Metadiario – 239 – Dolori, gioie, interviste e menate varie – AG (2001-009)
L’autunno 2001 non fu generoso, anzi fu denso di operosità e di lotta continua per sostenere le spese di Melograno, K3, Petra ed Elena, espresse non necessariamente in ordine di urgenza. A questo si era aggiunta la triste notizia della molto insidiosa malattia che aveva colpito Nella, che il 4 settembre mi scrisse:
“Beato che sei allo Stelvio, seppure per lavoro…
Come sto? Boh, vado un po’ a giorni ma non è certo uno stare bene tra debolezza fisica e mal di stomaco con nausea, difficoltà digestive e annessi vari. Ed era evidente che l’inattività e la scarsa efficienza fisica mi portassero anche alla depressione, così mi ritrovo a gestire disagi su più fronti in perfetta solitudine, perché agli altri devi sempre dire che va tutto bene, tanto nessuno può fare niente per te ed è inutile che si preoccupino. Sono a metà, ho fatto 3 cicli, lunedì prossimo toccherebbe la quarta dose, sempre che gli esami del sangue lo consentano.
Sono stata una ventina di giorni a Courmayeur, dal 19 agosto sono a Milano perché il 20 ho fatto il terzo ciclo. Questa e la situazione, un po’ ridotta all’osso, ma il succo è questo. Che fatica dover fare sempre i conti con se stessi! Grazie per avermi scritto, un bacio Nella”.
E il 2 ottobre:
“Ciao Ale, come ti va? Com’è andata in Marmolada? Io sto bene, ma domani dovrei andare a prendermi la quinta somministrazione di chemio, così ho davanti circa una settimana di malessere. Però mi sta tornando la voglia di riprendere i contatti di lavoro e di essere un po’ più attiva. Fatti sentire se hai tempo, ciao ciao Nella”.
Non rimaneva che incrociare le dita e sperare.
Nel frattempo con Katja Roediger avevamo concluso un accordo di collaborazione che presto si definì in attività di pr per comunicare particolarità e offerte di località turistiche del Tirolo. Quando in settembre la K3 riuscì a firmare il contratto con la Stubaital e con Neustift avevo ben chiaro che quello era un grande giorno, ma non avevo ancora ben compreso quali e quanti compromessi con la mia etica mi attendevano.
Da Neustift ricevemmo subito quelli che secondo loro dovevano essere i punti da comunicare. Non era la maggiore o minore verità di quei temi che mi rendeva perplesso: erano i contenuti che erano in contrasto con il mio modo di vedere la montagna e con quella che avrebbe dovuto, secondo me, essere la sua frequentazione. Per l’ufficio del turismo occorreva mettere l’accento sull’accogliente ospitalità, sulle tante curiosità culturali, sulla precisione del servizio, sull’efficienza dei mezzi di trasporto, sui buoni prezzi comparati con l’Italia.
Dovevamo ricordare che la valle dello Stubai offre neve garantita, grazie ai suoi quattro ghiacciai; che è vicinissima al Brennero; che è ricca di paesini e paesaggi, “dove l’uomo non ha conquistato la natura, ma è collegato con essa”; che la ricezione alberghiera offriva dagli appartamenti agli hotel a cinque stelle. E poi ancora la parte gemütlich, cioè gastronomia, ristoranti panoramici, open-air bar e baite per lo sci con terrazze al sole. E, sempre stando nel godereccio, discoteche, livemusic, bar e pub. Per chi cercava delle alternative allo sci di pista, ecco a Neustift la “Winterromantik”: 120 km di passeggiate su neve battuta, equitazione, pattinaggio sul ghiaccio o slitte a cavallo facilitate da un’ottima segnalazione dei Winterwanderwege.
Ma il pezzo forte era senza dubbio l’offerta di 100 km di anelli di fondo nella valle e sul ghiacciaio.
