Discesa integrale delle Gole di Gorropu
di Carlo Crovella
Durante la “reclusione” della primavera 2020 ho riordinato i miei cassetti e mi sono imbattuto in un testo da me scritto nella prima metà degli anni Novanta. Questa articolo, che venne pubblicato su una rivistina torinese molto attiva in quel periodo, contiene il resoconto della discesa integrale delle Gole di Gorropu nel Supramonte (Sardegna Orientale).
Si tratta di una realizzazione che risale all’estate del 1991. Negli anni precedenti ero già stato più volte nel Supramonte per un tipo di escursionismo piuttosto “avventuroso”: ne ho già raccontato anche in questo blog (https://gognablog.sherpa-gate.com/supramonte-e-ancora-lultimo-eldorado/).
Quindi mi era capitato più volte di transitare in prossimità dello sbocco inferiore di Gorropu (risorgenza del Flumineddu) e soprattutto, scorrazzando per gli altopiani ondulati del massiccio, ero rimasto letteralmente folgorato da quel “colpo di scure” che costituisce l’imbocco superiore nelle Gole.
Se ci aggiungiamo che in quel periodo sfogliavo, una sera sì e l’altra anche, il libro Mezzogiorno di Pietra di Alessandro Gogna, è chiaro che prima o poi sarei partito per la discesa integrale di Gorropu. Il richiamo era irresistibile.
Attenzione a non confondere due concetti distinti: le gole si possono approcciare anche dal basso, cioè dalla risorgenza del Flumineddu. Si tratta del Gorropu “commerciale”, cioè quello legittimamente offerto (oggi ancor più che allora) da professionisti del luogo. In tal caso si risale per un bel tratto delle gole, con un esaltante sali e scendi fra grossi massi: l’ambiente è affascinante, le pareti sono altre 400-500 metri e danno bene l’idea del canyon. Se poi reggete la risalita anche oltre la mezz’oretta abbondante, rimarrete pressoché soli, perché la folla si ferma abbastanza in fretta.
Ma la discesa integrale di Gorropu è altra cosa: ci si imbuca dall’alto, occorre stare dentro due giorni (“correndo” forse si esce in giornata, ma ha “senso” vivere di corsa un’esperienza del genere?), si alternano tratti escursionisti a calate in doppia, vi sono numerosissimi laghi, più o meno profondi, da attraversare (a nuoto o col gommone, a seconda della strategia scelta). In primavera pare ci sia abbastanza acqua corrente, il che amplifica le difficoltà tecniche. Noi scendemmo in piena estate perché così si inseriva armonicamente nei nostri programmi. Ciò nonostante non incontrammo nessun essere umano, almeno nel tratto “vero” del canyon.
Non so dire come sia Gorropu ai nostri giorni: ho letto su questo stesso blog che purtroppo anche il Supramonte è stato ormai profanato dagli amanti del luna park (https://gognablog.sherpa-gate.com/lassalto-alle-rocce-sarde/) e la cosa mi rattrista moltissimo.
Al netto di ciò, l’esperienza emotiva della discesa integrale di Gorropu è una delle più profonde della mia esistenza. Spero, con il testo che allego, di riuscire a trasmettere tutto quello che Gorropu ha rappresentato per me.
A leggerlo con gli occhi di oggi, questo scritto mi ispira una specie di tenerezza paterna. E’ l’ultimo di una piccola schiera di articoli che costituiscono la cerniera fra la mia precedente attività editoriale degli anni Ottanta (testi quasi esclusivamente tecnici – relazioni, monografie, ecc, sia con gli sci che senza – oppure articoli di opinione, stile “editoriali”) e la successiva attività di narrativa che sfocerà dapprima nei racconti di fiction (a loro volta poi raccolti nel volume La Mangiatrice di uomini, Vivalda, 2011) e poi nell’ulteriore stesura di veri e propri romanzi (usciti dal 2012 in poi).
Il testo in questione è quindi un acerbo mix fra il recit d’ascension, l’articolo d’opinione e un abbozzo di racconto di narrativa. Il racconto però si srotola in modo aderente alla realtà: chi conosce la discesa integrale di Gorropu si riconoscerà nella precisa sequenza dei passaggi. E’ come una relazione “romanzata”.
Anche le allusioni (reali o esagerate) a certi riferimenti della mia esistenza rappresentavano i primi goffi tentativi per staccarsi dall’articolo tecnico puro e semplice. Come ho già detto, questi miei testi a cavallo fra anni ’80 e ’90 possono apparire ingenui e fanciulleschi, ma al tempo ero come un cucciolo di condor che sbatteva le ali nei primi tentativi di volo per poi abbandonare il nido e librarsi definitivamente nell’azzurro del cielo.
Al di là di qualche limatura, ho voluto riproporre questo testo nella sua versione del 1991, per il valore storico nei termini sopra indicati. Preciso che lo stato degli ancoraggi potrebbe essere completamente mutato, per cui chi volesse rivivere l’esperienza devo prudentemente consultare relazioni più recenti.
A parte ciò, l’esperienza oggettiva di Gorropu rappresentò un bell’esempio di capacità organizzativa: un vero blitz durato una settimana da Torino a Torino.
