Dissociazioni sulla Punta Esposito
di Alessandra Panvini Rosati
Ricevo proposte sconclusionate per il prossimo fine settimana. Il classico impigrimento da dopo vacanze con progettualità amorfe.
L’unica che accetterei di buon grado non arriva. Non può arrivare, ma provoca ugualmente un leggero velo di tristezza.
Anche in questo la montagna è onesta metafora: mai dar qualcosa per scontato.
La via più elementare può celare insidie – la via più impervia può far soffrire ma donare batticuore e adrenalina quando, finalmente, si porta a compimento.
Se resti sul “troppo semplice”, guadagni emozioni “garantite al minimo sindacale”.
E’ troppo facile essere coraggiosi a distanza di sicurezza, lo diceva Esopo. Se provi ad alzare l’asticella, puoi anche tornare indietro ma almeno sei partito e, se indietro non torni, ciò che provi è ben altro.
I rapporti umani sono lo stesso: a noi la scelta di restare in falesia oppure affrontare l’incognita dell’ambiente. Non mi sono mai posta il problema: il boulder col materassone sotto mi fa schifo.
Devo solo gestirmi come una progressione in cordata: l’ansia e l’impazienza non sono buone compagne.
La negatività bukowskiana del “sempre di più, mi aspetto sempre meno” non ha ragione di esserci.
Bene, dopo le divagazioni da “Ditelo a Donna Letizia”, come lo risolvo ‘sto fine settimana?
La voglia di andare in montagna è sempre molta.
Abbiamo capito che mi piacerebbe andarci con te, come pochi giorni fa, quando mi hai mostrato i tuoi monti pallidi: i più belli di questo e di tutti gli altri eventuali mondi.
Abbiamo capito che non sarà così.
Apatia nel proporre qualcosa in prima persona al solito giro di amici e nell’accettare iniziative.
S’ipotizza la solita, ennesima, via ferrata; no grazie.
Sto a casa? Sarebbe peggio.
Vorrei comunque allenarmi, pena il rischio di arrancare in debito d’ossigeno dietro di te, la prossima volta che saremo insieme.
Che non siam mica qui a divertirci!
Se non vado in montagna, mi resta il correre come un criceto sulla ruota nel parco qui sotto.
Allora, accetto la ferrata? Uffa, ho il kit omologato UIAA fuori dagli occhi.
Criceto o ferrata. Indecisione ridicola di chi è comunque fortunato in questa vita.
Ricevo una tua mail: ti sei allenato, anche oggi, stai andando forte, pare che sia anche merito mio, ti auguri di rivedermi presto.
Mi si appiccica un sorriso stile “emoticon” sulla faccia tirata, da troppe ore di lavoro.
Sto iniziando ad apprezzare l’utilità di questo “world wide web”.
Tolto un mare di stronzate adolescenziali, adatto a chi non sa destreggiarsi nel sociale reale, è pur vero che accorcia le distanze: ci basta un clic e ci ritroviamo in un succedaneo di vicinanza.
Sì, però, pure io non posso rischiare di “perdere la gamba”, che la stagione sta quasi per ricominciare.
Mi chiama Stefano – ottimo. Propone una salita in ambiente in zona Val Brembana. Tutto in giornata; non riesce a organizzare di meglio, causa lavoro. Venduta.
Io e lui + due suoi amici che non conosco, Zoe e Tommaso.
Tra meno di un mese tutto diventerà troppo freddo e saremo costretti a ”falesiare” o ripiegare su escursioni.
Ti scrivo: vado con tre amici a fare il diedro nord-nord-est alla Punta Esposito.
Mi rispondi che hai una gara.
Mi piacerebbe venire a fare il tifo almeno una volta. Sarebbe già un successo riuscire a dirtelo, senza ascoltare l’eco lontano di angosce di cui non avresti comunque alcuna colpa.
Ci “messaggeremo” alla fine della nostra giornata.
Nonostante la via oggettivamente corta, Stefano valuta bene i tempi di viaggio e di avvicinamento affidandosi alla relazione. Su questo diedro non c’è poi granché, nemmeno in internet.
Appuntamento prima dell’alba, io lui e Tommaso, al solito svincolo – poi recuperiamo Zoe.
Via che andiamo, verso la Valle.