Io vedevo invece la falsità dell’affermazione che l’uomo “non aveva conquistato la natura”, con l’evidente strazio del massiccio intervento su quei quattro ghiacciai, un carosello spensierato che nei giorni di punta ospitava fino a 10.000 auto nell’enorme parcheggio alla base della funivia. Non riuscivo ad apprezzare quel gigante addomesticato, mi faceva pena l’esserci e il parlarne bene. In seguito avrei potuto precisare il mio malessere considerando che l’ordine e la pulizia non sempre sono amici dell’ambiente.
Invece, secondo loro era scontato che chiunque leggesse dépliant e siti internet ne dovesse dare un’interpretazione positiva. Dunque cominciavo a sentirmi prigioniero. Sulla carta dovevo mediare ciò che io stesso non riuscivo a comporre: in sostanza, mentre scrivevo i testi, sapevo di mentire.
Per altri versi avrei dovuto invece essere contento: il 2001 si concludeva lasciandomi intravvedere finalmente la possibilità di mantenere la mia promessa di tredici anni prima: la bonifica del Canalone del Gigio.
Mario Pinoli il 22 settembre era riuscito a presentare a Luxottica, in occasione dei 40 anni della nota azienda cadorina, il cleaning ambientale della Marmolada, un lavoro previsto per il luglio 2002. L’illustrazione della nostra iniziativa a quell’evento, in provincia di Belluno con il leader mondiale degli occhiali di sede proprio ad Agordo, fu molto bella e toccante, con la partecipazione di ben tremila dipendenti Luxottica, alla presenza del ministro dello sviluppo economico Antonio Marzano e con la conduzione dell’allora onnipresente Alessandro Cecchi Pavone. L’idea gettata lì sul palco assieme a lui e al cavalier Leonardo Del Vecchio non poteva passare inosservata, con tanto di trenta giornalisti accreditati per conto di Corriere della Sera, L’Espresso, Le Monde, Die Welt, El País, ecc.
Non fu difficile arrivare al contratto tra Luxottica e Montana per quello che fu chiamato “Enviro-Cleaning Marmolada 2002”. In esso era specificato che l’operazione di bonifica e risanamento ambientale sarebbe stata localizzata nel sito definito “Canalone del Gigio” sulla Marmolada in provincia di Belluno. Questo in base alle conclusioni riportate in seguito ai ripetuti sopralluoghi già realizzati in loco. Per ciò che riguardava la realizzazione, l’accordo si limitava a indicare l’estate del 2002, perché un timing più preciso non era al momento definibile, soggetto com’era alle condizioni del sito dovute alle precipitazioni nevose invernali e primaverili e all’evoluzione meteorologica estiva.
Fu stabilito che io sarei stato il responsabile tecnico del progetto mentre Mario sarebbe stato il responsabile ambientale.
Le attività avrebbero previsto la rimozione ex-situ dei rifiuti depositati, la pulizia generale delle superfici, la raccolta e selezione dei rifiuti al fine di impostare lo smaltimento differenziato delle varie frazioni, il trasporto a valle con logistica ottimizzata per ridurre l’impatto dei trasporti dei rifiuti e lo smaltimento a valle presso siti autorizzati.
Al termine delle operazioni sarebbe stata redatta una speciale “certificazione ambientale del sito” da parte dell’auditor di Montana, al fine di attestare la completezza dell’operazione di risanamento.
Il costo previsto era di 160.000.000 di lire. Questo, oltre alle attività elencate, comprendeva la consulenza per la redazione dei testi necessari all’attività di comunicazione e il supporto per un’intervista a Reinhold Messner (che nel 1988 si era calato con me nel canalone).