Nei miei appunti dell’epoca ho ricostruito le tempistiche:
1° giorno: partenza in auto da Torino nel dopopranzo – arrivo a Genova e imbarco sul traghetto – notte sul ponte (sacco a pelo);
2° giorno: sbarco a Porto Torres – trasferimento a Dorgali – ultime spese di viveri freschi – puntata a Cala Gonone e Cala Fuili, con bagno in mare – trasferimento a Campos Bargios (Supramonte) – notte in tenda a fianco dell’auto;
3° giorno: prima parte di Gorropu – notte alla belle étoile (con sacco a pelo) a circa metà percorso;
4° giorno: seconda parte di Gorropu – notte nella grande caverna sopra la risorgenza del Flumineddu, usciti da Gorropu;
5° giorno: (il più “complicato” sul piano logistico, avendo una sola auto): risalita a piedi fino a Genna Silana (circa 800 m, prima per sentiero che poi si perde nelle pietraie). Tra l’altro si pronuncia: Ghènna Sìlana – lasciato Luca all’Hotel del passo – incamminatomi (senza zaino!) sull’Orientale Sarda, un po’ a piedi e un po’ in autostop – sopra Urzulei incontrato un pastore che, sulla sua 127, con moglie e figli risaliva verso Campos Bargios – recuperata nostra auto – recuperato Luca a Genna Silana – imboccata strada alta per la Codula di Luna – montata tenda in un tornante, con “protezione” assicurata dalla nostra auto in caso di veicoli che fossero giunti dall’alto;
6° giorno: puntata relax a Cala Fuili con bagno in mare – nel pomeriggio trasferimento a Porto Torres – imbarco sul traghetto – notte sul ponte (sacco a pelo);
7° giorno: sbarco a Genova – in auto a Torino per ora di pranzo.
Un bel ritmo, tra l’altro incastonato fra una via nel Bianco di qualche giorno prima e un trekking in Dolomiti pochissimi giorni dopo…
“Veloci e feroci” era il mio motto di quegli anni: che tenerezza. Pensare che oggi sono un sostenitore della montagna “slow”. Forse sono cambiato io (invecchiando), ma soprattutto la realtà mi ha oltrepassato come non potevo immaginare: parlo dell’attuale modo di vivere la montagna e l’outdoor in generale con approccio prestazionale e atletico. La montagna “di corsa” del terzo millennio non mi piace proprio: la mia posizione è cosa nota e qui non mi soffermo maggiormente.
Muoverci a ritmi abbastanza sostenuti nell’avventura di Gorropu non ci ha impedito di immergerci completamente nell’atmosfera selvaggia e fuori dalla civiltà. Raramente in altre occasioni ho provato sensazioni così intense, neppure in una selvaggia parete nord di alta quota.
Anche su questo risvolto, il testo del 1991 può ispirare tenerezza per certe considerazioni un po’ goffe e fanciullesche. Io ero reduce da due anni di lavoro a Milano (la “Milano da bere” per chi se la ricorda) e mi pareva di essere letteralmente inquinato da quel mondo consumistico ed edonistico. Gli accenni faranno sorridere: lavoravo col modem (uno smart working ante litteram, anche se dall’ufficio) perché ogni giorno trasmettevo via modem alla clientela le newsletter finanziarie in formato word. Tutto ciò prima dell’avvento di internet. Vestivo con blazer d’ordinanza, giravo con la 24 ore sotto il braccio e dopo l’ufficio partecipavo agli “after hour” (oggi li chiamano “apericena”), di fresca importazione londinese, dove si mescolavamo socialità, divertimento e contatti professional-commerciali.
Devo riconoscere che quel mondo mi sfiancò rapidamente: strinsi i denti (onorando, da buon sabaudo, il senso del dovere) fino alla scadenza del contratto e a settembre 1991 mi rintanai senza esitazioni nell’austera Torino, da dove non mi sono più mosso né professionalmente né come vita privata.
Gorropu rappresentò quindi il canto del cigno di quello che io chiamo il mio decennio Sturm und Drang (Tempesta e Impeto, movimento del romanticismo tedesco di fine ‘700), compreso all’incirca fra i miei 20 e i miei 30 anni anagrafici. Un decennio vissuto quasi esclusivamente per la montagna e l’outdoor, con un’abbuffata incontenibile di gite in sci, arrampicate, vie in quota, pareti nord, cascate invernali, escursionismo di ogni tipo, ma anche MTB, kayak, hidrospeed, canyoning.
Poi improvvisamente ci fu una svolta nella mia vita. Cosa successe? Molto semplice: ero istruttore del corso di arrampicata del CAI UGET di Torino e la sera dell’inaugurazione fui stregato da una allieva che, poco tempo dopo, divenne mia moglie. Subito figli, nuovo lavoro torinese con più responsabilità (e, perché no?, anche più gratificazioni), maggiori impegni, interessi di ogni tipo e acciacchi vari mi spostarono inconsapevolmente verso un modo diverso di vivere la montagna, sempre intenso e costante, ma più maturo e meno spasmodico. Sciare con i figli o dormire d’estate in tenda con loro (e con la moglie, ovviamente), anche solo in Val Susa, cioè a 100 km da Torino, diventò per me indiscutibilmente più importante che realizzare la tal via o la tal gita in sci o la discesa di canyoning…
Non che la montagna in prima persona sia sparita dalla mia vita, anzi. Negli ultimi trent’anni la vena esplorativa, magari a pochi chilometri da casa, è la vera bussola della mia profonda passione per i monti. Ora come ora, le performance atletiche o tecniche mi lasciano complessivamente indifferente. Quanto meno non sono il principale “driver” che mi spinge verso l’avventura.