Sono un po’ stanca per il poco recupero – dopo i due giorni trascorsi con te, in altre zone e con ben altri panorami – ma ogni lasciata, è persa.
Chissà se stai iniziando a conoscermi, se t’interessa quello che si anticipa nella mia quarta di copertina?
Per il momento mi culla l’automobile e mi abbandono nei ricordi di un lago Fedaia condito con risate sincere.
Si parcheggia, si preparano i ferri. Non ho capito se devo cimentarmi da prima oppure no. Ci incamminiamo verso la diga di Fregabolgia.
L’avvicinamento è dato circa un’ora e mezza. Probabilmente descritto da uno come te, geneticamente modificato da anni e anni di dislivelli fatti a perdifiato; noi infatti ci impieghiamo una bella oretta in più e non siamo proprio improvvisati!
Il tempo non è stratosferico ma quest’anno ci si deve accontentare.
Iniziamo l’ultimo tratto su pietrone malferme che mi ricordano l’Alta via dell’Adamello; troviamo l’attacco.
La bella notizia è che farò comodamente la seconda di cordata. Zoe, infatti, vuole provare a salire da prima, con Tommaso da secondo.
Stefano ed io: un team già sperimentato con successo. M’imbrago e faccio passare le corde.
Tu, adesso, starai partendo per la gara.
Competizione breve; so che darai il massimo e mi aspetto questo da te (sempre che abbia il diritto di aspettarmi qualcosa. Lo sapevo, è ripartito l’eco).
Platone dice che ”l’inizio è la parte più importante di un lavoro”.
Sto per arrampicare ma divago col pensiero a quei due o tre mattoni che tu ed io abbiamo eretto con due passate di calce: non vorrei farli cadere rovinosamente, alla faccia di Platone.
Pare che il passaggino ostico sia proprio a metà del primo tiro. Meglio così, che poi almeno ce lo siamo tolti dal pensiero!
L’esatto opposto di ciò che si dovrebbe esser capaci di mantenere nelle relazioni affettive.
Se tenessimo sempre un “passaggino ostico” da superare, per non rischiare di annoiare e annoiarci?
Stefano mi dice che sta per partire. Devo smetterla di pensare ai 6b dell’esistenza ma stare sul pezzo col nostro banale IV+ su roccia molto meno filosofica.
Partito, primo tiro.
Mi chiede di stare ferma e pazientare finché non parta anche Zoe e non superi la placchetta in stile Piaz (pare l’abbia inventato lui, altro che Dülfer). In questo modo, se avesse bisogno, potrebbe tenersi alla nostra corda. Un accorgimento molto sensato per fare da prima, assistita.
Zoe incontra subito dei problemi: risente della tensione e dell’inesperienza. Forse il trovarsi con due sconosciuti come me e Tommaso (il quartetto si è conosciuto tre ore fa per la prima volta) non l’aiuta. La capisco perfettamente. Noi tutti cerchiamo di sostenerla.
Mi offro di salire di fianco a lei, per vedere se riesco a passare e mostrarle il trucco (da sotto, è sempre tutto facile).
Perdiamo un bel po’ di tempo.
Lei fa un prusik sulla nostra corda tesa per provare a passare, come avesse una corda fissa; anche così ormai è fritta. Sconsolata e abbattuta decide di non volerne più sapere e si fa calare.
A questo punto io posso partire, curiosa di vedere che cosa ci sia di così impossibile lassù a 20 metri.
Certo, con la corda tesa dall’alto nulla è poi così arduo.
La serie di piccoli imprevisti inizia subito: lei ha dimenticato di sciogliere il prusik sulla mia corda! Stefano non può recuperarmi ed io sono ferma a metà, “comodamente” in aderenza in spaccata.
Se il buongiorno si vede dal mattino…
Il mio primo si cala fino al prusik e lo scioglie; torna in sosta e inizia a recuperarmi.
Io arrivo al passaggino delicato e, ormai imbufalita dall’attesa e con orgoglio femminile anche in nome di Zoe, passo ’sto cavolo di passaggio. Tieh!
Sto pensando alla Marmolada, così… giusto per ricordare un bacio bello.
Giunta in sosta da Stefano, riproviamo a convincere la nostra amica a risalire ma si è già slegata.
Tommaso invece vuole continuare con noi.