Al fine di evidenziare nel dettaglio i punti base dell’intervento per offrire i corretti spunti per la comunicazione e divulgazione dell’iniziativa, erano state elencate le valenze principali del progetto:
– l’intervento aveva un significato ambientale vero in quanto vera e propria operazione di bonifica e risanamento, con la doppia valenza concreta e simbolica;
– il sito era stato in precedenza oggetto di cronaca per la gravità ambientale e culturale;
– non sarebbe stata pulita l’intera Marmolada, che comunque in anni di poco precedenti era stata oggetto di cleaning parziali sul ghiacciaio da parte della Provincia di Trento e nel Vallone di Antermoia da parte della Provincia di Belluno e società Funivie;
– verosimilmente era una pulizia “speciale” che pochi erano in grado di fare date le difficoltà.
Il contratto fu firmato dalle parti ma qualche mese prima della realizzazione ci fu chiesto espressamente di rinunciare a qualunque attività di comunicazione. Il cavalier Del Vecchio voleva la bonifica ma non voleva associare Luxottica all’operazione ritenendola potenzialmente pericolosa per il buon nome della Marmolada e dell’Agordino in generale.
Nel frattempo continuavano le nostre attività d’ufficio, come ad esempio la realizzazione dei calendari, che anche quest’anno prnsavamo di dover fare in due edizioni, quella normale e quella per Techint. Il formato assai ampio (base 70 cm e altezza 50 cm), la qualità della carta, ma soprattutto il numero esiguo di copie (che per esempio nel caso Techint non superavano le 1300) facevano sì che il costo per copia fosse abbastanza elevato (15.500 lire) e che quindi l’accesso alle librerie fosse complicato, anche perché non riuscivamo mai a pubblicare prima della prima settimana di dicembre… In più Techint, dopo le due edizioni 2000 e 2001, non volle più continuare con noi, anche perché nell’aprile 2001 era morto il presidente Agostino Rocca, in un incidente aereo in Argentina con il suo grande amico, il famoso alpinista José Luis Fonrouge.
Dicevo prima della difficoltà a seguire le spese delle numerose attività ludico-culturali che le mie bambine assommavano. Per curiosità, allego una delle periodiche mail che mamma Bibi mi inviava a questo proposito:
“20 settembre 2001
Vecchio mio! La Petrunzola aspettava che tu la richiamassi ieri sera, per condividere il suo entusiasmo dopo il sopralluogo al CIL (Centro Ippico Lombardo). Sei consapevole che ci aspetta una vita piena di equini? Per favore, chiamale! Per quanto riguarda lo sci club, ho pensato quanto segue: i primi due anni l’aspetto agonistico non c’è, si tratta solo di un allenamento più intenso di una normale scuola di sci fatta per una o due settimane all’anno (che comunque costa, circa 250 franchi svizzeri a botta). Per quanto riguarda il weekend, se non vi va di venire a Verbier una volta al mese per 4 mesi, considera che comunque Elena, in quel fatidico weekend, starebbe con te e la Petra potrebbe “recuperare” durante la settimana con maggiori visite e nanne da voi in corso Vercelli. Il costo (con un certo sforzo) posso accollarmelo io: vuol dire che se poi diventerà campionessa del mondo di slalom, le coppe le terrò tutte ma proprio tutte io!
Non voglio comunque insistere: ho tenuto solo a fare delle precisazioni che ieri anche per mancanza di tempo non ho potuto fare. Pensaci, parlane a fondo, soprattutto con lei, e poi sappimi dire anche perché, tanto, non è detto che la prendano.
A proposito: il 24 è vero che arriva in via Rospigliosi ma dalla fermata al CIL c’è un bel pezzo a piedi che tra l’altro passa attraverso il parcheggio dello stadio e d’inverno col buio e la nebbia non mi piace proprio! Che fare?
Per questo weekend, venerdì sera le tengo io e sabato le porto da Guya, comunque dopo pranzo: la chiamerò e mi metterò d’accordo con lei in base ai loro desiderata (metti che vogliano fare qualcosa con le loro amichette il pomeriggio… e allora le porterei in serata). Perché non le tieni tu anche domenica sera a dormire? fammi sapere. Ciao B”.