Però devo confidare che aver riletto, dopo così tanti anni, l’articolo su Gorropu una piccola lacrimuccia di commozione me l’ha strappata. Con questi propositi lo ripropongo: spero renda bene l’idea dell’atmosfera magica di Gorropu.
Gorropu, l’attimo fuggente
(pubblicato su Canoa e Avventura, marzo-aprile 1992)
“Sei pronto?” mi chiede Luca Maina impaziente.
“Ecco fatto!” dico all’amico e, caricato lo zaino in spalla, iniziamo a scendere.
Siamo in Sardegna, nel massiccio del Supramonte: il nostro obiettivo è realizzare la discesa integrale delle Gole di Gorropu.
Siamo arrivati ieri sera tardi, dopo aver trascorso la notte precedente in traghetto e dopo una giornata di trasferimento automobilistico in terra sarda: Porto Torres-Dorgali-Urzulei. Infine abbiamo percorso la strada sterrata che solca l’altipiano sopra Urzulei. La strada conduce all’ovile di Campos Bargios: quando la strada inizia a scendere in mezzo ai lecci, subito dopo un tornante a destra, abbiamo posteggiato l’auto proprio sul bordo.
C’era già un’altra vettura, targata Milano, e questo dimostra che Gorropu è ormai (1991, NdR) diventato un luogo noto e gettonato.
La serata era stupenda e, imbacuccati nel sacco a pelo, ci è venuto facile raccontarci alcune confidenze.
Strano il rapporto che ho con Luca: siamo stati compagni di liceo, lo conosco da quindici anni (riferito al 1991, NdR), ma ci vediamo di rado. E’ uno dei pochi amici che io non sia riuscito a “triturare” con il mio atteggiamento competitivo e ogni tanto mi accompagna in avventure fuori dalla norma.
Proprio dieci anni fa (1981, NdR) risalimmo un torrente in Corsica, nei pressi del Col della Bavella: percorso senza particolari difficoltà tecniche, ma completamente fuori dal mondo per due giorni consecutivi a lottare con il “maqui” mediterraneo.
Ora, sulla soglia dei trent’anni, eccoci ancora a vivere un’esperienza simile: sarà immaturità quella che non ci ha cambiati in dieci anni?
Non mi dispiace avere ancora le stesse aspettative di allora: una notte all’aperto, per colazione il tè riscaldato sul Camping Gaz, uno zaino da portare in spalla…
Ma è ora di incamminarci per davvero. Lasciamo la strada e scendiamo lungo una pietraia, che si srotola in mezzo a un bosco di lecci.
Ho già avuto a che fare con questo tipo di terreno. Me ne sono imbattuto più volte negli anni precedenti, quando abbiamo scorrazzato su e giù per il Supramonte, specie in tiepide giornate invernali. Ho imparato cosa sono le pietraie di calcare bianco-grigiastro, cosa sono i rovi intricati, cosa sono i sentieri che scompaiono all’improvviso. In poche parole ho conosciuto l’entroterra sardo.
Qui il percorso è per ora evidente. Una fedele relazione fotocopiata ci dice che si accede alla codula tramite un canale più ripido in mezzo ad un salto roccioso.
Ecco il salto roccioso ed ecco il couloirino di pietre smosse, dove per prudenza scendiamo uno per volta.
Siamo nella codula, all’altezza di quella che viene chiamata “l’ansa ad U”. Luca, il braccio teso verso sinistra, mi dice: “Andiamo di là!”
In effetti la conformazione del terreno invita così. Però resto perplesso: abbiamo il sole alle spalle e questo ci indica l’est (siamo al mattino presto). Alla nostra sinistra c’è il sud, ma noi dobbiamo andare a nord. Quindi si deve girare a destra, non a sinistra.
Iniziamo a discutere: consultiamo altre relazioni e nessuna specifica il senso di marcia. Finalmente convinco l’amico e, dopo un centinaio di metri, la codula svolta aprendosi verso Nord: siamo sulla strada giusta.
“Queste relazioni sono fatte male!” sentenzia Luca ed io rifletto. Nelle relazioni è giusto che sia indicato tutto oppure è meglio che qualcosa sia lasciato all’iniziativa personale? Il problema è annoso: in questo momento noi stiamo seguendo le tracce di altre persone o viviamo una nostra esplorazione personale?
Già, ma cosa significa nel mondo d’oggi il termine “esplorazione”? Gorropu è ancora “esplorazione” proprio perché le relazioni rispettano alcune regole di base (1991, NdR). Vengono segnalati i riferimenti fondamentali, ma occorre aggiungere qualcosa di personale: intuito, esperienza, senso della via… Solo a queste condizioni, il ripetitore diventa autore.
Saltiamo da un masso all’altro. Saliamo, scendiamo. Passiamo sotto enormi tronchi incastrati, segno di piene dalla violenza incontenibile. Le pareti laterali aumentano progressivamente di altezza. La codula diventa gola in tutto e per tutto. Finora non abbiamo incontrato particolari difficoltà tecniche e siamo leggermente stufi di questo tipo di percorso. Il tratto richiede circa due ore di cammino e alla fine si ha proprio voglia di cambiare scenario.
