Dialogando con l’orso

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Dialogando con l’orso
di Chiara Baù
(pubblicato su imperialbulldog.com, il 29 giugn0 2017)

Tra le news oggi più in voga è facile imbattersi nelle cosiddette bufale o fake news. Si perde più tempo a filtrare la veridicità di una notizia che a prestare attenzione al valore della parola. Potrei raccontare che gli orsi bruni sono golosi di cozze ed essere accusata di notizie false.
Non è così.

Ho visto con i miei occhi lungo le coste dell’Alaska come questi plantigradi non disdegnino affatto i mitili. Sfruttando il loro infallibile olfatto e assumendo le posizioni più impensabili e curiose trascorrono ore e ore indisturbati, scavando nella sabbia, per poi aprire pazientemente una ad una le prelibate cozze che noi di solito compriamo in pescheria. Non è una bufala, ma la pura realtà.
Era tempo di tornare in Alaska. Mancavo da ben cinque anni. Il pensiero di rivedere gli orsi non mi aveva abbandonato. Ma ogni cosa ha il suo prezzo e osservare gli animali nel loro habitat naturale comportava un costo pari a quello di un soggiorno in resort a 5 stelle. Fare la formica per qualche anno era servito. Avevo risparmiato la somma necessaria e tutto si stava realizzando di nuovo: potevo tornare nel mio resort naturale.
Volevo osservare gli orsi nel modo più autentico, senza guide, senza pacchetti pre-confezionati sul bear-watching venduto come un prodotto da supermercato (a volte l’orso spesso viene segretamente attirato da esche di carne appositamente sistemate per soddisfare il gusto fotografico del turista). Non era ciò che cercavo. Nessuno schema, solo gli orsi ed io.
Dopo qualche ricerca trovai un passaggio su una barca a vela che batteva bandiera francese e seguiva una rotta intorno al mondo. Punto di ritrovo Deutch Harbour, un avamposto all’estremità ovest delle isole Aleutine, nel mezzo del Mare di Bering.
A luglio, il periodo da me prescelto, la barca avrebbe navigato lungo le coste dell’Alaska, percorrendo un tratto favorevole all’avvistamento dei grizzly.
Quattro scali e un intero giorno di viaggio mi portarono in questo minuscolo villaggio di case, i cui abitanti sono tra i pescatori più coraggiosi al mondo. Siamo nel mare di Bering, dove durante l’inverno, in condizioni di mare proibitive, si svolge la cattura al granchio reale e alla grancevola artica.
Discovery channel ne fece un documentario chiamato Deadliest Catch. Onde impressionanti travolgono i pescherecci in un vortice tempestoso di acqua e vento. Le foto appese alle pareti dell’unico bar del paese mi confermavano di essere capitata in uno dei mari più insidiosi al mondo.
Solitaria nel porto, nascosta tra colorati pescherecci era ancorata Sauvage, una barca a vela dalla linea elegante e nobile che solo queste imbarcazioni possiedono. Mi avrebbe portato in uno dei posti più isolati della terra.

L’equipaggio era composto da una coppia che aveva scelto il mare come propria residenza. I figli cresciuti in barca; nessun cyberbullismo, maestro di vita il mare, oltre a un sistema scolastico di supporto che la madre aveva accuratamente predisposto.

Un’avventura talmente unica che a tutt’oggi non ho ancora finito di metabolizzare. Nel rivedere foto e video continuo a rivivere ogni secondo di quella realtà. Durante la navigazione è consuetudine compilare il diario di bordo per registrare quotidianamente la meta, le miglia, il meteo. In un discreto francese alla voce destinazione indicavo “Notre prochaine destination: les ours”. Rileggendola mi aveva fatto un certo effetto. Un conto pensarla, immaginarla e programmarla per mesi. Un conto vederla scritta.

Robert Musil, scrittore drammaturgo austriaco aveva previsto che nello spirito del tempo attuale all’effetto della grandezza sarebbe sostituita la grandezza dell’effetto. E’ ciò che in effetti emerge dai social di ogni tipo. Non era il mio caso.

Un’ultima controllata al meteo che nel mare di Bering non è da sottovalutare e siamo salpati. Giorni e giorni di navigazione lungo tutta la costa sud dell’Alaska. Catene di montagne si schieravano parallele alla nostra rotta.

