure me di un completo Degré7 dai colori impronunciabili, che oggi i miei figli si contendono il giorno del Vintage Party sulle piste intorno a casa!
Crovella non inorridire ma: It’s only rock and roll, but I like it.
earidai con questo ….Bonatti.
Dopo qualcuno ti potrebbe dire che sei acido…