Finalmente arriviamo al bordo del primo salto: uno spit brilla a sinistra. Le pareti si sono fatte davvero incombenti e la gola si restringe a non più di quattro-cinque metri. Di acqua, però, neppure l’ombra: siamo in piena estate. Probabilmente la discesa integrale è più avvincente in primavera, con l’acqua corrente in molti tratti, ma impegni vari e… una “certa” voglia di scialpinismo mi hanno trattenuto sulle Alpi.
“Fuori il materiale!” e scarico lo zaino a terra.
Luca mi guarda e sorride: chissà da quanto tempo non fa una corda doppia eppure non ha esitato a lanciarsi in questa avventura.
Ho due corde da 9 mm (una da quaranta e una da venti metri): con una preparo la doppia. Luca mi lascia fare, sa che in queste situazioni amo “trafficare” da solo. Si fida di me e questo mi fa sentire forte.
Anzi, armeggiando, rifletto. Anni fa, in una serata in rifugio, si fece un gioco per ingannare il tempo di una giornata uggiosa.
“Dimmi quale animale ti piace di più e per quale motivo!” mi chiese furbetta una ragazza della compagnia.
“L’orca marina, perché è potente e non ha nemici in grado di impensierirla!” fu la mia risposta.
“Adesso, dimmi un altro animale che ti piace e perché!”.
“L’alce, perché è un animale solitario, ma regale nel portamento!”.
La ragazza mi spiegò: “Il primo animale ci dice come tu desideri essere, cioè potente e senza nemici in grado di impensierirti. Il secondo come tu desideri che ti vedano gli altri!”.
La combinazione fra le due immagini mi aveva fatto capire quale fosse l’origine del mio stile di vita: essere inarrestabile, andare avanti a muso duro! In effetti, mentre aggancio il discensore, ammetto a me stesso che mi fa piacere se gli altri constatano che io sono di nuovo sulle “barricate”, a sette anni da un lungo periodo in un letto d’ospedale (incidente alpinistico del 1984, NdA).
Scendo fino in fondo e atterro in una fanghiglia poco piacevole, ma non pericolosa. Il canyon è davvero stretto e può darsi che in primavera qui ci siamo dei problemi con l’acqua corrente.
“Libera!” urlo.
Arriva Luca: “Tutto OK!”.
Recupero la corda e ora abbiamo tagliato ogni possibilità di ritorno.
Proseguiamo nella gola stretta e profonda, dove si alternano massi incastrati e piccoli saltini attrezzati (cordini e spit dove necessario). Poi, affacciandoci da un risalto più pronunciato, ecco laggiù il primo laghetto. Acqua semi stagnante, ma profonda. Forse ci si potrebbe immergere, ma, a parte una certa ritrosia per il colore verde marcio, noi abbiamo optato per un’altra strategia: occorre non bagnare gli zaini megagalattici che contengono abbigliamento, vettovaglie, sacchi e pelo e tutto il resto.
“Fuori il canotto!”.
Mentre Luca inizia a gonfiare (a fiato!, NdR) il canotto sgargiante che ho acquistato alla Standa (Lit. 25.000, made in Corea), io verifico i cordoni dell’ancoraggio e decido di sostituirli: sono marci e consunti. Ho con me una decina di spezzoni di corda, lunghi da due a quattro metri, con i relativi maillon e non voglio certo riportarmeli a casa.
Quando tocca a me gonfiare il canotto, Luca guarda la sosta e mi confida: “Con te non si rischia mai oltre il lecito!”.
Ripenso al giochetto degli animali e capisco, tra una soffiata e l’altra, che rincorro una caratteristica molto precisa: la “possanza”. Amo sapere che chi si imbarca in un’avventura assieme a me si sente protetto dalla mia possanza sia tecnica che atletica.
Contemporaneamente, però, in qualsiasi via ci tengo a ricoprire il ruolo di trascinatore della cordata, anche se poi il passaggio duro, magari, lo faccio da secondo e tirando sui chiodi. Ma l’ideatore, l’organizzatore, il regista delle uscite alla fin fine ci tengo ad essere sempre io.
Il canotto è pronto e lo caliamo nel laghetto sottostante. Il livello dell’acqua è basso e affiorano due grossi massi. Senza raggiungere il canotto, mi fermo su uno dei sassi e dico a Luca di scendere diritto nel canotto. Gli attacco dietro la corda da quaranta e lui attraversa il laghetto, pagaiando con le braccia. Quando è arrivato sulla sponda opposta, io ricupero il canotto tirando la corda.
Siamo entrati nella zona più interessante dell’orrido: i laghetti si rincorrono l’un con l’altro e le pareti sembrano chiudersi in alto quasi a formare una galleria.
Eccoci giunti al passaggio chiave: uno scivolo (che a noi appare relativamente facile, perché asciutto, ma che, con il fondo bagnato e l’acqua corrente fra i piedi, deve essere tutt’altro che banale) termina su un ballatoio a sbalzo sul lago sottostante.
Sul ballatoio quattro spit fanno bella mostra di sé (ma io sostituisco comunque il cordone!): l’atmosfera è un po’ tetra, perché il lago è proprio perpendicolare al precedente senso di marcia e davanti al ballatoio si erge un’alta parete che offusca la scena. Laggiù, nel lago, l’acqua è molto scura: il lago deve essere molto profondo. Lo strapiombino sotto al ballatoio impedisce di vedere il canotto appoggiato sull’acqua.