Probabilmente vivevo a un livello superiore a quanto potevo permettermi. Dai miei appunti ricavo che, per esempio, nel 2001 solo in regali natalizi alla ristretta cerchia dei parenti, Guya ed io avevamo speso la bellezza di 2.478.500 lire. E non era per nulla un anno eccezionale, era la norma.
La questione del Giallo del Buco, e la vicinanza di questa via ad Ayò, mi aveva portato a ricontattare dopo tanto tempo l’amico Lorenzo Merlo, che nel frattempo era diventato responsabile della comunicazione del Collegio delle Guide Alpine Lombarde. Ecco i botta e risposta via mail:
“29 settembre 2001
Caro Lorenzo, ricevo la tua circolare per le guide alpine lombarde. E’ tanto che non ci si sente e non ci si vede! In Sardegna lo scorso agosto ho salito una via con un mio amico, senza saperlo molto vicino alla vostra via Ayò. Mi piacerebbe riallacciare un contatto. Il 6 e 7 ottobre sarò al Passo della Presolana per l’aggiornamento guide. Tu? Cari saluti”.
“1 ottobre 2001
Ho sentito l’alito della bellezza. Poche cose meglio. Grazie Alessandro.
Come credo non ti sia difficile immaginare, sentivo il peso di avviare una comunicazione con le guide, le veterane (tu sei incluso per meriti vari) in particolare. La tua nota mi è di conforto grande. La tua amicizia è preziosa.
Non sarò alla Presolana (ho fatto l’aggiornamento a maggio) e dovrei essere occupato, diversamente ci vedremo su.
Per quanto intuisci o condividi della mia azione interna con le guide, cerca di muovere la sensibilità di altre guide, anche una soltanto.
Hai salito la placca a sinistra di Ayò?
Hai trovato uno spit mezzo piantato (o qualcosa di simile), all’inizio della placca stessa?”.
“3 ottobre 2001
Caro Alessandro, perché non andiamo un pomeriggio a scalare, per esempio mercoledì prossimo? Mi spiegherai di lu Casteddaccio (dalle foto stento a riconoscerlo) e passiamo un pomeriggio insieme. Diversamente aspetto la prima opportunità. Sono contento di conoscere la tua priorità per le guide: cai-istruttori e professionisti: invece di tentare una sintesi della mia opinione, posso dire che Togni è sempre più capace di reclutare le intelligenze che mostriamo di avere (noi singole guide, e non), quindi, la sua disponibilità ad aggiornare il suo pensiero e il suo atteggiamento, anche nei confronti di temi “da sempre” trattati in modo “brutale”.
Una volta che le guide saranno (da me) coinvolte in un cenacolo di dibattito penso si possa avviare una strategia per provocare consapevolezze varie. Senza queste il discorso si ferma a livello intellettuale: aver capito diviene l’aver esaurito il problema e offre la possibilità di criticare chi non si comporta secondo il nuovo canone acquisito. In pratica un vero fondamentalistico disastro”.
“8 ottobre 2001
Hai ragione, mi ero dimenticato. I tempi sono un po’ cambiati, non ho tanto tempo come una volta. Ma se ci teniamo in contatto, vedrai che capiterà. Hai figli di 7-11 anni? In tal caso sarebe assai facile…”.
“8 ottobre 2001
Rocco, 8 anni, cammina e scala; Jandira, 6 anni, cammina e scala a volte. Mi sembra si possa provare gli abbinamenti alla prima idea possibile. A presto”.
Di quel periodo fu anche un’intervista che Roberto Mantovani mi fece per un notiziario della Ferrino. Avevo (e ovviamente ho tuttora) grande stima per Roberto, che ritengo uno dei pochissimi validi storici dell’alpinismo. Ero dunque contento di poter parlare con lui. Ecco il suo prodotto, a suo dire un po’ costretto da esigenze redazionali di spazio:
“Alessandro Gogna, parliamo di montagna, un ambiente che ha accompagnato un lungo periodo della tua storia.
