Diario di Broad Peak e K2 2024
di Gian Luca Cavalli
Il primo sguardo che l’alpinista dà alla montagna determinerà chi è e cosa diventerà. Il primo sguardo, e non il secondo o terzo, perché ha già varcato la soglia quando guarda per la prima volta la montagna. La soglia è una linea magica che divide la vita degli uomini dalla vita dei sogni, ed è al primo sguardo che sa se la montagna ha o no il potere di cambiarlo. Perché è una montagna molto speciale, il K2, una montagna che non è mai stata ancora scalata, anche se è stata scalata centinaia di volte.
E il primo sguardo di uno scalatore non dura un secondo più di un battito di ciglia. Se esita, se si volta dall’altra parte, non potrà mai salirla. Perché un uomo non può più guardare una montagna, se le ha voltato le spalle.
Così il primo sguardo di un alpinista decide tutto, per lui e per la sua spedizione. Deve essere sicuro della sua decisione prima di varcare la soglia.
Era il 18 giugno 2024 e noi eravamo in piedi al campo base nel mezzo del ghiacciaio Baltoro.
“Beh, cosa ne pensi, Matteo (Matteo Sella, NdR)?” chiesi mentre indicavo la montagna.
Erano solo le sette del mattino e il sole doveva ancora raggiungere il suo zenit. Eravamo in piedi sul bordo del ghiacciaio, dove inizia la morena, e la montagna era avvolta in una nebbia bianca, il vento da sud-sud-est sempre presente non si era ancora levato dalla notte, il silenzio era palpabile perché le spedizioni commerciali erano ancora da venire.
A destra c’è il possente Broad Peak con la sua lunga cresta prima della cima finale, appena dietro ci sono i Gasherbrum I e II, montagne che conobbi molto tempo fa quando salii al G II, avevo 35 anni. Qualche campo prima, durante il trekking di avvicinamento, si transita sotto le torri di Trango con una delle linee aperte da Wolfgang Güllich più belle in assoluto, la Eternal Flame sogno e aspirazione di molti alpinisti (me compreso).
Aldilà del Karakorum c’è il Kashmir e oltre l’India. A nord, cioè dietro al K2, la Cina: qui siamo in una regione di confine tra Pakistan e Cina.
Una spedizione non nasce per caso, o forse sì. Devo tornare indietro di un anno per spiegare gli avvenimenti.
Il K2, come ho detto, lo vidi per la prima volta 25 anni fa e capii subito che dovevo salirlo. Ma intanto molte altre montagne e spedizioni sono passate sino altr’anno,
Quando una sera uscito dalla tendina per fotografare le stelle nella cordigliera di Huayhuash, nella catena montuosa più lunga della terra, le Ande peruviane, decisi che l’anno successivo avrei voluto provare a salire il K2.
Quando tornai dalla spedizione in Perù, a cui presero parte Enrico Rosso, Anna Fiorina, Marcello Sanguineti, Donatella Barbera e Cesar Rosales (gli ultimi due faranno parte del viaggio sul Baltoro), chiamai Andrea Formagnana, amico e presidente del CAI di Biella, il quale si appassionò alla proposta, e così iniziammo a cercare gli sponsor. Aderirono ben volentieri a ripercorrere quello che era stato fatto nel 1954 con la presenza di Ugo Angelino che partecipò alla riuscita di quella spedizione.
Da quel momento è stato un susseguirsi di email e telefonate. Come ho detto, le prime persone le ho reclutate quando eravamo in Perù.
Donatella, medico-alpinista con diverse spedizioni fatte, e Cesar, mio compagno nella salita al Trapecio, un 5800 m nella Cordigliera e con anche al suo attivo il Nanga Parbat, un ottomila in Pakistan, quindi con un po’ di esperienza.
Telefonai a Matteo Sella un pomeriggio di ottobre per sapere se fosse interessato; mi sarebbe piaciuto vedere la sua faccia mentre glielo domandavo.
Tommaso Lamantia si propose lui stesso, dal momento che ci sarebbe servito un fotografo, gli dissi di sì.
Poi ci fu Dario Reniero che si aggregò alla spedizione sapendolo da un nostro comune amico.