Ho fissato il canotto con una corda e, scendendo in doppia sull’altra, ringrazio di aver fatto l’autobloccante: devo centrare il canotto, altrimenti vado completamente a bagno. Scendo calibrando a dovere la velocità, arpiono il canotto con un piede e poi ci “salto” dentro.
Una volta sedutomi nel canotto, come se fossi in poltrona, mi faccio calare lo zaino di Luca e, dopo aver legato al termine della doppia un capo dell’altra corda (recuperata dalla sosta superiore), mi dirigo a bracciate verso la riva opposta del lungo laghetto. Ho due zaini con me: il mio a spalle e quello di Luca davanti. La traversata è lunga e faticosa. Sbarco e urlo a Luca: “Recupera!”
Luca, tirando su la corda doppia (agganciata, ovviamente, nella sosta), incontra il capo dell’altra corda e con essa può recuperare il canotto, finché questo arriva di nuovo sotto di lui.
Ora inizia a scendere: il canotto si muove molto, perché, avvicinandosi Luca al pelo dell’acqua, la corda lascia un bel po’ di gioco.
L’amico si deve fermare: poi anche lui arpiona il canotto con un piede e ci “salta” dentro.
“Uauauauuuuuu!!!!” urlo e tiro un sospiro di sollievo!
Dopo il passaggio chiave, incontriamo molti altri laghetti, ma nessuno ci obbliga a nuove corde doppie per entrare nel canotto.
Infine un bellissimo lago circolare, che si stende sotto una splendida caverna: ha una partenza lievemente complicata. Non richiede una vera e propria corda doppia, ma il livello dell’acqua è basso rispetto al terrazzino di partenza e rende difficile saltare al volo nel canotto.
Luca ci riesce al primo colpo, anche perchè io gli ho tenuto fermo il canotto con le mani. Attraversa il lago e poi io recupero il canotto con la corda.
Per istinto mi tolgo lo zaino e lo appoggio sul terrazzino. Quando provo a entrare nel canotto, questo mi sguscia via da sotto e, piuttosto che far cadere in acqua lo zaino (con abbigliamento, sacco a pelo, viveri…), preferisco andare a bagno io, tenendo fermo con le mani lo zaino sul terrazzino. Purtroppo la mia macchina fotografica (un’automotica Nikon, di colore nero: un vero must di quegli anni, NdR) era a tracolla e il bagno, rinfrescante per me, non è risultato salutare per lei.
Da questo momento in avanti io non sarò più in grado di scattare fotografie. Per fortuna c’è la reflex di Luca, per cui disponiamo di documentazione anche della successiva parte della discesa.
Sulla riva opposta del laghetto si stende una splendida spiaggetta di ciottoli. E’ un luogo incantevole per bivaccare: l’acqua del lago è trasparente, forse per una risorgenza interna, il clima qui è fresco. Siamo stanchi e l’idea di riposarci ci solletica. Ma siamo appena a metà pomeriggio: preferiamo avanzare ancora un po’ per ridurre la discesa del giorno dopo.
Al termine di un tratto dove si cammina, la gola si increspa in una nuova serie di salti con laghetti. Qui i salti non sono attrezzati e, giustamente, la relazione dice di risalire una paretina sulla sinistra della gola e di tagliare orizzontalmente su tracce di sentiero. La deviazione non è così evidente e dopo un po’ sono tentato di tornare indietro a controllare di non averla oltrepassata.
Invece la paretina è proprio lì, all’altezza di un salto non attrezzato: due tronchi appoggiati (secondo il costume sardo) permettono di superare il primo tratto più arcigno. Poi si sale per una decina di metri lungo una successione di blocchi di bianco calcare (massimo terzo grado). Una successiva traccia di sentiero taglia in orizzontale su pendii ripidi ed esposti e ritorna nella gola a valle dei laghetti non attrezzati.
Il luogo è imponente: il canyon è chiuso da pareti alte e strapiombanti, però la gola non è stretta come in altri tratti, bensì larga qualche decina di metri: c’è quindi più luce e ciò fa risaltare il calcare rossastro, più affascinante rispetto a quello grigio e freddo del mattino.
La relazione indica questo come un adeguato luogo per il bivacco. Il fondo è costituito da piccoli ciottoli, bordeggiati da grossi massi sui quali stendiamo ad asciugare i nostri capi di abbigliamento. Due pietre annerite dal fuoco testimoniano che non siamo i primi a bivaccare qui.
Scende la sera e ci sediamo uno di fronte all’altro a sorseggiare la nostra razione di minestra liofilizzata.
Mi viene da sorridere: “Guardaci qua – dico a Luca – Noi, figli di questa società postindustriale, consumistica ed egocentrica! Noi che parliamo al telefono tutto il giorno, lavoriamo via modem, comunichiamo con il fax!”.
Mi fa eco Luca: “Già, un economista e un avvocato, normalmente abituati al completo blu, con la cravatta in tinta e la “24 ore” sotto braccio: ora siamo soli, sperduti in mezzo alla Sardegna e, se ci dovesse attaccare un cinghiale, tutta la nostra cultura non ci servirebbe a un bel niente!”
Ci sdraiamo sui nostri materassini e lasciamo che la luna piena illumini a giorno la scena circostante. L’atmosfera si riempie di suoni e rumori inconsueti: escono gli animali notturni e noi costituiamo per loro motivo di curiosità e preoccupazione, quanto loro lo sono per noi.
Stavo dormendo già da un paio d’ore, quando Luca mi sveglia: “Senti, c’è un animale a non più di venti metri da noi!”