Direi tutta la mia vita, fino ad oggi. Il mio primo ricordo della montagna risale al 1954, a una vacanza in Valsugana con i miei genitori. Ero un ragazzino, avevo otto anni. Rimasi colpito da un cartellone che riportava, dipinti a mano, i sentieri, le malghe e le cime della zona. Al punto da copiarlo su un foglio di carta da disegno, con le mie matite colorate. Fu con quella “mappa” che cominciai a scoprire la montagna. Seguirono le prime vere escursioni, poi una ferrata sulla Marmolada nel 1961. Le prime esperienze sulla roccia, nell’entroterra di Genova, dove abitavo, risalgono al ’62. Poi ci fu il corso di alpinismo, e quello fu davvero l’inizio di tutta la storia.
La roccia, il ghiaccio, l’alta quota sulle Alpi e poi sull’Himalaya: tanti anni di grande alpinismo. Ma oggi qual è la montagna dei tuoi sogni? Ti senti legato a un luogo particolare, a un ambiente?
La “mia” montagna non ha le sembianze di un luogo preciso; appartiene alla mia fantasia, e non c’è nessuna realtà, neanche la più bella, che riesca a eguagliare la montagna nascosta nei miei pensieri. Ma sono ugualmente contento quando mi trovo su un bel ghiacciaio, su una cima, una parete che in qualche modo richiamano la mia montagna ideale. Anche se c’è uno scarto tra realtà e fantasia.
Una curiosità. Ogni genitore cerca di “fabbricare” ricordi belli per i propri figli; ricordi che sono destinati a durare nel tempo, ad accompagnarli nella vita. Tu sei padre di due bambine: in montagna come scegli i luoghi che le aiutino a farsi un’immagine positiva della natura?
Cerco di essere cauto nel travasare la mia passione su di loro, vorrei che interessi e inclinazioni scaturissero da spinte interiori. E non propongo mai dei luoghi scelti da me con chissà quale scopo; al contrario, andiamo in posti sempre diversi. Se esiste una rispondenza tra la montagna e il loro modo di sentire, questa deve crescere senza interferenze esterne.
Adesso abbandoniamo le escursioni e facciamo un salto insieme sulle altissime quote.
Se c’è un aspetto della montagna che oggi non mi interessa, è l’altissima quota. Oggi non sento affatto il bisogno di scalare una vetta himalayana, non ambisco alla sofferenza che comporta l’alpinismo d’alta quota. Anche perché non sono più un ragazzino. Intendiamoci: sono stato in Himalaya anche di recente, ma non per scalare. Avevo organizzato una campagna di pulizia all’Everest, sul versante tibetano. Con la mia squadra, tra il campo base e il campo base avanzato, a 4600 metri di altitudine, ho rimosso 4800 chili di rifiuti abbandonati dalle spedizioni che ogni anno tentano l’ascensione alla cima, e poi li ho avviati a una discarica a Tingri, dopo averli caricati sui camion. In seguito sono salito fin quasi a 7000 metri. Ma davvero: l’alpinismo in Himalaya non mi attira. Mi piacciono la natura, le valli, la wilderness. Il tipo di arrampicata che prediligo è quello che non richiede grandi allenamenti. Quest’estate, ad esempio, nei pochi giorni di vacanza, sono andato a fare free climbing in Sardegna, con un amico. Ho aperto cinque vie nuove senza uno spit e senza un chiodo, utilizzando solo protezioni amovibili, in assoluta libertà, senza dover lottare col brutto tempo e in un ambiente naturale incontaminato.
All’Everest hai anche effettuato un programma di test su tende, zaini e sacchipiuma.