La barca, dotata di sistema satellitare per le emergenze, veleggiava solitaria nell’oceano, nessun’altra presenza intorno: un format più che esclusivo. A una iniziale sensazione di disorientamento e di solitudine in un mare affatto calmo, solo catene montuose all’orizzonte, si sostituì ben presto un senso di meraviglia per quel mondo dominato dalle vere leggi della natura, ma nasceva contemporaneamente anche una sorta di irrazionale voglia di esplorare.

Una dimensione apparentemente irreale, nessun rimpianto per la totale assenza del cellulare. Unico contatto umano quello con l’equipaggio, e poi i miei pensieri.

Uno stato di felicità quasi assoluta, una riflessione su come possano accadere fenomeni come quello della “Blue Whale”, un’ennesima moda via internet che come unico divertimento spinge i ragazzi a eccessi come ad esempio quello di scattare selfie in cima a grattacieli col rischio di precipitare nel vuoto.
A volte, munita di imbracatura, salivo in cima all’albero maestro per scrutare meglio l’orizzonte e da subito fui premiata dalla vista di una balena che in lontananza emergeva tra le onde e per respirare dava un segno di vita espellendo con forza l’aria dallo sfiatatoio.
Se da lontano la costa appariva come una linea continua, con l’aiuto del binocolo mi accorsi che era alquanto frastagliata e nascondeva valli profonde incise da fiordi senza alcuna presenza umana.
L’armatore era al suo quinto giro del mondo, conosceva il percorso e sapeva che in quelle valli era possibile l’avvistamento di orsi grizzly.

Dai miei studi e dalla precedente esperienza in Alaska, immaginavo di poterli avvistare in corrispondenza delle foci dei fiumi, dove banchi di salmoni si apprestano a risalire i corsi d’acqua per depositare le uova. Nulla di più vero. Ma una variabile divertente avrebbe ampliato le mie conoscenze.

Virammo più volte in alcune baie ma senza scorgere nulla. Sapevo che avrei dovuto anche aspettarmi di non vedere alcun grizzly, ma la speranza e la fiducia non mi abbandonavano. Sensazioni analoghe a quelle del pescatore Santiago, protagonista de Il vecchio e il mare sempre speranzoso di trovare del pesce nelle battute di pesca anche dopo mesi di catture fallite.

Navigammo molte miglia prima di approdare in un fiordo dall’aspetto quasi mistico.
Come descritto nell’Odissea, quando il messaggero di Zeus, Argifonte, arriva sull’isola di Ogigia, patria della ninfa Calipso, dove Ulisse risiedeva ormai da sette anni. La descrizione del luogo mi ricordava il fiordo in cui stavamo entrando:

“Ma quando all’isola giunse, che era lontana,
lasciato il mare viola andò sulla terra,
finché arrivò alla grande spelonca, nella quale abitava
la ninfa dai riccioli belli: là trovò che era in casa”
Quattro fonti sgorgavano in fila con limpida acqua,
vicine tra loro e rivolte in parti diverse.
V’erano intorno morbidi prati fioriti di viole
e di sedano. Arrivato in quel luogo, anche un dio,
avrebbe guardato stupito, e gioito nell’animo suo.
Si fermò ammirato il messaggero Argifonte (Odissea, libro V)”.

Tutto sembrava una leggenda. Una leggera nebbia accompagnava l’ingresso nel fiordo. Ci spingemmo nel cuore del profondo canale e qui buttammo l’ancora. La bellezza del paesaggio era tale che aspettai un momento prima di immortalare con la macchina fotografica un luogo così suggestivo. Questo per godere fino in fondo quell’attimo che solo con gli occhi si può avvertire e immortalare.

Iniziava così ciò che mi piace definire il mio dialogo visivo con la natura dell’Alaska. Avevamo ancorato in rada nella parte terminale. Qualcosa mi diceva che le mie speranze stavano per essere ripagate.

L’indomani all’alba, verso le cinque del mattino ero pronta. Una gonfiata al kayak e partii da sola lasciando il mio unico punto di riferimento, la barca. Un elogio alla lentezza caratterizzava quei momenti, nessuna fretta, solo pazienza e determinazione. Non volendo svegliare l’equipaggio stanco per la lunga navigazione, ogni mia azione doveva essere calibrata. Cadeva una leggera pioggia insistente, ma le condizioni meteo non mi avrebbero fermato né condizionato. Una guida alpina polacca una volta mi ha riferito che presso i Monti Tatra non esistono espressioni per definire il tempo brutto. Il tempo in montagna c’è sempre, bello meno, ma c’è: una definizione che andava a pennello con i miei pensieri, mettendo in disparte tutti i meteopatici.