Ascolto in silenzio quel respiro sordo, un po’ asmatico e rabbrividisco a sentire lo zoccolo che raspa il terreno.
Ce ne stiamo buoni buoni nei nostri sacchi a pelo per un’oretta e finalmente l’animale si stanca di annusarci e se ne va. Descrivendo in seguito la scena a un pastore sardo, ci dirà che si trattava di un muflone. Un muflone!
Suona la sveglia e, ingollato un veloce tè, è tempo di partire.
Dopo poche centinaia di metri, il primo di una serie di laghetti ci obbliga di nuovo a gonfiare il canotto. Questi laghetti sono più piccoli di quelli di ieri, ma più profondi: in uno di questi la partenza è lievemente problematica perché un po’ strapiombante, ma il saggio utilizzo di uno spit rende tutto più facile ed evita il bagno di ieri.
Terminata questa serie di laghetti, la relazione dice di deviare a destra, risalendo un erto pendio.
“Sarà di qua?” ci chiediamo perplessi.
Salgo una decina di metri in avanscoperta e son rassicurato da una cicca di sigaretta abbandonata (oggi, a trovare una cicca in un luogo del genere, rabbrividirei per lo sdegno: come cambiano i tempi e le valutazioni!, NdA), segno di precedenti passaggi.
Iniziamo a risalire, ma una parete di calcare bianco-grigiastro, obbligandoci a svoltare verso destra, ci sta riportando sopra il luogo del bivacco. Non va bene, anziché scendere, stiamo risalendo la gola.
Ancora una volta l’iniziativa personale deve supplire alla vaghezza (voluta?) delle relazioni, che al riguardo non sono particolarmente precise, e decidiamo di tornare sui nostri passi.
Proprio sopra di noi, intuisco un punto debole nelle parete rocciosa. Salendo verticalmente, giungiamo alla base di un risalto strapiombante, dove due tronchi appoggiati indicano, come fanno i pastori sardi, che il passaggio è proprio lì. I due tronchi, anche se sufficientemente robusti, sporgono non di poco dalla roccia e mi si accappona la pelle all’idea di salire lungo quella scala così eterea.
Attrezzo una sosta con una fettuccia intorno ad un albero alla base dei tronchi, ma un po’ spostata per maggior sicurezza.
Luca mi assicura con un mezzo barcaiolo e io inizio a salire. Ho lasciato giù lo zaino perché mi spaventava l’idea che i tronchi si potessero spezzare per il troppo peso. I tronchi presentano delle asperità e dei rametti che fungono da pioli. La sicurezza è aleatoria, perché, se si spezzasse questa strana scala, prima di mandare in tiro la corda, piomberei diritto diritto nel pendio sottostante.
Ma i tronchi tengono e i pioli sono più resistenti delle mie scariche di adrenalina. Finalmente tocco il bordo superiore del salto roccioso e riesco a piazzare una fettuccia intorno ad uno spuntoncino.
Con il rinvio alla mia altezza mi sento più tranquillo, ma ora si tratta di passare dal tronco al terreno. Una salda “maniglietta” nel calcare in alto a destra rende tutto più facile e in un battibaleno mi trovo sul soprastante pendio roccioso.
Sorpresa!!!! L’albero dove pensavo di fare sosta si rivela secco e inconsistente. Salgo ancora una decina di metri, all’arbusto successivo.
“Molla tutto!” e Luca esegue.
Aggancia il mio zaino alla corda e io lo recupero. Naturalmente lo zaino si incastra nello strapiombo e, tentando di forzarne il recupero, faccio strappare la stoffa della patta superiore. Lo zaino rimane incastrato: temo addirittura che, tirando ulteriormente, si possa squarciare tutto, rovesciando tutto il contenuto.
Sono stanco e il problema è più serio del previsto. Non ho sufficiente corda a disposizione per scendere fino allo zaino e non capisco perchè Luca non mi aiuti. In realtà lui potrebbe fare ben poco, attaccato alla sua sosta, molti metri sotto. Mi prende lo sconforto: in un attimo esce fuori tutta la stanchezza e lo stress.
Mi viene un groppo in gola. Un groppo in gola?!? Un’orca marina con un groppo in gola?!? Ma, dai! Riprendo il controllo emotivo.
“Luca, adesso faccio calare lo zaino verso di te. Quando riesci, prendilo con le mani e lancialo verso l’esterno, oltre la verticale dello strapiombo: io cercherò di recuperarlo velocemente!”
Il giochino non riesce al primo tentativo, ma in breve lo zaino arriva alla mia sosta. Eccolo qua, il mio vecchio Millet arancione, rattoppato e sbiadito dalla pioggia. Quante ne abbiamo passate insieme!!
Lui non può nascondere tutte le sue “cicatrici”, tra cui un cuore trafitto dipinto con un pennarello nero, ricordo di una bella vacanza di qualche anno fa. Il rammendo che farò ora sulla patta si aggiungerà alla lunga schiera di cicatrici che lo zaino si porta dietro.
Ho avuto altri zaini e altri ancora ne utilizzerò in futuro: zaini magari più moderni, più leggeri, più resistenti. Ma a nessuno sono affezionato come a questo sacco rattoppato e sbiadito. Lui ha vissuto sulla sua pelle le mie stesse emozioni (lo sferzare della pioggia, l’insistenza del vento, l’appiccicarsi dei fiocchi di neve…) e i segni che si porta sono gli stessi che ho dentro io.