Perdiamo altro tempo.
Io mi slego e mi attacco con una longe alla sosta.
Buttiamo giù il capo della corda al nostro nuovo terzo e gli urliamo che, comunque, dovrà portarsi su anche l’altra corda. I tiri sono lunghi, non si potrebbe usarne solo una e salirci a forbice. Il terzo ci raggiunge in sosta.
Altra metafora che mi sovviene, mentre guardo il panorama che – detto tra me e te (non ci sente nessuno!) – non è da Sindrome di Stendhal.
A volte ci si lega con soggetti che si rivelano non adatti.
Né buoni né cattivi, semplicemente non idonei al tipo di via che prediligiamo.
La paura di sciogliere l’otto, a volte ci fa proseguire nella cordata, consapevoli di continuare nell’errore.
Sto paragonando parti della mia vita a una cordata sbagliata?
E’ tutta colpa del tempo che stiamo perdendo con tutte queste manovre: non mi concentro e penso troppo.
Tra un groviglio e l’altro, ognuno si lega alla sua corda. Verde la mia – gialla quella di Tommaso.
Stefano si deve portare sul groppone due corde intere, belle lunghe e pesanti.
Zoe ci saluta dal basso e pian piano riscende i pietroni. Appuntamento nel pomeriggio al ponte, prima del lago del Prato.
Tu, nel frattempo, avrai già finito la tua gara.
Vorrei chiamarti e sapere com’è andata, ma ho le mani fredde, il portatile spento (che tanto non prende mai) e non è nemmeno molto alpinistico telefonare, tra un barcaiolo e l’altro!
In questo momento i miei pensieri si dissociano dalle mie azioni. Per fortuna senza compromettere la mia fisicità.
Il secondo tiro è divertente, un bel diedro con roccia buona.
Il primo sale bene, in sicurezza; noi due secondi pure.
Le corde iniziano il balletto tra loro: annodate e difficili nel recupero, hai presente la danza delle vipere?
La via è da proteggere, Stefano fa il suo dovere e noi il nostro.
Le corde invece hanno davvero deciso di renderci la vita impossibile.
Forse sbagliamo qualcosa, fatto sta che siamo lenti sia nel dare corda sia nel recuperarla. Perdiamo troppo tempo con queste manovre!
Si deve salire sotto a un canalino, poi stare a destra: la visione sopra di me di blocchi instabili mi aumenta il senso di disagio.
E’ una via che mi opprime, non mi piace, non è il mio calcare, non sono i miei panorami, la giornata si rannuvola. Inizia a non essere più divertente. Nonostante tutto, siamo tranquilli.
La sicurezza nei passi non manca mai, la via non è così tecnica ma – non so come – è tutto reso lento e tetro.
Io entro nella fase del “chi me l’ha fatto fare – questa è l’ultima volta – settimana prossima un bel corso di cucina fusion sulla differenza tra ramen e wok”.
Non si contano più le circostanze in cui mi sono detta “questa è l’ultima volta”.
Altro parallelismo. Quante volte, pur sapendolo, si reitera lo stesso sbaglio?
Oppure, ed è questa la fattispecie: affrontiamo il rischio dell’ignoto (in parete come nella vita) perché è nel nostro carattere ma, soprattutto, perché è lì dove potrebbe nascondersi la gioia pura?
Sì, sì, gioia pura… ma vorrei essere altrove, adesso.
Mi basterebbe una Corna 30 Passi, con te.
Noi tre continuiamo a litigare con le corde – se non lo si vedesse non si crederebbe.
Stefano sale al tiro che dovrebbe portare al Gendarme, dal quale poi ci si cala per circa 20 metri con una doppia.
Inizia a innervosirsi, non lo vediamo più, ma lo sentiamo.
Qualcosa blocca le corde, tanto per cambiare, lui non può recuperarci.
Non gli resta che scendere, in qualche modo, fino a dove fanno attrito e risolvere il problema.
Succede, fa parte del gioco quando si va in ambiente e i gradi non sono elevatissimi. Il tempo invece non si aggroviglia, scorre.
Sarai tornato a casa, ormai?
In sosta, Tommaso guarda lontano verso il rifugio Calvi.
E’ un bell’uomo, gentile e solare, arrivato da un Paese di fronte al nostro. Un Paese che anche noi abbiamo bombardato.