Capii ben presto quali fossero i pericoli del fiordo: l’escursione della marea e il vento.

Iniziai così a remare nella parte mediana del canale, senza una destinazione precisa. La barca d’appoggio diveniva sempre più puntiforme. La percezione del tempo svaniva man mano.
Solo dopo qualche ora i morsi della fame mi fecero capire che stavo pagaiando da alcune ore. A posteriori mi potrei considerare una seguace dell’ex presidente Obama in visita recente a Milano alla fiera dello Slowfood in qualità di consulente nutrizionale. “Let’s move”, lo slogan che continuava a pronunciare sul palco, inneggiando a un corretto stile di vita. E così pagaiavo e pagaiavo senza sosta.
Mi ha sempre stupito apprendere dai giornali di lunghe e interminabili code all’esterno di determinati negozi in occasione del lancio di nuovi modelli di cellulari: gente che campeggia di notte pur di accaparrarsi l’ultima novità tecnologica del momento. Solo una passione smodata per la tecnologia può suscitare tali comportamenti.
Quanto a me, potevo analogamente pensare che era una forza interna quella che mi spingeva ad alzarmi all’alba per cercare orsi grizzly nel loro ambiente naturale.
Sapevo che non dovevo spingermi in oceano aperto, perché la corrente avrebbe potuto trascinarmi lontano. Dovevo calcolare da quale direzione spirasse il vento per soppesare con attenzione le forze indispensabili per il ritorno alla barca e sapevo che, per quanto avessi voluto avvicinarmi ai grizzly, avrei dovuto rimanere entro una distanza di sicurezza.
Improvvisamente mi accorsi di una figura in lento movimento sulla costa. Da folti cespugli stava spuntando un orso di grandi dimensioni. Mi avvicinai lentamente.
Il primo sguardo dell’animale fu di totale indifferenza, il che mi fece quasi sentire offesa per non aver destato la sua attenzione. In realtà non potevo sperare in meglio. La sua indifferenza era la prova che non lo stavo infastidendo. In una sorta di dialogo silenzioso mi sembrava di percepire un senso di ospitalità. Ero nel territorio dell’orso grizzly.

Il noto filosofo Martin Heidegger invita ad “ascoltare un linguaggio“ per percepirvi oltre alla poesia, la presenza di voci nascoste o solo sussurrate.
Iniziava così lo spettacolo dell’approvvigionamento più divertente cui abbia mai assistito da parte di un orso.
Sembra irrazionale poter “ascoltare un animale”, ma non saprei trovare altro termine. Riduttivo dire che osservavo un grizzly. Più che un‘osservazione, significava entrare in sintonia con lui nel preciso istante in cui, avvertita la mia presenza, mi permetteva di penetrare nel suo home range (in etologia l’area usualmente utilizzata da un animale durante le sue attività quali il riposo e la ricerca di cibo).

Ultimamente ho avuto occasione di ammirare il dipinto La dama con l’ermellino di Leonardo da Vinci. Non mi stancavo di guardarla e mi sembrava di poter dialogare insieme. Ciò che quel quadro mi trasmetteva era simile alla sensazione di dialogo silenzioso con gli orsi, una sorta di sintonia. Bastava poco perché l’incontro fallisse. Ogni gesto aveva una particolare valenza. Anche il modo di pagaiare: mai veloce, mai il remo in alto. Tutto doveva coesistere in un insieme di equilibrio e delicatezza. Solo così potevo sperare di farmi accettare.

Mi ero intanto spinta per qualche km lungo il fiordo. Solo ore più tardi il tender della barca sarebbe venuto a cercarmi e a riprendermi. Potevo sparire e niente e nessuno mi avrebbe trovato, tutto sarebbe potuto accadere in quelle ore di pagaiate e appostamenti. Ma niente mi fermava. Forse incosciente, ma consapevole che rispettando le regole della natura tutto sarebbe andato benissimo. Il rispetto per la natura premia sempre. Ammiro molto di più gli alpinisti che a pochi metri dalla cima tornano indietro, perché consci di un rischio eccessivo piuttosto di certi spavaldi che, semplicemente per un orgoglioso senso di conquista, mettono a rischio la propria vita e purtroppo spesso anche quella degli altri.