“Vieni pure!” urlo a Luca e in quattro e quattr’otto me lo ritrovo accanto.
Annuisce e dice tra i denti: “Bello schifo di passaggio!”
Venti metri sopra di noi, incontriamo una traccia di sentiero orizzontale. La seguiamo verso sinistra (che è il senso di discesa delle gole) e degradiamo progressivamente.
Rientriamo nella codula all’altezza di un’ampia sala circolare, dove si innesta la Codula di Orbisi. Il caldo soffocante e la puzza che sale dai laghetti semi stagnanti sono tutt’altro che piacevoli.
Proseguiamo nella discesa e sbuchiamo sopra a un lago che la relazione descrive come un’irresistibile tentazione per il bagno. In realtà noi lo troviamo piuttosto repellente, ma è probabile che a inizio primavera, con acqua fresca e limpida, la situazione sia completamente diversa.
Una traccia di sentiero ci invita ad alzarci sul lato destro orografico della codula, ma capiamo ben presto che ci sta allontanando verticalmente: deve trattarsi della diramazione che conduce a una sorgente citata dalle relazioni.
Anche se iniziamo ad avere problemi di acqua potabile (siamo partiti con sei litri in totale), preferiamo uscire il più in fretta possibile dalle gole.
Luca è molto abile a scorgere un cordone da doppia attorno ad un albero. Il cordone è di colore verde e si mimetizza alla perfezione con le fronde dell’alberello. Questa volta tocca a lui dimostrarsi “possente”.
Con una breve doppia, siamo sulla riva del lago sottostante. Di fronte al salto successivo, intuiamo che dobbiamo traversare a sinistra (orografica) lungo il solito ripido pendio di ciottoli. Raggiungiamo un terrazzino, dove attorno ad un grosso masso è posto un ancoraggio. Rinforzo l’ancoraggio con un nuovo cordone e ci lanciamo nell’ennesima corda doppia.
Atterriamo in una terrazza apparentemente sbarrata da una parete perpendicolare, che sembra insormontabile. In realtà la parete è forata e, affacciandoci da questo buco, scorgiamo, sotto di noi, il famoso “lago sotterraneo”, più volte citato nelle relazioni.
Mi attendevo qualcosa di diverso, qualcosa di più affascinante e poetico, ma è probabile che, con più acqua, la situazione si presenti molto diversa. Oppure siamo troppo stanchi e poco propensi alla poesia dei luoghi.
Una clessidra in alto a sinistra costituisce l’ancoraggio per una doppia abbastanza aerea, con la quale si scende verso il lago sotterraneo.
Si arriva su un terrazzino che sta sulla riva a monte del lago: decidiamo di fermarci un po’ a riposare e, mentre ci concediamo l’ultima sorsata di acqua e limonata, sentiamo delle voci: qualcuno è arrivato al laghetto dal basso. Fin qui è infatti possibile risalire le gole fra massi accatastati, mentre la parete che chiude a monte il lago sotterraneo è pressoché invalicabile: infatti l’abbiamo scesa con una doppia strapiombante.
Gli intrepidi “risalitori” attraversano il laghetto a nuoto e, utilizzando una corda che getto loro, in pochi minuti sono sul nostro terrazzino.
“Ciao, mi chiamo Graziano e sono di Dorgali!” un bel viso sorridente, denti bianchissimi e pelle molto abbronzata. Sono i primi esseri umani che vediamo da tre giorni.
Ci spiega che fa la guida turistica per un’agenzia di Dorgali e sta accompagnando due clienti in un’escursione che termina proprio qui, al lago sotterraneo.
(Nota 2020: nell’articolo pubblicato nel 1991 non c’è traccia di un aneddoto che però ricordo ancora con estrema precisione. Graziano e i suoi compagni indossavano semplicemente t-shirt, costume da bagno e scarpe da ginnastica. Noi due invece eravamo tutti bardati: pantaloni lunghi, imbrago, casco, zainoni… Graziano, col suo sorriso genuino, disse: “Il lago sotterraneo è il luogo di incontro di due approcci a Gorropu. Noi dal basso in costume da bagno e voi dall’alto in abbigliamento grottesco”.Grottesco??? Lì per lì, da piemontese permaloso, dentro di me pensai: “Ma come si permette ‘sto qua?” il suo sorriso era però di un candore senza alcuna dietrologia. Infatti ben presto capii che per abbigliamento grottesco intendeva l’abbigliamento da grotta, una specie di divisa speleo. Buon diavolo di Graziano, chissà dov’è ora? Per qualche mese tenemmo una corrispondenza epistolare – non era ancora l’età delle mail o di Whatsapp. Ma poi ci siamo persi, la vita è fatta così. Ma Gorropu mi permette di ricordarmi perfettamente di lui, a distanza di 30 anni).
Noi gonfiamo per l’ultima volta il canotto e lo attraversiamo nel solito modo. All’uscita, una scala metallica, appesa a uno spit, permette di accedere dal basso alla concavità rocciosa dove è custodito il lago.
Noi preferiamo fare una piccola doppia e, recuperata la corda, chiudiamo mentalmente il capitolo Gorropu. Le difficoltà tecniche sono terminate.
In realtà si presenta davanti a noi un tratto ancora lungo, prima dell’uscita vera e propria dalle gole. Tuttavia il lago sotterraneo costituisce il vero baluardo insuperabile dal basso e appare come il ponte levatoio di un castello medioevale: recuperata la doppia, nell’orrido più selvaggio non ci possiamo tornare più.