Così cominciammo a conoscerci e a iniziare ad allenarci seppur a distanza, chi con qualche preparatore atletico, chi in autonomia. La cosa che ci accomunava era la determinazione nella riuscita.
E’ stato un crescendo di metri di dislivello con gli sci, chilometri di corsa a piedi e con la bici, per finire con salite in montagna con taniche di acqua sempre più pesanti negli zaini.
Arriviamo a Islamabad l’11 giugno. Ad attenderci all’aeroporto c’è Ali Muhammad Saltoro, capo dell’Alpine Adventure Guides Pakistan, che ha già provveduto al disbrigo delle formalità burocratiche. Non ci resta che partire il giorno dopo per Skardu.
Sono passati gli anni e la città è sempre uguale, caotica come tutte le città pakistane, è la quarta volta che ci vengo e non è cambiato quasi nulla, andiamo sempre nello stesso posto per rifornirci di frutta secca, adesso è il figlio del vecchio proprietario che manda avanti il negozio.
Skardu è su un gran pianoro alluvionale attraversato in tutta la sua lunghezza dal corso sinuoso dell’Indo.
Tutta la città si riduce ad un vasto orto giardino dove sparsi, qua e là tra gli alberi e le siepi, stanno uffici governativi, residenze, ospedaletti, moschee e il palazzo del Raja. L’unico agglomerato di case, tutte piuttosto miserevoli, sono umili costruzioni di mattoni in creta seccata. I bazar, con i loro caratteristici gabbiotti in legno, sono un mondo completamente maschile, ben diversi dai bazar nepalesi gestiti da donne. Essi iniziano già all’entrata di Skardu, ma il suo centro è nel tratto compreso fra una piazzetta, con un monumento, e lo stadio per il Polo, sport nazionale pakistano.
Il giorno dopo siamo seduti nella jeep che ci condurrà ad Askole con una strada stretta e dissestata con ai bordi terreni e terrazzamenti ormai maturi di grano e lenticchie. Attraversiamo diversi ponti sospesi in legno, corde e acciaio intrecciatui e un assito scricchiolante con vista, attraverso le fessure, del fiume in piena.
Con noi c’è anche il nostro ufficiale di collegamento. Partiamo già male, perché si ostina a tenere il portellone posteriore aperto e i gas di scarico entrano nell’abitacolo. Abbiamo un leggero alterco finché si decide a chiudere il portellone, credo abbia letto il mio pensiero che era quello di ribaltarlo fuori dal veicolo in corsa; comunque si rivelerà, poi, una persona squisita e simpatica.
Il villaggio è diventato punto di partenza del trekking verso i ghiacciai che occupano le testate delle varie valli e hanno come meta i campi base alpinistici.
I quali convergono verso la valle del Brando, il ghiacciaio del Biafo, al campo base dei Latok, il ghiacciaio Baltoro fino al Circo Concordia e al campo base del K2. Itinerari che per la loro lunghezza e bellezza giustificano il lungo e costoso viaggio nel Baltistan.
Trascorriamo una notte in una sorta di garage con rumori nel controsoffitto, non capiamo se sono dei topi o ghiri, poco importa, ci terranno compagnia tutta la notte percorrendo chilometri sopra le nostre teste.
Il giorno dopo, all’alba, attendiamo nei campi circostanti che i portatori preparino i carichi tra loro e i muli, animali abituati a percorrere il trekking in quota.
Raggiungere il Circo Concordia o spingersi fino ai campi base dei Gasherbrum o del K2 è una esperienza gratificante per chiunque ami camminare in un ambiente dominato dalla presenza di alcune delle più belle montagne del mondo.
Il percorso di cinque o sei giorni entra nel deserto d’alta quota e si snoda tra sassaie e morene. L’interesse è solamente paesaggistico, ma non mancherà di offrire continue sorprese.
Il percorso non presenta difficoltà tecniche, si può raggiungere il Circo Concordia senza neppure toccare la neve, percorrendo il filo delle grandi morene laterali e mediane. Richiede comunque una normale esperienza escursionistica e da non sottovalutare la quota dei campi base attorno ai 5000 m, con forti escursioni termiche.