Dopo aver percorso e annusato con grande attenzione tutta la spiaggia, gli orsi sembravano inginocchiarsi in una posizione di preghiera e iniziavano a scavare freneticamente per recuperare cozze gigantesche.

Quando notai un orso arrampicarsi sopra un grosso scoglio capii che anche i licheni e le alghe facevano parte del banchetto. Uno show divertente!

Dopo ore di silenziosa osservazione di orsi affamati e golosi, appollaiata nel mio kayak, mi resi conto in realtà di intrattenere un dialogo non solo con l’orso, ma anche con me stessa, una sorta di “Conosci te stesso” come Socrate declamava nell’antica Grecia.

A pochi metri da un orso grizzly, inspiegabilmente tranquilla. La natura incontaminata è in grado di trasmettere una pace interiore che placa le paure. Temo di più i pericoli del percorso dalla metropolitana a casa, a Milano.

Mentre proseguivo a fotografare e riprendere gli orsi, dovevo però fare i conti con le leggi della natura. Il vento che spirava nel fiordo spingeva il kayak verso la riva e ciò provocava un avvicinamento veloce e continuo in direzione della spiaggia, dei grizzly, del banchetto di cozze. Così tra uno scatto fotografico e una ripresa video dovevo pagaiare velocemente all’indietro per mantenere una distanza sicura di giusto equilibrio.

I grizzly rispettavano me, io rispettavo loro. Mai un segno di nervosismo da parte loro, né da parte mia. Avrebbero potuto entrare in acqua e nuotare (gli orsi sono ottimi nuotatori) e ribaltare il kayak. Ma l’accordo era stato siglato dopo il primo sguardo, loro si fidavano di me e io di loro. I miei ritmi si erano adeguati ai loro ritmi. Avevo istituito una sorta di galateo con gli orsi del fiordo, tant’è che si presentò al mio cospetto, in tutta tranquillità, anche una mamma col suo cucciolo.

A completare la bellezza di quelle ore di silenzio non mancava la colonna sonora: lo sciacquio delle onde che sbattevano contro il kayak, il garrito dei gabbiani e il frusciare del vento. Non conoscevo la profondità del fiordo, l’acqua era scura e fredda. Le piccole bolle, simbolo del respiro di qualche pesce, mi facevano compagnia. In un tale paradiso il senso della fatica non esisteva, solo un senso continuo di meraviglia.

Diverse furono le giornate trascorse nel fiordo: alzarsi presto al mattino e pagaiare verso le rive, ma venne il momento di ripartire. Una minacciosa perturbazione era in arrivo e la forza del mare non ci avrebbe consentito di proseguire. Un brindisi con l’equipaggio alla partenza e versammo un po’ di vino anche in mare, come si usa fare in segno di ringraziamento.

In fondo era stato proprio il mare lo spettatore più presente ai miei avvistamenti. Mi aveva seguito da lontano e da vicino, facendomi capire quando era il momento di andare e quando quello di restare. Fu un brindisi di arrivederci. Tornai in Italia a fare la formichina, pronta a risparmiare per un prossimo viaggio.

Platone insegna nel famoso mito della caverna che la conoscenza che si persegue deve essere messa a disposizione della comunità. Tutto ciò poteva dare maggior significato a ciò che avevo vissuto.

Avevo filmato ore di riprese con la telecamera e scattato numerose fotografie. Montai un piccolo documentario che, una volta tornata in Italia, presentai in alcune conferenze organizzate presso Associazioni Turistiche del Trentino Alto-Adige. La soddisfazione più grande era quella di far conoscere non tanto l’orso che si cibava di cozze, quanto far rivivere a un pubblico interessato quell’esperienza che tanto mi aveva dato, a condividere la felicità di questi incontri ravvicinati e soprattutto alla sintonia instauratasi in un dialogo silenzioso ed emozionante con questi animali.

So che prima o poi tornerò in Alaska. Un anno dopo venni a sapere che in Italia era stato ucciso uno degli orsi che avevo seguito durante la tesi di campo in preparazione alla tesi di laurea in scienze naturali. Daniza era il nome dell’orso ucciso.