La presenza di Graziano, esperto conoscitore di questi luoghi, ci è molto utile: a valle del lago sotterraneo, occorre innalzarsi sul fianco destro orografico, per poi discendere obliquamente fino a valicare la codula e risalire una paretina rocciosa, questa volta sul fianco sinistro.
Si ritorna poi nella codula scendendo un diedrino verticale, in cima al quale un chiodo (tutt’altro che raccomandabile) permette uno straccio di assicurazione. Tutto questo per superare una serie di laghetti con pereti strapiombanti.
Ritornati nel letto della codula, la si discende cercando l’itinerario in un dedalo di grossi massi: ora bisogna calarsi in una profonda fenditura, ora invece ci si aiuta con un tronco appoggiato. Seguendo Graziano velocizziamo non poco i tempi di percorrenza di questo tratto.
Entriamo nelle Gole di Gorropu propriamente dette in termini turistici. Le pareti di calcare nero e rossastro si innalzano fino a quattro-cinquecento metri e imprimono al luogo un carisma di onnipotenza della natura.
L’ambiente è molto selvaggio, quasi opprimente e lo si avverte ad ogni passo. Silenziosi rapaci perlustrano le gole dall’alto.
Tutto molto bello, molto scenografico. Eppure mi ha maggiormente colpito il tratto superiore, quello di ieri, tra salti rocciosi e laghetti profondi. Là mi sono davvero sentito fuori da ogni realtà consumistica, là ho avvertito il contatto intimo con la natura selvaggia.
Stiamo per abbandonare le gole: ancora dieci minuti e arriveremo alla risorgenza del Flumineddu, dove potremo bere a volontà.
Sono combattuto fra due desideri: quello di uscire rapidamente per riposarmi e quello di rimanere all’infinito in questo mondo fiabesco. Sì, perché la realtà di Gorropu nè una realtà piacevole, costituita di calcare, di laghetti, di inebrianti profumi…
Scendendo le ultime rocce plasmate dall’acqua milioni di anni addietro, la mia mente corre già a quello che sarò fra pochi giorni: impettito nel mio blazer d’ordinanza, con l’attenzione rivolta ai mercati finanziari, non sembrerò lo stesso che ha vissuto l’esperienza di Gorropu.
Eppure, che mi piaccia o no, quella è la mia vita, non questa.
“Restiamo ancora un attimo…” imploro.
Ma è davvero ora di uscire dalle gole. Questa notte dormiremo in una caverna che si apre nella parete rocciosa nei pressi della risorgenza. Preparando la solita minestra, alzerò lo sguardo e scorgerò il Supramonte oscurarsi lentamente.
Domani il sole sorgerà ancora e illuminerà di nuovo Gorropu e così dopodomani e dopodomani ancora, mentre io, piccolo uomo, mi sforzerò per portare a sera le mie stanche giornate.
Ogni mia fatica mi sembrerà come un’opera ciclopica quale quella del Flumineddu, che si è scavato la strada verso il mare attraverso il Supramonte.
Ogni mia goccia di sudore mi apparirà come una goccia d’acqua che modella il calcare. Chiuso nella prigione della mia quotidianità, non mi ricorderò più quanto sia piccola la mia vita in confronto all’imponenza delle Gole di Gorropu. Mi illuderò di paragonare ogni mio istante ad un istante vissuto qua, ma la differenza sarà abissale.
Magari non ci tornerai mai più, ma Gorropu ti resta per sempre nelle ossa come nella pelle, ti resta nella testa come nel cuore. Gorropu, l’attimo fuggente…
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Caro Carlo,
il tuo racconto, ottimo e di piacevole lettura, ha risvegliato un bellissimo ricordo. Percorsi anch’io otto anni dopo di te, il tratto inferiore del Gorropu da solo, fermandomi prima delle difficoltà alpinistiche, anche perché non avevo attrezzatura. Leggendo ora, ritengo di essere stato saggio. Ero in campeggio al mare con la famiglia ad Orosei, ma ero deciso a esplorare l’interno della Sardegna. Incontrai solo nella seconda parte del percorso dei locali, che erano scesi da un accesso laterale, più alpinistico e con i quali mi accompagnai fino sotto al lago. Mi sono rimaste impresse le gigantesche pareti, i grossi massi, la sete, la solitudine per la maggior parte del percorso, attimi di paura perché mi ero incrodato nel ritorno, faticando a trovare un passaggio chiave. Un ambiente ancora selvaggio, come molte altre zone della Sardegna. Comunque esperienza fantastica, pur con il percorso più “turistico”, ma allora ancora esplorativo EE, forse EEA. Mi raccontarono della parte alta molto più interessante, come confermi nel racconto, mi ripromisi di tornare, ma senza successo.
Mi sono sentita anche io protagonista in quella escursione. Anche io anni fa ho percorso i primi otto km di quella gola che ti lascia senza fiato. Alla mia età sono dei meravigliosi ricordi che questo articolo ha riportato a galla. Grazie
Il marchio Crovella è garanzia di articoli molto belli
Bel racconto Carlo! Un bel quadretto di vita selvatica in cui Crovella da giovane diventa spassoso. Luoghi magici e un piemontese tutto d’un pezzo. Grazie di aver condiviso questo bel ricordo.