Dopo i vari campi di Paju, Liligo, Urdukas, Gore, passando sotto la piramide ghiacciata elegante e isolata del Masherbrum 7821 m, la Torre Mustagh 7273 m e le bellissime Torri di Trango, giungiamo al campo base del K2.
Non mi pare vero, siamo tra i primi a posizionare le nostre tende su ghiaccio e pietre dopo aver spianato le piazzole. Operazione che dovremo fare più di una volta per via del forte irraggiamento solare, il quale scioglie la parte circostante le tendine creando un solco di ottanta/cento centimetri.
Che cambiamento di vita! Nel giro di pochi giorni viviamo, dormiamo e mangiamo sul ghiaccio. O lo ami o lo odi, per alcuni è una sorta di purgatorio, una dimora temporanea dove trascorrere sei o sette settimane prima di affrontare le cime.
E’ un campeggio estremo, dove entrambi i due campi si trovano a circa 5000 m, e il corpo umano entra in una sorta di catabolismo cellulare, oltre, la vita non è sostenibile a lungo tempo.
A stomaco vuota non vai lontano e il cibo preparato, dopo poco tempo, ha sempre lo stesso menù, una gavetta con del brodo accompagnato con della pasta con una cottura al dente passata da ore, patate, lenticchie e della carne di capra, il tutto accompagnato dal chapati che non è altro che farina e acqua, cotta su pietra o su sottili tegami in ferro, annerito dal fuoco dei fornelli a benzina o cherosene.
La colazione diventa un piccolo rito con chapati, té nero, marmellata e il porridge, e con i pensieri ancora rallentati.
Se c’è il sole ti viene voglia di lavarti, di curarti un pochettino, anche se con due litri di acqua calda non ci fai molto.
Non devo pensare a quando fa la doccia mia figlia, potrebbe innaffiare un campo da calcio…
Le prime giornate al campo base sono un misto di euforia e inquietudine, nel preparare lo zaino per le prossime rotazioni, tento di renderlo leggero, cerco sempre di utilizzare una formula matematica (P= D / VdP) dove P è il peso dello zaino, D la distanza da percorrere e VdP è la voglia di portarlo, ma come diceva il mio professore di economia aziendale ”la matematica non è il tuo forte”, così mi ritrovo sempre con una gravosa bestia sulla schiena. Si inizia a muoversi, cominciano le rotazioni ai campi alti per acclimatarsi, sali al C1, lasci una tenda e viveri, e poi scendi. Poi risali con altro materiale e ridiscendi, fai la stessa cosa sino al C2, dormi, e ridiscendi il giorno seguente. Sali al C3 a 7000 m, ci dormi e il mattino seguente ridiscendi.
Avremo come complice il mal tempo, che ci terrà compagnia per quasi tutto il tempo dell’acclimatazione con vento e neve.
In una di queste rotazioni io e Cesar ci troviamo al C3, danno una possibile schiarita in tarda notte verso le due, la tenda è scossa da forti raffiche di vento e neve, all’interno della tendina monotelo si è formato uno strato di brina spessa come un hamburger, a ogni scossone si stacca dalle pareti della tenda imbiancando tutto, noi compresi.
Decidiamo di uscire lo stesso e confidiamo nella previsione meteo, siamo avvolti da un mix di vento e buio, arrancando sul pendio tra la neve fresca arriviamo quasi al colle mentre è ancora notte fonda. Continua la tormenta, la previsione meteo è completamente sbagliata, giriamo gli scarponi e scendiamo sino al campo base. Missione fallita.
Al pomeriggio del giorno dopo giorno verso le 15 sento una voce impaurita uscire dalla radio portatile, è Donatella che inveisce, è finita sotto una slavina salendo al C1. Con Cesar partiamo subito recuperando dei vestiti, un piumino asciutto, del nastro americano e un sacco a pelo. Un canadese ci avverte che probabilmente si è rotta una gamba e così pensiamo di infilarla nel sacco, avvolgerla con il nastro e calarla lungo il pendio. Fortunatamente ciò non si avvererà, al nostro arrivo ha solo una leggera ipotermia ed è un po’ sotto shock. Arriviamo giusti per la cena al campo base.