Scossa da tale avvenimento, scrissi una lettera a un quotidiano che subito la pubblicò in prima pagina. Ne riporto qui la parte più significativa:
“Invito tutti a conoscere cosa voglia dire avere un orso nei propri boschi: è l’incontro con un mondo che vi siete dimenticati cosa sia, cercate in ogni posto dove sia il wi-fi senza sapere dove siete voi stessi, vi siete persi, dimenticando il fascino che si nasconde dietro all’incontro con qualcosa di selvaggio e totalmente incontaminato, dietro a una mamma che difende i suoi cuccioli. Conoscete ciò che vi circonda prima di averne paura o di giudicare. In quei pochi secondi in cui riuscirete a vedere tali animali in libertà sentirete dentro quel fascino primordiale che ci appartiene, che ci fa sentire parte di una natura così perfetta e in totale armonia, una natura le cui leggi dominano da milioni di anni, molto prima che nascesse l’iPhone 6. L’unico segnale che val la pena ascoltare è quello di seguire quell’armonia primitiva che solo la natura può darci. A me l’incontro con Daniza ha dato tantissimo, mi ha spinto nella direzione giusta arricchendomi più di qualsiasi «gratta e vinci». Non voglio insultare o dire quanto è vergognoso ciò che è successo a Daniza, ci sono già tante persone che lo fanno, ma solo augurare a tutti voi di incontrare un giorno un orso e di rimanere affascinati e arricchiti come lo sono stata io. Mi sento tra le persone più fortunate e privilegiate al mondo (Da Il giornale, 13 settembre 2014)”.

 

 

Dialogando con l’orso ultima modifica: 2017-08-11T05:52:42+02:00 da GognaBlog

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4 pensieri su “Dialogando con l’orso”

  1. Due anni fa ho sentito ad una conferenza organizzata dal WWF che un ripopolamento spontaneo pone sempre meno problemi di una reintroduzione fatta dall’uomo. Da almeno 40 anni gli orsi si spostano tra la Slovenia e il Friuli e nessuno se ne accorge ma guarda caso quelli sono movimenti naturali e la montagna friulana è molto meno popolata e urbanizzata di quella trentina. A mia modesta opinione, prima avrei aiutato il ripopolamento di orsi in Friuli (se la Regione era d’accordo), avrei monitorato l’esperimento e dopo eventualmente li avrei riportati in Trentino.

  2. Se la mettiamo su questo piano è senz’altro meglio l’orso ma il vero punto della questione è che il Trentino attuale non dovrebbe essere un posto per i grattacieli ma non è nemmeno un posto per l’orso a meno che non si voglia, come sempre, avere la botte piena e la moglie ubriaca.
    Se si decide di reinserire un predatore di stazza in un territorio montano altamente urbanizzato non si può pensare che si limiti a fare il pupazzetto con cui i bimbi vanno a dormire. E’ questa l’ipocrisia di fondo, si è voluto reinserire l’orso per dare dimostrazione di capacità organizzativa, per far vedere quanto siamo bravi, così come fra non molto assisteremo alla rinascita del mammuth. Invece bisognerebbe tenere conto di tanti altri aspetti.
    Il discorso del lupo è diverso, non è stato reintrodotto con deportazioni forzate. Semplicemente si è ripreso spazi che l’uomo aveva abbandonato, così come il cinghiale.
    Se fosse successa la stessa cosa per l’orso nessuno avrebbe nulla da obiettare.

  3. Vogliamo o non vogliamo gli orsi?
    Vogliamo gli orsi o i grattacieli del Tonale? Io preferisco gli orsi.
    … … …
    Da almeno venticinque anni i lupi sono ricomparsi sull’Appennino Tosco-Emiliano. Molti avevano previsto sfracelli. Ebbene, in un quarto di secolo non è mai stato attaccato neppure un essere umano.

  4. Tutto molto bello però è bene fare una precisazione. Un conto è andare alla ricerca di orsi, un altro imbattersi all’improvviso in uno di loro.
    Chiara va in Alaska, un ambiente in cui la natura fa da padrona e dove l’uomo è uno dei tanti esseri viventi, non certo il più numeroso. In Trentino invece qualche fenomeno ha pensato bene di reinserire un animale che nel cosrso dei secoli aveva avuto la peggio nello scontro con l’uomo ed era praticamente estinto.

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