Stefano è sempre sopra di noi che traffica con la verde e la gialla. Un delirio.
Dai ricordi di una tragedia scoppiata di là dal Mediterraneo, salto di palo in frasca e penso al Pasubio, altro luogo di tragedia e sofferenza. Ci penso in modo egoista e superficiale.
Pasubio uguale galleria uguale mio piede che trova unica pozzanghera uguale te che ridi uguale due mani che si stringono uguale incontro ravvicinato arrivato dal nulla e inaspettato uguale ma dove sei stato fino al giorno prima?
Incredibile come la mia mente riesca a vagare in questo modo, mentre il nostro primo di cordata sta sacramentando per cercare di farci salire.
Dovrei sentirmi in colpa ma non c’è nulla che né io né Tommaso si possa fare mentre Stefano attrezza la sosta, dove peraltro sta conficcando un nuovo chiodo.
Ci chiama: recupero!
E’ fatta, riusciamo a salire e cerchiamo di farlo nel modo più veloce possibile.
Troviamo il punto in cui dobbiamo calarci. Scendiamo.
A me pare un po’ strano: troppo sfasciume, poco chiara la descrizione, non mi ritengo così esperta quindi esprimo i miei dubbi con poca convinzione. La via è una, si deve risalire il canale di sfasciumi.
Stefano si accorge in questo momento che c’è un altro anello di calata; significa che siamo andati fuori via calandoci troppo.
Risaliamo, non cambia granché, soltanto un mezzo tiro in più. Che già siam fulmini di guerra…
Adesso la roccia è decisamente brutta. Bisogna stare attenti a cosa si afferra, testare ogni appoggio.
Tra noi i sorrisi sono terminati, solo per evidente irritazione nel trovarsi su una via che si pensava ben diversa.
Pare che arrivati in vetta ci sia una “divertente crestina” da percorrere tutta fino ad arrivare a un’evidente selletta, con anelli di calata da dove, con due lunghe doppie, arrivare al lago Zelt ed essere finalmente fuori dalle peste.
Bene, tra un nodo e l’altro – ormai tra noi e le corde è guerra aperta – arriviamo in cima.
Siccome non è la nostra giornata, lo avevamo capito, arriva la nebbia.
Io vorrei avere uno di quei biscotti cartonati (leggasi ai cinque cereali, ma sanno di cartone pressato) che ti porti sempre nello zaino, vorrei sentire la tua mano quando me lo porgi.
Ho fame ma non è il tempo di fermarsi.
La “divertente crestina” si rivela una cresta di tutto rispetto: altri 4 tiri in orizzontale da fare con estrema attenzione. Ogni roccia è malferma, i rami dei pini mughi sono scivolosi, noi siamo estenuati e le corde ormai stanno vincendo la guerra.
Nessuno perde la calma, ognuno sta al suo posto. In cordata si comprende il valore della compattezza e della responsabilità.
Ecco un’altra metafora! Inizio a essere stanca, anche per filosofeggiare.
Mi sale un po’ di sconforto, sta diventando tardi… molto tardi… non si trovano gli anelli di calata. Proseguiamo. Altro non possiamo fare.
Come un assetato che arriva all’oasi nel deserto, finalmente Stefano lancia un urlo liberatorio: trovati gli anelli!
Io e Tommaso ci guardiamo, una pacca sulla spalla e ci torna un mezzo sorriso.
Affrettiamo il passo su questa “divertente cresta”.
L’anello di calata è un chiodo dell’epoca di Preuss con un cordino usato dalla mummia del Similaun.
Decidiamo di provare a non morire sulla Punta Esposito. Sostituiamo almeno il cordino con uno mio, sempre vecchiotto ma di questo secolo.
Sarò l’ultima a calarmi. Parte Stefano. Parte Tommaso.
Guardo a ovest il sole che sta tramontando, riesco a scattare un paio di foto.
Voglio solo scendere, sentire la tua voce, rivederti.
Provare a dirti una banalità coraggiosa.
Stanchezza psicologica mischiata a disidratazione e crisi ipoglicemica (manca qualcosa?). I pensieri fanno attrito forse più delle corde.