Ai campi base c’è fermento, finalmente il vento arriva da nord-nord-ovest, dopo più di un mese e mezzo ci sono tre/quattro giorni di bel tempo. Io e Cesar ci apprestiamo a preparare il materiale per salire il Broad Peak per poi spostarci al base del K2, mentre Tommaso e Matteo sono già lì. Dario fa la spola tra un campo e l’altro senza decidere su quale salirà.
Stiamo bene e siamo acclimatati in modo ottimale, l’allenamento che abbiamo fatto in tutti questi mesi ha sortito il suo effetto. Saliamo direttamente al C2 e poi al tre senza problemi oggettivi e soggettivi. Arriviamo a 7000 m in tarda mattinata e ci attende una sorpresa inaspettata, non riesco a crederci: troviamo la tenda con un lato squarciato. Subito penso a un fortissimo vento che piano piano si sia insinuato tra le fibre, invece scopro più tardi che sono stati i corvi sentendo l’odore del cibo all’interno, con il loro devastante becco hanno penetrato persino il telo in Dynema, passerò un paio d’ore cercando di rattopparla con il nastro americano. Il resto della giornata lo passiamo a scioglier acqua e a rilassarci in tendina monoposto per due persone. Alle 22 decidiamo di uscire: il problema non è andar fuori, ma vestirci all’interno della tenda.
L’aria sottile d’alta quota non soddisfa i nostri polmoni, tentiamo di calmare la sete d’ossigeno rallentando la salita, la neve capricciosa, ogni tanto dura, poi profonda e molle, rallenta la progressione. Un passo, un altro. Proibito fermarsi!
E cosi arriviamo al colle del “Falchan Kangri”, la “Cima Larga”: cosi è chiamato in lingua Baltì per via della sua cresta lunga quasi due chilometri, sopra gli ottomila metri.
Dieci minuti di pausa al colle, un sorso di tè e ripartiamo, ci aspettano quattro punte da salire e scendere prima di arrivare in vetta.
Arriviamo verso le 8, prima di noi c’è solo un’altra coppia arrivata con l’ausilio dell’ossigeno, noi stiamo bene, non mi par vero di essere a quella quota, ci abbracciamo e qualche pacca sulla schiena per congratularci e sostenerci psicologicamente, il tempo di fare qualche video e foto e ci accingiamo a scendere.
Erano le 9 passate e la via discesa era ancora lunga. Nel momento in cui cominciammo a scendere la mia euforia si spense. Volevo tornare sano e salvo e quindi mi muovevo avveduto e concentrato, attento a non scivolare, osservando le pietre instabili che mi stavano intorno.
In salita non c’è spazio per queste paure, l’unica cosa che importa è raggiungere la vetta, in quella fase corri qualsiasi rischio pur di arrivare. Ci fermiamo a dormire al C3. In discesa dobbiamo togliere i campi allestiti in precedenza e il vario materiale lasciato dai nostri compagni che pensavano di salire, così alla fine abbiamo uno zaino molto pesante con tre tendine a testa, sacchi a pelo, piumini, cibo liofilizzato e altro materiale che non sto a descrivere.
Nella morena ci aspettano per darci una mano, c’è anche Leonardo, cugino di Matteo, che si offre di portare il mio pesante zaino, per l’ultima ora di cammino, con quella energia ed entusiasmo che hanno solo i giovani.
Come di consuetudine, al campo base si festeggia con una “prelibata torta”. Credo che il cuoco non abbia mai visto la trasmissione di “Bake Off Italia”.
Abbiamo deciso di concederci tre giorni di meritato riposo, ma la sorte decide altrimenti. Sono le sei di sera, siamo in tenda-mensa per la cena, mangiamo presto perché con Cesar vogliamo provare a salire il K2, il nostro secondo obbiettivo della spedizione. Ad un certo punto entra Tommaso e dice che Marco Majori e Federico Secchi hanno bisogno di aiuto. Per il momento c’è su solo Benjamin Védrines che era tornato al C2 a prendere la tenda e il saccopiuma che aveva lasciato dopo aver salito sino in cima, in circa 12 ore, ed era poi sceso al campo base in parapendio. A quel punto ho capito che quella sera non saremmo partiti per tentare la punta, ma per andare a prestare soccorso.