Sì, e la faccenda mi ha impegnato parecchio. Non sono certamente un feticista nei confronti dell’attrezzatura, ma mi sono impegnato parecchio. È importante che a quelle quote si possa disporre di materiali adeguati, testati con cura in situazioni limite. Prendiamo le tende: in alta montagna rappresentano la salvezza, e perciò devono essere resistenti e funzionali. Ma questo lavoro tecnico non l’ho svolto solo all’Everest. Ho cominciato qualche anno fa, con i primi esperimenti dell’High Lab, prima in Dolomiti, nel corso di una lunga traversata in sci, e poi sulla grande cresta del Monte Rosa, da Andrate al Colle Sesia.
Oltre che un alpinista e uno scrittore, tu sei anche un fotografo.
Sì, ma la fotografia è uno strumento da cui non mi lascio dominare. E vorrei che le mie immagini fornissero alla gente un mezzo capace di far leva sulla fantasia, e non fossero un regalo a scatola chiusa: il rapporto con la natura non può esaurirsi attraverso una fotografia, per quanto bella e importante.
Assieme a Marco Milani sei quasi giunto al termine di un lavoro titanico: documentare i paesaggi dell’intero arco alpino. Qual è, oggi, lo stato di salute della grande catena montuosa?
Le Alpi conservano una grande parte di territorio integro e selvaggio, dov’è ancora possibile vivere l’avventura. Ma si tratta di uno spazio minacciato. Segnaletica ovunque, cementificazione, “sviluppo” esasperato. Anche certi caroselli sciistici, costruiti negli anni ‘80 e ‘90, mi lasciano dei dubbi. È vero, sono puliti e gestiti in maniera radicalmente diversa rispetto al passato. Ma annullano la wilderness, l’anima selvaggia della montagna. Va bene la pulizia, perché a nessuno piace la sporcizia. Ma eliminare il problema dei rifiuti non basta. Perché non ha senso colonizzare l’alta quota e farne un luna park, un giardino pubblico. I ghiacciai e il mondo delle altezze devono rimanere un mondo intatto e selvaggio, per noi e per le generazioni future. Sono un patrimonio importante per tutta l’umanità.
Come vedi il tuo futuro in montagna?
Vorrei continuare a lavorare in montagna, ma soprattutto frequentare le Alpi per il puro piacere di farlo. Magari senza l’assillo della macchina fotografica, in compagnia degli amici, e soprattutto, lo ripeto, senza dovermi sottoporre a duri allenamenti per poter ripetere questa o quella via importante. Andrò in montagna finché potrò farlo. Vuol dire che quando sarò più vecchio, diminuirò il mio impegno. Magari arrampicando su difficoltà un po’ inferiori a quelle attuali”.
E arrivò il dicembre, un mese che Guya ed io potemmo finalmente dedicare al trasloco in corso Vercelli 8, la stessa casa dove avevo vissuto con Bibi qualche anno. Ma con un’importante variazione. Ora eravamo in un appartamento a superficie doppia, visto che i locali da me vissuti erano stati uniti al locale adiacente da Simone e Mariolina. Insomma, ci trovavamo in una specie di reggia, con tutti i miei libri (finalmente). Io avevo sistemato il mio studio nella sala del camino e se Guya mi chiamava dalla stanza da letto non potevo sentirla…
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Sempre entusiasmanti, i racconti di Alessandro!
Che belli che eravate anche da giovani!
Bello!
Sui cittadini che mandano i figli allo sci club con mire da Coppa del Mondo ho grandi riserve.
O si vive in montagna trasferendocisi, o non funziona.
Il resto sono paranoie genitoriali che fanno buttare un sacco di soldi e i ragazzi non si divertono.
Con tutti gli impegni e le menate varie che allora aveva, Gogna trovò il tempo per venire fin qui a fare Il ritorno di Lucifero e poter ammirare dall’alto il mare di faggi dorati che la val d’Aveto offre in questa stagione agli occhi dei suoi estimatori.