Se qualcosa andasse storto, avrei negli occhi quest’ultima immagine: un bel sole sul filo dell’oblio, dietro a un colle scuro, le prime stelle ormai sveglie.
Non ti avrei detto che ti voglio bene.
Non che sia la rivelazione del terzo segreto di Fatima, a ben pensarci… ma qui, adesso, è importante per me.
Shakespeare scrisse che non si può esigere l’amore di nessuno ma si deve dar loro buone ragioni per apprezzarci e aspettare che la vita faccia il resto, o qualcosa di simile.
Devo unire Platone a Shakespeare, mentre sto sistemandomi il reverso per calarmi.
Mi riprometto di mandarti un whatsapp, appena sarò fuori dalle doppie.
Platone è sistemato. Shakespeare aspetterà che… la vita faccia il resto.
Non è ancora finita. La corda s’incastra e non riusciamo a tirarla giù. Più la scrolliamo e la frustiamo, più aumenta il rischio che ci piovano addosso altri sassi.
Ormai è buio. Zoe sarà disperata.
Il capo cordata risale tutta la lunghezza della corda con un prusik che aiuta solo un po’ il suo risalire – la sblocca. Torna giù: è disidratato, teso, stanco. Nessuno parla. Recuperiamo la corda. Predisponiamo l’ultima doppia. Ci caliamo. La via è davvero finita.
Non riusciamo a capire che cosa sia andato così storto, da farci stare in parete per più di 11 ore.
Una stretta di mano e sorsi di acqua, acqua, acqua.
Togliamo le scarpette, accendiamo le frontali.
Breve sosta, per riporre le corde e rimettere in sesto gli zaini.
E’ buio e abbiamo ancora da scendere pietre e ghiaioni franosi, arrivare al lago, percorrere il sentiero a ritroso per poi reimmetterci sugli ultimi 6 km di carrareccia e ritornare alla macchina.
Estraggo il cellulare e lo accendo.
Telefoniamo immediatamente a Zoe che, nel frattempo, ha perso 6 anni di vita e bevuto 6 grappe per superare la tensione nell’unico bar del paese ancora aperto.
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“Ciao, abbiamo avuto qualche problema ma ora tutto ok. Com’è andata la gara? Noi stiamo tornando ora verso l’auto … ti voglio bene. Se mi succede qualcosa, almeno lo sai. J”
Invia a…
L’articolo è molto interessante, complimenti.
Ora mi è più chiaro come si comportano i classici ” merenderos”!
Brava Alessandra, scritto originale, intelligente e molto piacevole.
All’uomo-ratto invece il premio “commento del cazzo”, consolidato ormai con diverse performances
Mc Ewan…va beh, vuol dire che cercherò di prenderla filosificamente
Accipicchia ho un fans
Secondo me farti una cultura, letteraria, leggere McEwan, filosifica, ti aiuterebbe molto caro Mt. 0.0
Io ho amato.
Lo scritto è più lungo della Via. Noi scendevamo per il sentiero a sinistra della cresta fra i pini mughi, che col passare degli anni chissà quanto l’hanno invaso se nessuno li ha potati perché tocca sempre agli altri.
Ratman prova a tacere senza parlare.
Così magari sembri solo un imbecille normale.
Da lontano.
Molti pensano che se vai a capo ogni due o tre parole hai scritto una poesia.
Altri, come in questo caso, che giustapporre frasi scarne scimiottando un flusso di coscienza senza costruire una trama minimamente avvincente sia fare letteratura.
Provi a riscriverlo con metà parole.
Grazie. Davvero. Perché sei stata arguta e mirabile nello scrivere, nell’unire i due piani di realtà, nell’uso delle metafore e delle citazioni sprigionando sentimenti, poesia e storia… interiore e non. Arguta. Profondità sotto uno strato di leggerezza. Sono stata lì con te, con voi, nel dentro e nel fuori dal tuo vissuto.Con grande ammirazione per il tuo scrivere ti dico grazie per avere condiviso anche con me. Nadia
A questi qui l’eliminazione del Soccorso Alpino gli fa un baffo!
Che avventura ! Per noi era una vietta “scuola”. E di anelli non ce n’erano, ci si calava sui mughi. Nelle nostre valli c’è di molto peggio, credetemi, ad esempio una nord del monte Secco, ahah ! Ciao
Umanità.