Al campo base sarà Jean-Yves Fredriksen a coordinare il soccorso ai due italiani in forte difficoltà. Marco, il ragazzo caduto in un crepaccio con sospetta frattura alla spalla, è due giorni che non beve, non urina e non risponde nemmeno alle iniezioni di Desametasone, un potente farmaco per edema cerebrale.
A quel punto io e Cesar diamo la nostra disponibilità ad aiutare nel soccorso caricando su le bombole di ossigeno, le richieste fatte ad altre spedizioni commerciali,avevano avuto esito negativo. Non tutti sono pronti ad aiutare.
Chi vuole può leggere il resoconto fatto da Benjamin nel seguente link: https://alpinemag. fr/k2-sauvetage-in-extremis-benjamin-vedrines/ (su abbonamento).
Marco verrà trasportato poi in elicottero fino a Skardu e rientrerà in Italia.
Come capo spedizione mi porto a casa uno zaino pieno di emozioni: con Tommaso che conquista la punta del K2, Matteo che la sfiora di poco, Dario che arriva dopo il colle del Broad Peak e Donatella vicino al C3.
Non ricordo chi lo diceva, “ma tutto è bene ciò che finisce bene“.
Alla prossima…
Due parole sull’etica alpinistica
Siamo in un epoca dove tutto viene bruciato in una manciata di secondi, dove i valori morali fanno fatica a rimanere saldi e vengono messi da parte per egoismo personale, e la parola “comunità” non esiste più.
La montagna è sempre più antropizzata con la conseguenza di danneggiarla nel suo precario equilibrio, togliendo a volte quell’aspetto di “wilderness” che è parte integrante dell’alpinismo.
L’accesso all’alta montagna è sempre più facilitato da infrastrutture e attrezzatura che a volte non giustificano il fatto di rendere tutto più sicuro.
I mass media reclamizzano montagne “no limits”, a volte lasciandoci perplessi e nascondendo interessi economici non indifferenti.
Mi chiedo dove finisce il turismo, e dove incomincia l’alpinismo.
Tutto questo ha portato persone che non hanno una cultura della montagna a salire vette di ottomila metri senza nessuna preparazione oggettiva e soggettiva, ad avvalersi di due o tre portatori carichi di bombole di ossigeno e di tutto il materiale.
Così, poco per volta, dal giorno in cui l’alpinismo ha suscitato l’interesse delle masse, quello che era un sentimento puro, si è deformato.
I turisti sono moltissimi! Al contrario, solo una minoranza può definirsi alpinista; perché chi espone consapevolmente la propria vita al pericolo, ricercandolo, ma con l’idea di dominarlo con la propria intelligenza, forza morale, usando i riflessi e la forza fisica, appartiene alla montagna.
Il turista è destinato a rimanere anonimo…
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Complimenti
Concordo con le riflessioni sull’etica dell’alpinismo. Aggiungo, a sostegno di quanto già ben espresso nell’articolo, che nella sfida uomo-montagna il pericolo costituisce l’elemento naturale di contesa.
Arrivare in cima rafforza il senso del valore del proprio se’ e, nel contempo, il rispetto e l’amore per tutto ciò che la natura offre in termini di bellezza, meraviglia ed energia vitale.
Nella percezione costante del pericolo l’uomo incontra la montagna con riverenza e dialoga con essa, consapevole dei propri limiti e della irraggiungibilita’ del mistero che esprime.
In questo, ogni passo rappresenta una conquista che alimenta lo spirito e, con esso, la tensione ad andare sempre più avanti fino a quella “linea di confine” in cui, per qualche manciata di secondi, senti di respirare l’infinito. È come fondersi con il Tutto.
Tutto il resto è oltraggio e ostentazione.
bravissimi ragazzi e grande Gianluca
Neanch’io ho mai visto “Bake off Italia”.
Due litri d’acqua per lavarsi sono tantissimi.
Non mi sento di condividere l’idea che il pericolo vada dominato.
Appartiene alla montagna chi non lascia traccia.
Sono perfettamente d’accordo con le conclusioni sull’alpinismo di massa irrispettoso, consumistico, ignorante. Lode agli alpinisti puri che oltretutto sono generosi a soccorrere.
Grande Gianluca. Complimenti stima enorme.